Intervista con Kyle, il figlio musicista di Clint Eastwood: "Ho reso classiche le colonne sonore dei suoi film" - la Repubblica

Il Venerdì

Kyle Eastwood: “Papà Clint mi ha fatto crescere sul set. Ma io ho preferito la musica”

Kyle e Clint Eastwood, 55 e 93 anni (Antoine Jaussaud)

Kyle e Clint Eastwood, 55 e 93 anni (Antoine Jaussaud)

 

Ha recitato con lui, ma poi ha scelto la musica: il figlio dI Clint Eastwood mette ora insieme i temi dei film del padre. «Crescere sui set è stata per me una cosa normale». Intervista

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A 15 anni Clint Eastwood suonicchiava il piano nei locali in cambio di un pasto. A fine anni 40 il suo passatempo preferito si chiamava “jazzathon”, maratona per le bettole jazz che prevedeva almeno tre discipline: mentire sull’età all’ingresso, far durare il primo drink tutta la notte per non pagare il secondo, e lasciarsi rapire dalle note. Il tipo di appassionato che, se poi non diventa un musicista professionista, saprà attaccare la febbre a qualcun altro.

Kyle Eastwood, 55 anni, quella febbre da jazz se l’è presa tutta. Ha recitato nei film del padre, ma poi è andato dove basso e contrabbasso lo hanno portato, cioè nei club più famosi, facendo parlare di sé più per le capacità che per la parentela. Il suo decimo disco, però, lo dedica all’arcinoto “straniero senza nome”, che ha 93 anni: «Volevo omaggiare lui e i brillanti compositori dei suoi film come Lalo Schifrin, John Williams, Ennio Morricone. Ha senso farlo mentre Clint (lo chiama così, ndr) è ancora nei paraggi», ci racconta via Zoom da Parigi.

Così ecco Eastwood Symphonic, una retrospettiva in cui reinterpreta, con il suo quintetto e la Czech National Symphony Orchestra, dodici titoli arrangiati e diretti da Gast Waltzing, tra cui Il buono, il brutto e il cattivo e Per un pugno di dollari, Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan, Gli spietati, I ponti di Madison County.

Per quanto Kyle abbia scritto le musiche di Mystic River, Million Dollar Baby, Invictus, la scelta è caduta laddove Clint è stato attore, regista e co-compositore.

Kyle, come si è orientato in una filmografia così vasta?
«Ho preso i brani che si prestavano a far dialogare il jazz e l’orchestra sinfonica, cioè improvvisazione e partitura. Una bella sfida. E poi gli imprescindibili western con cui la carriera di mio padre è decollata».


Le ha mai raccontato di quelle riprese?
«So che quando Sergio Leone lo chiamò per fare il secondo film, papà rispose: “Beh, fammi almeno vedere il primo!”. Allora Sergio gli mandò in California una copia montata di Per un pugno di dollari e lui rimase scioccato dalle musiche innovative di Morricone, con spari, versi del coyote, fischi. Papà ha un debole per gli artisti che rivoluzionano tutto».

La prima lezione di pianoforte gliela diede lui, a 8 anni.
«Improvvisammo in salone un boogie-woogie. Suonava con la mano destra e io lo accompagnavo con la sinistra. Facevo già la parte di basso. Anche mia madre suonava. Erano appassionati di be-bop e big band. È la prima musica che ho visto dal vivo».

Monterey Jazz Festival 1977. Sul palco c’era Count Basie.
«Il festival si teneva dietro casa nostra a Carmel. Papà lì era fisso e mi portava nel backstage. Solo anni dopo, capii quanto quello swing mi avesse impressionato».

Com’era stare sul set da adolescente?
«A me sembrava un posto normale. Clint tende a circondarsi delle stesse persone, operatori e costumisti erano di famiglia. Mi divertivo e mi annoiavo. Il cinema vissuto da dentro è così: un breve e intenso picco di eccitazione, e molti tempi morti».

In che modo lavorate sulla musica?
«Lui scrive delle frasi al piano e io le sviluppo. È un autodidatta, ha imparato a orecchio dai dischi, ama le melodie semplici, mentre io ho studiato tanto e complico le cose. Mi ha insegnato la sottrazione. “Meno fai, più è forte”, dice sempre. Un minimalismo che lo caratterizza anche come attore. È più intenso che espansivo».

La composizione cui si sente più legato?
«Lettere da Iwo Jima, dove mi ha dato totale libertà, e Gran Torino, dove ci siamo sposati benissimo».

Nel cd mette la bonus track Cool Blues, gioiellino del film Bird. Partecipò all’odissea per rintracciare le registrazioni live di Charlie Parker?
«No, furono mio padre e Lennie Niehaus che per mesi andarono a caccia dei suoi bootleg. Papà aveva visto Parker dal vivo nel 1949 ed era rimasto folgorato. Voleva che il pubblico provasse qualcosa di simile. Alla fine, s’imbatterono nel materiale del sassofonista Dean Benedetti che, da ossessionato, aveva registrato ogni concerto».

Era di origini italiane, una miniera d’oro…
«Però i suoi nastri erano rovinati, quindi isolarono il sax di Parker e fecero risuonare il resto. Mai nessuno aveva osato una cosa simile, i duetti postumi si sono sdoganati dopo, e io potei godermi musicisti come Ron Carter, Ray Brown, Monty Alexander che venivano in studio per incidere Bird».

Un privilegio ricorrente?
«Abbastanza. Quando produsse il documentario Straight No Chaser papà aveva scovato filmati dimenticati di Thelonious Monk e ci sedemmo per ore a selezionarli. Si parla sempre dei suoi film, ma ha promosso altrettanto la musica».

Trova che la sua regia abbia un taglio jazz?
«Ha la stessa mentalità indipendente. Vuole battute fluide, che suonino estemporanee. Fa pochi ciak, uno o due preferibilmente. A volte tiene la telecamera accesa durante le prove perché sa che in prova avvengono magie non ripetibili. La prima è la migliore: è un approccio be-bop».

Il ricordo più caro insieme?
«Honkytonk Man, road movie dove lui fa un cantante country girovago e beone, e io suo nipote. Avevo 14 anni, la scuola era finita e girammo in estate. Uno spasso essere compagni di stanza e di avventura, e un lusso tutto quel tempo insieme. Per il mio ruolo dovetti imparare a suonare la chitarra. Ancora la custodisco».

Lei ci sarà nel prossimo film?
«Attualmente papà è fermo per lo sciopero a Hollywood. Se chiama, accetto. Ma nemmeno un figlio sa cosa c’è nella mente di Clint».

Sul Venerdì del 15 settembre 2023

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