Biennale di Venezia, chiuso il Padiglione Israele. Ruth Patir "Vi spiego perché non lo apriremo" - La Provincia Pavese
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Ruth Patir: “Ecco perché non apriremo il padiglione israeliano alla Biennale”

Lo sfogo dell’artista e regista: «Sento che il tempo dell’arte è perduto e ho bisogno di credere che tornerà»

Michela tamburrino
2 minuti di lettura

Creato da

(ansa)

VENEZIA. Tutto pronto e tutto allestito nel candido padiglione d’Israele per aprire assieme agli altri 86 padiglioni presenti, la Sessantesima Esposizione internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, con ingresso al pubblico programmato per sabato. Il Padiglione d’Israele nel parco centrale dei Giardini a Venezia, aveva l’aria d’aver superato quasi indenne la bufera, il boicottaggio del fronte pro-Palestina, la lettera di scomunica di artisti e operatori culturali riuniti per l’occasione sotto la sigla Anga (Art Not Genocide Alliance) sconfessati dal Ministero della Cultura e dalla Biennale e persino le scritte “Free Palestina” rimaste eco di altre sensibilità artistiche anche se rappresentate in pittura a pochi metri di distanza. Tutto pronto per l’inaugurazione di ieri, nei giorni previsti per la preview allestita fino al 20 aprile. Ieri mattina invece, ai tanti visitatori che già affollano la città, la doccia fredda di un cartello a luci spente, da leggersi sotto lo sguardo attento di un presidio militare dell’Esercito chiamato a tutela del padiglione e degli ospiti: «L’artista e i curatori del Padiglione d’Israele apriranno la mostra solo al cessate il fuoco e quando verrà raggiunto un accordo di rilascio degli ostaggi» fatti prigionieri lo scorso 7 ottobre da Hamas. Ad oggi, ancora un centinaio sono detenuti. Si tratta «di una scelta di solidarietà verso le famiglie degli ostaggi e della grande comunità di Israele che chiede un cambiamento».

Difficile per i curatori Mira Lapidot e Tamar Margalit e per l’artista e regista Ruth Patir, aprire le porte sorridendo per illustrare un progetto, (M) Otherland, di vita, «in un momento in cui non c’è rispetto per essa. Come artista e come educatrice - ha detto Patir - rifiuto fortemente il boicottaggio culturale ma sono in grande difficoltà a presentare un progetto che parla di vulnerabilità per la vita in un momento in cui non c’è rispetto per essa. Aspetto il momento in cui i cuori potranno ancora una volta essere aperti all’arte». In un post pubblicato su Instagram, approfondisce quanto già detto sull’onda dell’emozione: «Sento che il tempo dell’arte è perduto e ho bisogno di credere che tornerà. Al momento non credo ci siano risposte corrette e posso fare ciò che posso solo con lo spazio che ho. Preferisco far sentire la mia voce per coloro che sostengo, per il cessate il fuoco e riportare le persone a casa. Non ce la facciamo più». La speranza però resiste visto che la Biennale arte chiuderà i battenti il 24 novembre. Anche se, insiste l’artista, «non c’è una fine in vista ma solo la promessa di un altro dolore, perdita e devastazione. L’arte può aspettare ma le persone che vivono l’inferno, no».

A commentare questa difficile presa d’atto degli artisti israeliani, è intervenuto anche Adriano Pedrosa, curatore dall’Esposizione e internazionale d’arte della Biennale: «Rispetto la decisione degli artisti e del curatore del padiglione Israele. È una decisione molto coraggiosa». Mai come quest’anno la cronaca geopolitica ha fatto irruzione nell’arte e mai come quest’anno il titolo che tutto raccoglie, “Stranieri ovunque” avrebbe corrisposto perfettamente al racconto di Israele con un sentire di terra voluta, una sorta di metafora che rimanda al distacco dalle origini e di appartenenze nazionali.

Migrazioni e decolonizzazioni le parole chiave della mostra curata da Adriano Pedrosa e su queste d’appoggio la storia artistica che si dipana davanti agli occhi del visitatore. All’Arsenale su un gigantesco lavoro, compare più volte la scritta “Viva Palestina”, eppure parla di storie messicane. Invece nel video nella sezione speciale dedicata a Disobedience Archive, si racconta di diaspora e di disobbedienza mentre su un logo si chiede il boicottaggio del padiglione d’Israele. Poco lontano, sempre ai giardini, ecco il padiglione russo che non è più russo in quanto si è fatto ospitante della Bolivia.

Rimanda ancora alla cronaca e alla guerra il padiglione che invece si consuma in una stanza e vede la rappresentanza dell’Ucraina. In un video rimontato come fosse un film lungo 56 minuti, dunque forte di una sua drammaturgia interna, sono stati assemblate riprese amatoriali che hanno fermato i bombardamenti russi. Una sorta di dopo aggressione, test drammatico fatto di testimonianze civili tratte da spezzoni trovati su Youtube, Facebook, esperienze reali e richieste di spiegazioni sul perché di questa guerra. Un lavoro di assemblaggio e di dolore, di bombardamenti e di pianti e grida voluto apunto da due artisti ucraini che s’interrogano su quanto è accaduto e continua ad accadere. —

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