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Kurt Cobain, 30 anni fa la morte. Perché chi ha vissuto il punk lo ha amato

Il 5 aprile 1994 si tolse la vita il frontman dei Nirvana. Mostrò ai testimoni del ’77 che la scintilla del punk ardeva ancora

di Franco Sarcina e Francesco Prisco

Kurt Cobain 30 anni dopo, interviste senza nessun santino

4' di lettura

Il 5 aprile 1994, a 27 anni di età, moriva suicida Kurt Cobain, frontman dei Nirvana, ideologo del grunge e icona della Generazione X, senza dubbio ultimo fenomeno ecumenico della storia del rock. In occasione del trentennale, ci siamo chiesti: perché è stato tanto amato da chi ha vissuto in prima persona la rivoluzione punk? E perché è stato tanto amato anche da chi non ha vissuto in prima persona la rivoluzione punk? Alla prima domanda prova a rispondere Franco Sarcina, alla seconda Francesco Prisco.

Cosa avranno in comune una rockstar tormentata e un attempato giornalista? Molti diranno: nulla. In realtà, qualcosa c’è.

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Entrambi – abbiamo una differenza di soli tre anni, Cobain è del 1967, chi scrive è nato prima – abbiamo vissuto quel periodo della scena musicale in cui i cambiamenti erano talmente veloci da spiazzarti. A metà degli anni Settanta il rock pareva un genere quasi in declino. I grandi dei Sixties avevano già rilasciato da tempo i loro album migliori, alcuni si erano sciolti, e le nuove tendenze musicali avevano virato su una musica a tratti «difficile», che con l’energia del rock’n’roll e delle sue successive evoluzioni, fino allo spartiacque della fine del «decennio magico», aveva abbastanza poco a che fare.

Era quello che a posteriori viene descritta come l’epoca d’oro del progressive: insomma, gente che sapeva sì suonare, ma forse non rendeva più onore alla frase del grande Pete Townshend: «Il rock non eliminerà i tuoi problemi. Ma ti permetterà di ballarci sopra». Ballare sui tempi dispari di Genesis e Yes sarebbe stato certamente un buon esercizio per un futuro danzatore professionista, ma non era alla portata di un comune preadolescente, biondo, già carino e forse un po’ timido, come Kurt Cobain.

La scintilla

Eppure, qualcosa stava succedendo proprio in quei contradditori Seventies. Negli Usa, sulle ceneri di quel rock «anomalo» e urlato fatto dagli MC5 e dagli Stooges, stava esplodendo un fenomeno nuovo. Canzoni brevi, veloci, apparentemente facili da suonare, con ritmiche dritte come un fuso, basso sulla tonica dei tre/quattro accordi che compongono il brano, distorsione così a manetta da essere considerata dai puristi della seicorde come un sacrilegio o quasi, voce quasi alienata.

Trent’anni senza Kurt Cobain, il Nirvana del grunge

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E look che, più che trasandati, possiamo definire «stracciati». Volutamente e provocatoriamente. I primi protagonisti di questa rivoluzione caotica si esibivano in un locale newyorkese chiamato Cbgb. Inutile ricordare il loro nome: chi li apprezza li conosce, gli altri non capirebbero. Cobain invece capì, e fu una delle sue prime ispirazioni musicali.

Pingpong Usa-Uk

Il genere rimbalzò, come spesso era accaduto anche prima nel mondo del rock, da una parte all’altra dell’oceano, e si trasformò da fenomeno pressoché isolato a quello che a posteriori viene definito come «punk 77». Brutti, sporchi, cattivi; a detta di alcuni con zero capacità musicali (bontà vostra che sapete che cosa è l’Arte) e, spesso, impegnati. Il periodo era favorevole: l’onda del Sessantotto si era spenta e in tutto il mondo andavano di moda gruppi che «sapevano veramente suonare». È l’epoca d’oro del funky e del jazz-rock, ma spazio per chi usava una chitarra o un basso per sfogare la propria adolescenza e le turbe dei giovani adulti c’era. Eccome se c’era.

Brodo di coltura del giovane Kurt

Cobain nel 1977 aveva solo 10 anni, ma è proprio a partire da quel periodo che si fissano nella mente e nell’anima i propri gusti.

Il punk 77 durò poco, lasciando spazio alla new wave e a quei generi musicali più curati (o, azzardiamo, «leccati»?) che andarono per la maggiore negli anni Ottanta. Tornarono di moda i capelli lunghi, ma questa volta «puliti», quasi fossero trattati con prodotti di alta cosmesi. I protagonisti della scena musicale rock, da una parte e dall’altra dell’oceano, facevano tendenza ma forse avevano perso, almeno esteriormente, quello spirito di rottura che sembrava essere innestato, fino a quel momento, nelle radici di questo genere musicale. Da brutti, sporchi e cattivi a belli, puliti e buoni: solo con qualche strizzatina d’occhio alle «ragionevoli inquietudini» dei giovani, ma senza esagerare.

Eppure, i giovani di tutto il mondo non sempre si riconoscevano in questi modelli. Cobain era uno di loro. L’influenza del nichilismo del punk originario («Don’t know what I want, but I know how to get it», cantavano i Sex Pistols) se lo portò addosso per tutta la vita. Anche quando i Nirvana, quasi inaspettatamente, diventarono il gruppo forse più famoso dell’ondata grunge, con Nevermind, il disco che li portò per un periodo breve ma intenso sulla cresta dell’onda a livello mondiale. Lui non seppe, non volle adattarsi al successo. E la sua fiamma bruciò troppo velocemente, fino a quel fatidico 5 aprile 1994. «Sometimes I feel as if I should have a punch-in time clock before I walk out on stage», scrive nella sua lettera di commiato.

Apologia di un «non» impiegato

No, Kurt, tu non hai timbrato il cartellino con la tua musica, con la tua presenza e la tua voce. Hai rilanciato uno spirito - quello del rock vero - senza fronzoli e concessioni al marketing, che è destinato a durare. Perché il mondo non è affatto «ok», noi non siamo per niente «giusti». Ma almeno lo sappiamo, come l’avevi capito tu, con il dramma finale della tua vita.
Franco Sarcina

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