L'ultima parola: La vera storia di Dalton Trumbo Recensione

L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo: recensione del film con Bryan Cranston

05 febbraio 2016
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Walter White dimostra di non essere solo una faccia da Breaking Bad.

L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo: recensione del film con Bryan Cranston

Ma... quante sigarette si fumavano a Hollywood negli anni Cinquanta, mentre le dita degli sceneggiatori battevano frenetiche sui tasti della macchina da scrivere, i produttori guardavano avidamente i giornalieri e registi con maglioni attillati color senape accavallavano le gambe sulle loro sedie "personalizzate"? Tante, tantissime. Le labbra che quasi le risucchiavano si poggiavano continuamente su bicchieri colmi di whisky, oppure si aprivano nervosamente per accogliere robuste pasticche di benzedrina, la droga che teneva svegli...

All'epoca le cose andavano proprio così e questa suggestiva iconografia del vizio è ben nota a chi ha frequentato -attraverso i film, i romanzi e gli articoli di giornale - il cinema di quel decennio così fulgido e insieme plumbeo.
Anche Jay Roach la conosce e ne ha subito il fascino, tanto che l’ha resa uno degli elementi di maggiore appeal de L’ultima parola – la vera storia di Dalton Trumbo.
La ricostruzione d’epoca - con la vita da set, occhiali di tartaruga a correggere miopia e presbiopia, radio vintage ovunque, capellini retrò, righe e quadretti e qualche gessato -  è infatti ineccepibile nel nuovo film del regista di un paio di Austin Powers e Ti presento i miei, e noi che guardiamo con occhio estatico ai tempi di William Wyler, Bogey e la Bacall e dei copioni di ferro ci siamo lasciati sedurre, quasi imbambolare, dallo spettacolo, divertendoci come ragazzini a giocare al gioco di "chi è questo, chi è quello", senza renderci conto che non è tutto oro quel che luccica.

Non che Roach si sia servito dell’eccellenza stilistica per mascherare evidenti difetti o per ingraziarsi il pubblico.
No, Jay è un filmmaker onesto, e il direttore della fotografia Jim Denault ha fatto davvero un ottimo lavoro, ma nel film la confezione finisce effettivamente per mascherare la mancanza sia di un crescendo drammatico che della giusta insistenza sull’atrocità e insensatezza dei fatti raccontati. Anche se fu riabilitato e, negli anni in cui figurava nella lista nera, continuò ugualmente a scrivere, a guadagnare e vinse persino due Oscar, Dalton Trumbo visse sul serio un’esperienza devastante, un bruttissimo quarto d’ora che ancora oggi per Tinsel Town è il momento della somma paranoia, della grande vergogna, quella stessa vergogna che ha spinto una buona parte del Kodak Theatre, nel 2008, a incrociare le braccia invece di applaudire quando Elia Kazan è stato premiato con l’Oscar alla carriera.

Di questa negazione del diritto fondamentale dell'uomo a esercitare la liberà di pensiero e di parola il film non dice abbastanza, e forse entra poco nel cuore deluso e rimpicciolito dall’umiliazione del protagonista, il cui soggiorno in carcere viene edulcorato fino a sembrare uno spiacevole incidente. E' curioso, ma, fatta salva una parte iniziale incisiva e ben ritmata, è proprio la sceneggiatura di Tumbo a non rendere giustizia alla vicenda del miglior sceneggiatore di sempre. Lui di sicuro l'avrebbe risistemata, dicendo: "Qui dentro, da qualche parte, c'è una buona storia", ma l’eccentrico Dalton è morto, e il danno non può essere completamente riparato.
Per fortuna, però, ci pensa qualcosa d’altro, o meglio qualcun altro, a risollevare le sorti di un film che pure poggia sulla solida base del libro di Bruce Cook "Dalton Trumbo". Ci pensano gli attori, nessuno escluso: Helen Mirren nei panni della columnist specializzata in gossip Edda Hopper, ancella dell’America più ossessionata dalla "minaccia rossa", Michael Stuhlbarg con il suo vile e doppiogiochista Edward G. Robinson, e John Goodman, favoloso ed esilarante nel ritratto del produttore di b-movie Frank King.

E poi... e poi c’è Bryan Cranston, l’immenso Walter White di Breaking Bad, che si scolla di dosso il re della metanfetamina Eisenberg e che "snocciola", così su due piedi, una performance da Oscar. Cranston aderisce completamente a Tumbo, diventa la sua furiosa energia, la sua genialità, la sua attitudine alla polemica e il suo egocentrismo sfrenato, rendendo nello stesso tempo giustizia alla sua natura di marito devoto, artista generoso, idealista, outsider schierato a favore dei lavoratori meno fortunati.

Non era un compito facile per un attore, perché nell'uomo che riacquistò la dignità grazie a Kirk Douglas e Otto Preminger c’erano il comunista e insieme il capitalista, il family man e l’individualista più sfrenato. Si chiama complessità, o magari semplicemente incoerenza, e oltre a essere una caratteristica comune alla gran parte dell’umanità, c’entra moltissimo con il paese che diede i natali alla magnifica penna da cui nacque Vacanze Romane, terra di democrazia e sogni possibili, ma anche di insensati conservatorismi e perbenismo discriminatorio.
Il film la rappresenta bene, e se pure si appoggia troppo a una storia e a un cast che "si bastano da soli", quando la prende di petto, diventa molto emozionante, e di incoraggiamento. Ecco perché merita la visione.



  • Giornalista specializzata in interviste
  • Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali
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