Kubi, di Takeshi Kitano

Nel rievocare la fine dell’era Sengoku, il film si tiene a distanza da ogni dimensione epica e mostra una furia distruttiva che fa a pezzi convenzioni. La catarsi dell’assurdo. Cannes Première

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Takeshi Kitano racconta un momento cruciale della storia giapponese, quel periodo tumultuoso che sta per concludere l’era Sengoku degli Stati belligeranti. In particolare, al centro di Kubi c’è l’evento chiave del 1582, l’incidente di Honno-ji, che segna la fine di Oda Nobunaga, il grande generale che aveva dato il via alla riunificazione del Giappone feudale, lacerato da una moltitudine di clan rivali. Nel caos della situazione, il generale “traditore” Akechi Mitsuhide circonda il tempio Honno-ji a Kyoto, base di Oda Nobunaga, e lo costringe alla morte, probabilmente per seppuku. A vendicare il condottiero, sarà Hashiba Hideyoshi, che poi assumerà il nome di Toyotomi Hideyoshi e continuerà l’opera di riunificazione.

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Kitano coltivava l’idea di Kubi addirittura da trent’anni, dai tempi di Sonatine. Ma si trattava probabilmente di un progetto fuori formato rispetto alle dimensioni abituali del suo cinema. C’era bisogno che le condizioni maturassero nel tempo. Nel 2019 ha pubblicato, con lo stesso identico titolo, un libro in cui ha affrontato per la prima volta questa storia. Poi, finalmente, nel 2021 la Kadokawa ha dato il via alla produzione, con un budget di circa dieci milioni di dollari. Ma anche qui intoppi, rallentamenti, divergenze contrattuali. Del resto si tratta di una storia complessa, a tratti inestricabile. Kitano tiene per sé il ruolo di Hashiba Hideyoshi, ma nella sostanza costruisce un film corale in cui compaiono e si affrontano una miriade di personaggi, che, al di là dell’importanza nelle dinamiche del racconto, hanno per gran parte un rilievo nella storia e nell’immaginario giapponese. Dai grandi condottieri Oda Nobunaga e Tokugawa Ieyasu, il capostipite dello shogunato Tokugawa, con cui si apre l’era Edo (1603), a tutta una serie di samurai e daimyo storici, Kuroda Kanbei, Hattori Hanzo (di tarantiniana memoria), il monaco Sen no Rikyu, codificatore della cerimonia del tè… e poi una schiera di ninja, di banditi e poveri popolani, fino ai missionari gesuiti, ai servitori brasiliani e chissà chi altro. Un incrocio infinito di volti, nomi, situazioni, che contribuisce a dare a Kubi la fisionomia di una matassa intricata, fino a srotolarla nel caos assoluto, forse l’immagine più adatta di una storia fatta di guerre, distruzione, continui capovolgimenti di fronte e di alleanze.

Non che Kitano non rispetti gli eventi. Semmai ne mostra i lati più controversi e taciuti (come l’omosessualità diffusa tra i samurai, secondo la tradizione dello shudo) e ne forza i contorni, deformandoli in chiave ironica, fino al ridicolo più assoluto (il modo in cui risolve il segreto della morte di Oda Nobunaga). Nelle scene di massa e sui campi di battaglia, mostra di avere nelle corde il respiro di un cinema classico, una maestosità degna di Kurosawa. Ma la sua è comunque una prospettiva barbara, furiosa ed eterodossa. E difatti il film gronda sangue, è una successione ininterrotta di teste mozzate, squarci mortali, brutalità efferate e fiotti emorragici.

Quel che è certo è che Kitano si tiene a distanza dalla dimensione epica. Non c’è nulla di glorioso, nessun’impresa da cantare o celebrare. Anzi, punta decisamente verso l’irriverenza più estrema, lasciandosi andare a gag sgangherate e incontenibili: come l’irresistibile sequenza dei sosia di Ieyasu, assassinati e sostituiti a ripetizione. Il ghigno di “Beat” Takeshi si fa beffe di tutto, degli eroi conclamati e dei loro accoliti, delle strategie politiche e delle ambizioni smodate. Persino dei codici d’onore, quelli che, fino a un certo punto, hanno continuato a tenere in piedi il morale e la morale dei suoi film. Quando, davanti agli occhi dei suoi nemici, uno dei capi del clan Mori sta per fare seppuku secondo tutte le regole tradizionali, Kitano sbuffa ripetutamente, spazientito. Tadanobu Asano, nei panni di Kunbei Kuroda, gli ricorda che quello è il rituale dei samurai. E Kitano ribatte “io sono un contadino”. Che sì, è un riferimento alle umili origini del suo personaggio di Hashiba Hideyoshi, ma è soprattutto un modo per ribadire il suo ruolo di guastatore, una distanza incolmabile dalle convenzioni, dai formalismi elitari, dalle correttezze della filologia. E così sottopone il cinema Jidai-geki e l’immaginario tradizionale delle storie di samurai alla stessa carica distruttiva con cui ha messo a ferro e fuoco il mondo della yakuza nei tre Outrage. Una furia iconoclasta, che sembra l’applicazione di un nichilismo portato alle estreme conseguenze. Ma che è anche un disperato tentativo di vitalità, di ridare linfa a ciò che è stato dissanguato dalla convenzionalità delle forme e dei racconti, dai giochi vuoti delle ricombinazioni contemporaneo. Se l’epopea si tinge di nero e di sangue, diventa una tragedia. Kitano, allora, sogna un bel calcio a tutte le teste mozzate. La catarsi dell’assurdo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.3
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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