Lidia Poët, la serie Netflix che racconta la prima avvocata italiana
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Lidia Poët, la serie Netflix che racconta la prima avvocata italiana

Lidia Poët

Nel mondo sempre più popolato delle serie Tv ha fatto molto parlare La legge di Lidia Poët, recentemente uscita per Netflix. Vediamo insieme di cosa parla e se l’esperimento è riuscito.

Parliamo di esperimento perché La legge di Lidia Poët è un lavoro che va un po’ al di là dei canoni della fiction italiana. Non siamo certo di fronte al primo caso di produzione nostrana per Netflix; dai casi poco riusciti di Luna Nera e Curon, a quelle di più largo successo come Baby e Incastrati con la premiata ditta Ficarra & Picone.

E non è nemmeno una novità trovarsi di fronte a una serie prodotta con buon budget e ambizioni internazionali; non lo è dai tempi di Romanzo Criminale e Gomorra, per dire. È però vero che la fiction italiana rimane ancora ampiamente legata agli stilemi Rai se non addirittura quelli di Mediaset. Così il nostro pubblico generalista è abituato a trovarsi di fronte personaggi rassicuranti e – per dirla con Boris – luci smarmellate.

Recente l’esempio di Fiori sopra l’inferno della Rai, che trasforma il cupo thriller di Ilaria Tuti in un giallo per famiglie che pare girato con un I-Phone. E che, ovviamente, ha riscosso largo successo.

La legge di Lidia Poët si pone quindi in una categoria totalmente diversa, essendo destinata a un pubblico molto più giovane e più smaliziato nel campo delle serie. Ma chi è Lidia Poët e perché è stata scelta per una produzione così importante?

Per rispondere dobbiamo tornare a Torino, dove la fiction è ambientata, e alla fine dell’Ottocento. In un’Italia che si era appena fatta la società era ovviamente ben lontana dalle conquiste civili di oggi. La figura della donna, per esempio, era ancora ben lontana dal diritto di voto e largamente confinata a stare chiusa in casa a sfornare pargoli.

In questo contesto non certo facile troviamo la vera Lidia Poët.
La giovane Lidia, dopo gli studi liceali, decide di iscriversi a giurisprudenza. Siamo nel 1878. Tre anni dopo si laurea con una tesi sulla condizione femminile nella società e sul diritto di voto per le donne. Dopo il praticantato, Lidia passa l’esame di abilitazione e tenta di iscriversi all’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Torino.

Nonostante la dura presa di posizione dei due legali Desiderato Chiaves e Federico Spantigati, contrari all’idea di un’avvocata nel loro club esclusivo di maschi, la richiesta della Poët viene accettata. Il 9 agosto 1883 Lidia diventa la prima donna ammessa all’esercizio dell’avvocatura. Sembrerebbe una storia a lieto fine, ma non è così.

Il procuratore generale del Regno impugna  l’ammissione all’ordine e fa ricorso alla Corte d’Appello di Torino. Risultato: in appello e cassazione gli viene data ragione e alla povera Lidia viene revocata l’iscrizione. Le motivazioni sembrano prese da una barzelletta, se non dal programma dei partiti reazionari, praticamente la stessa cosa.

Lidia Poët non può fare l’avvocata perché è inopportuno che le donne siano coinvolte “nello strepitio dei pubblici giudizi”, in cui potevano essere menzionati argomenti imbarazzanti per “fanciulle oneste”; la toga, poi, sarebbe stata ridicola sui vestiti “strani e bizzarri” delle donne; i giudici avrebbero potuto favorire una “avvocata leggiadra” e infine perché il gentil sesso era troppo delicato e privo di doti morali e intellettuali.

Tutte stupidaggini, ovviamente, talmente lontane dalle idee di oggi che far arrivare la storia di Lidia alle nuove generazioni è operazione ancora più meritoria. La vera Lidia Poët è alla fine costretta a lavorare nello studio del fratello avvocato, rimanendo nell’ambito ma non potendo comunque esercitare. La donna entrerà finalmente nell’Ordine degli Avvocati solo a 65 anni.

La serie Tv prende le mosse proprio dalla vicenda del rifiuto della sua iscrizione all’Ordine. La scelta è quella – discussa – di dare un taglio quasi contemporaneo al personaggio e alla sua vicenda. Intendiamoci, anche qui nulla di rivoluzionario, ma abbastanza per attirare le prime critiche ancora prima dell’uscita.

Per il ruolo della protagonista la scelta è caduta su Matilda De Angelis, già partner del regista Matteo Rovere nel suo fortunato esordio al cinema, Veloce come il vento. La trama rivede in modo estremamente libero le vicende di Lidia Poët, qui dipinta come una moderna eroina investigatrice.

Lidia è libera e anticonformista, sicuramente molto più di quanto sarebbe lecito aspettarsi nella società dell’epoca; non solo, più che affinare il suo talento da avvocata, la protagonista entra nel vivo dell’azione e conduce sul campo le indagini che di volta in volta portano a scagionare il proprio assistito.

Tecnicamente siamo di fronte a un prodotto valido; Torino è forse la vera protagonista con la sua bellezza e una ricostruzione d’epoca tutto sommato assai piacevole. Dobbiamo subito arrivare però alle dolenti note. Secondo chi scrive, queste non vanno ricercate troppo nell’esagerata contemporaneità di Lidia Poët: in fondo non siamo davanti a un documentario. Lo scopo di raggiungere e incuriosire il pubblico più giovane è anzi talmente importante da far perdonare qualche eccesso in questo senso.

A fare acqua sono innanzitutto le trame, pervase da un sottile senso di sciatteria. La durata è forse troppo breve per dirimere trame così complesse; ci troviamo così di fronte a vicende piuttosto piatte, spesso decise da un colpo di genio un po’ prevedibile di Lidia. Non ci sono false piste, e di quelle ce ne sono almeno un paio anche in Don Matteo, viva dio (è proprio il caso di dirlo).

Senza nulla togliere al talento di Matilda De Angelis, la sua bravura pare un po’ sacrificata dall’inopinata scelta di inserire scene di sesso piuttosto gratuite. Così de botto, senza senso, per citare ancora Boris. Inoltre, la stessa attrice sfoggia una recitazione e una dizione che rendono a volte difficile capire i dialoghi.

Non troppo a suo agio anche il bravo Eduardo Scarpetta, che interpreta il giornalista Jacopo Barberis. Il suo carattere, nelle intenzioni quello del bello e misterioso, pare essere capitato lì un po’ per caso; anche la sua vicenda, che fa da trama orizzontale lungo gli episodi, si rivela piuttosto improbabile e pretestuosa.

I comprimari, dal fratello avvocato Enrico all’amante scavezzacollo Andrea, rimangono sullo sfondo senza infamia né lode.

Insomma, alla fine La Legge di Lidia Poët finisce per essere una piacevole serie crime d’epoca con qualche difetto di troppo. Per quanto la Torino possa rimandare alla New York de L’alienista, il fascino di quest’ultima serie rimane assai lontano. Siamo più dalle parti di Miss Fisher: Delitti e Misteri, senza che però la protagonista abbia la stessa verve dell’investigatrice australiana.

La Legge di Lidia Poët è così puro intrattenimento con poca attenzione alla storia dell’epoca. Un difetto non da poco, ma che non giustifica del tutto le feroci critiche arrivate da più parti, quasi che parlare di una donna emancipata nell’Italia attuale risulti ancora scomodo per qualcuno.

La serie Tv, in sostanza, pur coi suoi tanti difetti è comunque consigliata, specie al pubblico più giovane. Soprattutto, per non dimenticare quali e quanti diritti siano stati conquistati in poco più di un secolo.

— Onda Musicale

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