Come razzismo e antisemitismo scatenarono uno dei periodi più oscuri e drammatici della Storia - Valigia Blu
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Come razzismo e antisemitismo scatenarono uno dei periodi più oscuri e drammatici della Storia

27 Gennaio 2023 16 min lettura

Come razzismo e antisemitismo scatenarono uno dei periodi più oscuri e drammatici della Storia

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Pubblichiamo un estratto del manuale per il triennio della scuola secondaria di secondo grado, appena uscito con Editori Laterza (3 voll.), intitolato Trame del tempo e firmato da Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Carlo Greppi e Marco Meotto. Questo è un estratto del terzo capitolo dell’ottava unità (La società di massa e la conquista dello spazio pubblico) del secondo volume, i cui autori sono Marco Meotto (unità 1-4) e Valentina Colombi (unità 5-8): Trame del tempo. Modernità globali. Dal Seicento all’Ottocento.

La “scienza” della discriminazione: il razzismo

Il razzismo “scientifico”

Nel 1853, Arthur de Gobineau, un diplomatico francese che si è convinto che le differenze somatiche e culturali che ha osservato nei popoli incontrati nei suoi viaggi derivino da una diversità biologica, pubblica uno studio che conosce una diffusa circolazione: si intitola Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane e in esso l’autore distingue tre maggiori gruppi razziali sulla base del colore della pelle, sostenendo che solo quella bianca di origine ariana ha in sé le caratteristiche adeguate a produrre una civiltà avanzata. 

Ariano

Termine entrato in uso negli studi linguistici di fine Ottocento per indicare un ipotetico ceppo etnolinguistico da cui sarebbero derivate le lingue indoeuropee. Da qui è stato poi mutuato, nella prima metà del Novecento, dai sostenitori del razzismo e dell’antisemitismo per indicare la razza “pura” da cui discenderebbero le popolazioni germaniche.

Negli stessi anni, altri, come gli etnologi statunitensi Samuel George Morton, Josiah Nott e George Gliddon, sono convinti assertori del poligenismo, una teoria che sostiene che le razze discendono da specie diverse. Anche in questo caso, molti sforzi sono compiuti nel tentativo di dimostrare che le razze bianche sono superiori rispetto a tutte le altre e in particolare rispetto a quelle nere.

Oggi ci vengono in soccorso gli studi sul dna nel chiarire definitivamente che le razze umane non esistono e che alle differenze somatiche e antropometriche tra i gruppi umani non corrisponde un preciso assetto genetico. Ma già Darwin non poteva fare a meno di notare che qualunque tentativo di descrivere e circoscrivere le razze umane si scontrasse con una grande indeterminatezza, tanto che ogni studioso formulava una diversa ipotesi su quante e quali fossero queste fantomatiche razze. Osserva Darwin:

L’uomo è stato studiato con maggior cura che non qualsiasi altro essere organico, e tuttavia v’è la più grande diversità possibile fra i vari giudici competenti nell’opinione se egli debba essere classificato come una specie o razza unica o come due (Virey), tre (Jacquinot), quattro (Kant), cinque (Blumenbach), sei (Buffon), sette (Hunter), otto (Agassiz), undici (Pickering), quindici (Bory de St-Vincent), sedici (Desmoulins), ventidue (Morton), sessanta (Crawfurd) o sessantatre secondo Burke.

Charles Darwin, Una razza o molte razze?

Razzismo e dominio coloniale

A fine Ottocento, il successo delle teorie razziste – le quali a quel tempo, come quelle del darwinismo sociale o dell’eugenetica, hanno dignità scientifica, e dunque sono studiate nelle università e divulgate da serissime istituzioni culturali – è legato a doppio filo al colonialismo e all’imperialismo europeo e alla “missione civilizzatrice” di cui questi fenomeni si immaginano portatori.

Già nell’America schiavista si sosteneva che i “neri” fossero naturalmente inferiori, perché solo rendendoli “meno umani” era possibile giustificare la necessità di farli schiavi senza che ciò entrasse in contraddizione con i dettami cristiani di solidarietà e rispetto verso il prossimo ai quali i padroni bianchi dovevano conformarsi. Allo stesso modo, nell’Europa colonialista e imperialista, pensare che esistano razze naturalmente inferiori, dedite a una vita frugale e di fatiche, è un modo per giustificarne lo sfruttamento e il soggiogamento nonostante la tradizione di libertà e uguaglianza diffusa dalla Rivoluzione francese. Leggiamo questo acceso scambio, avvenuto in una seduta del Parlamento francese nel 1885, tra Jules Ferry, esponente del governo repubblicano, e Jules Maigne, rappresentante dell’estrema sinistra parlamentare. Impegnato in una strenua difesa della politica coloniale a cui la Francia si sta aprendo proprio in quegli anni, Ferry solleva, tra le ragioni di questa scelta del governo, anche i diritti che le “razze superiori” possono vantare su quelle inferiori:

Jules Ferry – Signori, esiste un [...] punto [...], che devo pure toccare, il più rapidamente possibile, credetemi: è il lato umanitario e civilizzatore della questione [coloniale]. Su questo punto l’onorevole Camille Pelletan si esprime con molta ironia [...]: «[...] Questi popoli di razza inferiore non hanno forse altrettanti diritti quanto voi? Non sono padroni in casa propria? Vi chiamano forse? Andate a casa loro contro la loro volontà, li violentate, ma non portate loro la civiltà».

[...] Signori, occorre parlare con voce più alta e con più sincerità. Bisogna dire apertamente che le razze superiori hanno effettivamente dei diritti nei confronti di quelle inferiori... [...]

On. Jules Maigne – Oh! Osate dire queste cose nel paese in cui furono proclamati i diritti dell’uomo? [...]

Jules Ferry – Se l’on. Maigne ha ragione, se la dichiarazione de diritti dell’uomo fu redatta per i negri dell’Africa equatoriale, allora in base a quale diritto potete imporre loro scambi e traffici? [...]

On. Jules Maigne – Proporre e imporre sono due cose ben diverse! [...]

Jules Ferry – Ripeto che esiste per le razze superiori un diritto, perché esiste per queste anche un dovere. Il dovere di civilizzare le razze inferiori.

Jules Ferry, Diritti e doveri delle razze superiori

Ferry non accetta i termini del discorso su cui tenta di condurlo Maigne: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo non può valere anche per i «negri», perché questi, come molte teorie scientifiche del tempo si sforzano di dimostrare, non sono poi così “umani”.

razze colore
Tavola da Types of Mankind di Josiah Nott e George Gliddon, 1854 (Boston Medical Library, Boston)

La razza diventa così un concetto e una parola che serve per giustificare il dominio e la violenza di una parte del mondo – l’Occidente – in particolare sulle popolazioni di pelle nera, ma anche più in generale su tutti gli altri popoli colonizzati, che vengono collocati su una scala di valore che corre lungo la linea del colore: più ci si allontana dal nero, più ci si avvicina alla “bianchezza” – anche questa una costruzione culturale, che comincia a “esistere” nel momento in cui le persone di origine europea, con la pelle più o meno rosata, iniziano a crederci –, più si è in alto sulla scala dell’evoluzione e del progresso.

torrefazione Parigi
Insegna del 1890 di una torrefazione di caffè a Parigi. L’immagine mostra chiaramente l’ideologia colonialista di fine Ottocento.

La discriminazione razziale negli Stati Uniti

Agli albori della società di massa, le idee corrono sempre più veloci e condizionano la mentalità di sempre più persone: convinzioni razziste si diffondono anche nelle persone comuni, non direttamente toccate dall’esperienza coloniale, soprattutto in contesti dove si trovano a convivere uomini e donne di diversa provenienza. In queste situazioni, le tendenze xenofobe che derivano dalla difficoltà di accettare le diversità degli “altri” cominciano a fondarsi sul presupposto della razza e il colore della pelle diventa l’elemento più riconoscibile per assegnare le persone a una “razza” o a un’altra.

Ciò avviene in particolare negli Stati Uniti, dove la “grande migrazione” porta tanti nuovi “altri” ad aggiungersi ai nativi e agli americani di origine africana. Questi ultimi, anche una volta liberati dal giogo della schiavitù, continuano a essere considerati diversi e inferiori proprio in termini di razza e colore della pelle; i nuovi immigrati catalogabili come “bianchi” hanno invece un vantaggio sociale non indifferente, anche perché, fino agli anni Cinquanta del Novecento, la “naturalizzazione” – ovvero la possibilità di avere la cittadinanza statunitense per chi risiedeva da un certo tempo su suolo americano – è un diritto dal quale tutti i “non bianchi” restano esclusi.

Dal 1899 le autorità statunitensi decidono di catalogare i migranti in 36 razze diverse, avvalendosi delle teorie di alcuni dei più famosi “razzisti scientifici” del tempo. I criteri vengono chiariti con la pubblicazione nel 1911 del Dizionario delle razze o dei popoli, redatto da un’apposita commissione. Le scelte operate dalla commissione su presunte quanto inconsistenti basi scientifiche avrebbero condizionato la vita di milioni di persone, assegnando loro una posizione più o meno vantaggiosa sulle linee della razza e del colore.

Frontespizio del Dictionary of races or peoples, 1911

Riguardo alla collocazione degli italiani, per esempio, racconta la studiosa di storia dell’immigrazione Donna R. Gabaccia:

[Nel dizionario] si distingueva tra gli italiani settentrionali alpini, dalla testa larga, e una «razza mediterranea scura, di bassa statura, con la testa allungata» al Sud. La linea di separazione tra i due gruppi veniva tracciata così a nord che persino i genovesi erano considerati meridionali. Gli autori si basarono chiaramente sull’opera di Giuseppe Sergi [antropologo italiano], definendo gli italiani meridionali, gli iberici della Spagna e i berberi del Nord Africa come un unico gruppo disceso [...] [da un comune ceppo] del Nordafrica. In accordo con Sergi, si osservava che [...] [questi gruppi] non erano «negroidi o veri africani, anche se potrebbero esservi tracce di commistione di sangue africano in questo ceppo, all’interno di talune comunità della Sicilia e della Sardegna». Il Dictionary of Races agitava così lo spettro di una singola, invisibile goccia di sangue nero introdotta da bianchi europei nella nazione americana.

D.R. Gabaccia, Gli italiani nel Dizionario delle razze

Negli anni seguenti alla prima guerra mondiale, l’ingresso di migranti italiani del Sud negli Stati Uniti subirà, sulla base di questi convincimenti, sensibili restrizioni.

Le nuove derive di una lunga tradizione di odio: l’antisemitismo

Le persecuzioni antiebraiche in Russia tra Otto e Novecento: i pogrom

Mentre in Europa, dopo secoli di persecuzioni e discriminazioni, l’Ottocento ha portato quasi ovunque a una maggiore inclusione delle persone di religione ebraica nella vita pubblica – con il riconoscimento della libertà di culto e dei diritti politici e civili –, nell’Impero russo a fine secolo sono ancora pesanti le restrizioni che le colpiscono. Per di più in questo periodo si assiste a un peggioramento delle condizioni di vita degli ebrei a causa delle trasformazioni socio-economiche che erodono le loro tradizionali attività lavorative: la diffusione della ferrovia e i nuovi flussi commerciali, per esempio, affossano mestieri come quelli di carrettieri o di piccoli trasportatori.

A fine Ottocento, gli ebrei censiti sul territorio russo sono circa 4 milioni e per legge sono costretti a dimorare in quella che è chiamata “zona di residenza”, fissata per la prima volta nel 1791 dall’imperatrice Caterina la Grande e mai abolita: una fascia di territorio che corre da nord a sud all’estremità occidentale dell’Impero, abbracciando Lituania, Bielorussia, Ucraina e Bessarabia (regione oggi in gran parte corrispondente con la Moldavia). Nelle cittadine in cui vivono, dette shtetlek in lingua yiddish, gli ebrei costituiscono comunità molto nutrite ma poco integrate con il resto della popolazione, proprio a causa delle restrizioni a cui restano sottoposti.

Yiddish

Lingua di origine medievale parlata dagli ebrei detti ashkenaziti, quelli cioè che, provenendo dall’Italia e dalla Francia, si sono insediati nella regione del Reno intorno al X secolo, per poi diffondersi in seguito in tutta l’Europa centrorientale. L’yiddish si caratterizza per l’utilizzo dell’alfabeto ebraico e per le strutture lessicali e grammaticali costituite da un impasto di elementi germanici, ebraici, neolatini e slavi.

Nella Russia di fine Ottocento, dunque, una parte della popolazione non ebraica cova sentimenti antiebraici sia in ragione della tradizionale ostilità verso coloro che le Chiese cristiane accusano di essere gli “uccisori di Cristo” (e non è un caso se le maggiori tensioni si concentrano nel periodo di Pasqua); sia della diffidenza verso comunità che restano, anche loro malgrado, separate dal resto della nazione; sia, infine, delle tensioni create da un quadro economico molto difficile per le classi popolari.

ebrei pogrom russia
Ebrei subiscono violenze durante un pogrom in Russia, 1880

Quando, nell’aprile del 1881, si sparge la notizia che tra gli arrestati per l’assassinio dello zar Alessandro II ce n’è uno di religione ebraica, essa è sufficiente a determinare l’irrompere della violenza, che prende la forma di veri e propri pogrom: la parola – che in russo significa ‘devastazione’ – si afferma proprio in questi anni tra Otto e Novecento per designare i violenti tumulti popolari che colpiscono specificamente le comunità ebraiche di un territorio. Il primo assalto ai negozi e alle case degli ebrei avviene a Elizavetgrad (oggi Kropyvnyc’kyj), in Ucraina, mentre nei mesi e negli anni seguenti episodi analoghi dilagano nelle aree dove si concentrano le comunità ebraiche dell’Impero, compresa la Polonia (non inclusa nella “zona di residenza” ma nella quale vivono più di un milione di ebrei). Le forze dell’ordine raramente offrono una sufficiente tutela contro gli attacchi e, se ovunque si contano gravi danni alle cose – conseguenti alla devastazione di case, negozi, sinagoghe –, nei casi peggiori sono colpite anche le persone, con morti e feriti.

Una nuova ondata di violenza, peggiore della prima, si abbatte sulle comunità ebraiche della “zona di residenza” negli anni che vanno dal 1903 al 1906: soltanto nel biennio 1905-1906 si contano più di 650 pogrom di diversa gravità, nel corso dei quali perdono la vita più di 3000 ebrei.

Se già gli eventi del 1881 avevano costituito un momento di svolta nella percezione che gli ebrei avevano del proprio futuro come comunità, queste nuove e più aspre violenze non fanno che confermare un diffuso senso di insicurezza e di paura per il proprio destino.

Maggiori centri di pogrom in Russia e Polonia, 1881-1884
Maggiori centri di pogrom in Russia e Polonia, 1903-1906

L’esodo verso ovest e i primi insediamenti in Palestina

Così, tra il 1881 e il 1914 circa 2 milioni e mezzo di ebrei lasciano l’Europa orientale (la Polonia e la “zona di residenza”, ma anche la Romania, dove il governo appoggia apertamente gli attacchi antiebraici) per trasferirsi a ovest, spinti dalle condizioni di vita sempre più difficili a cui sono costretti a causa della povertà e delle persecuzioni. Le mete predilette sono l’Impero asburgico, la Germania e gli Stati Uniti. In questi nuovi contesti, gli ebrei orientali si qualificano subito come “diversi”, per le loro abitudini, la loro lingua, il loro stile di vita, il loro abbigliamento: questa differenza visibile servirà a radicare numerosi stereotipi rispetto a quella che, sulla scorta delle idee razziste, verrà sempre più identificata come “razza ebraica”.

cacciata ebrei russia
Vignetta satirica antisemita tedesca: La cacciata degli ebrei dalla Russia, 1899 (Bibliothèque de l’Alliance Israèlite Universelle, Parigi)

Ma l’Europa e gli Stati Uniti non sono le uniche mete prescelte dagli ebrei in fuga. Proprio negli anni a ridosso dei primi pogrom in Russia, infatti, alcuni intellettuali ebrei iniziano a immaginare per le proprie comunità un futuro diverso. La riflessione di partenza è questa: anche se le comunità ebraiche abitano in un territorio da secoli, quasi ovunque – non soltanto dove esplode la violenza, non soltanto nell’Impero russo – l’intolleranza nei loro confronti viene sempre più giustificata nell’interesse della nazione entro cui quel territorio è compreso. Gli ebrei sono visti come un corpo estraneo alla nazione, quando non come un acerrimo nemico che ne minaccia la sopravvivenza dall’interno.

In questa situazione, la soluzione perché le future generazioni di ebrei possano finalmente vivere in pace è individuata nella creazione di una nazione ebraica, di uno Stato-nazione abitato dagli ebrei. Nel 1884 il medico Leo Pinsker fonda a Katowice, in Polonia, l’associazione Hibbat Zion (letteralmente, ‘amore per Sion’, per la città che fu il nucleo originario di Gerusalemme) con lo scopo di promuovere la migrazione ebraica in Palestina: negli anni seguenti le prime famiglie provenienti dall’Europa orientale installano fattorie e piccole comunità nei dintorni di Gerusalemme.

Nel 1897 i progetti di Pinkser saranno ripresi con maggiore impeto da un nuovo sodalizio, sorto su iniziativa del giornalista austriaco Theodor Herzl, e cioè l’Organizzazione sionista mondiale: da allora, con il termine sionismo si designerà il movimento politico che si pone l’obiettivo di creare uno Stato-nazione ebraico in Palestina. A dare impulso al movimento sionista contribuisce un caso che ha luogo in Francia negli anni precedenti e che scuote l’opinione pubblica, non soltanto in Francia: il cosiddetto “affaire Dreyfus”.

affaire dreyfus antisemitismo
Il gioco dell’affaire Dreyfus, XIX sec. (Alliance Israèlite Universelle, Parigi). La complessa vicenda dell’affaire Dreyfus divenne una questione così nota e discussa in pubblico da diventare tanto popolare da portare alla realizzazione di un gioco da tavolo. 

L’affaire Dreyfus e l’antisemitismo nazionalista

Il 13 aprile 1895 l’ex capitano dell’esercito francese Alfred Dreyfus, degradato e condannato all’ergastolo per alto tradimento, fa il suo ingresso nella colonia penale dell’isola del Diavolo, nella Guyana francese. L’accusa è quella di aver venduto segreti militari al nemico giurato della Francia, la Germania. Il condannato, la sua famiglia e i suoi amici non si capacitano di quanto è successo e insistono nel sostenere l’innocenza dell’uomo. In effetti, il processo ha subìto pesanti pressioni e irregolarità, mentre la stampa nazionale si è accanita contro Dreyfus marcando un motivo sopra tutti per ritenerlo colpevole: è ebreo.

È la prima volta che la Francia, e di riflesso anche il resto d’Europa, tocca con mano la forza dell’antisemitismo, con la sua capacità di seminare sospetti e catalizzare consensi.

Antisemitismo

Parola coniata dal pubblicista tedesco Wilhelm Marr nel 1879, per indicare l’ostilità contro gli ebrei, non tanto in quanto gruppo religioso – e dunque non in quanto discendenti degli uccisori di Cristo – quanto perché da considerarsi una “razza” separata, che non può integrarsi nel corpo della nazione in cui risiede, ma che tende invece a sfruttarne poteri e ricchezze nel proprio interesse.

Per fortuna, esistono ancora personaggi che tengono gli occhi aperti e che non accettano il sacrificio del “capro espiatorio” ebraico usato per insabbiare il marciume dell’esercito francese. Tra questi, il notissimo scrittore Émile Zola, che da tempo denuncia la natura antisemita della condanna di Dreyfus e il 13 gennaio 1898 tuona dalle colonne del giornale «L’Aurore» con un articolo dal titolo J’Accuse (‘io accuso’), nel quale fa nomi e cognomi degli alti gradi militari implicati nello scandalo. «Nel fare queste accuse, non ignoro di violare gli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 1881 che punisce i delitti di diffamazione. Ed è volontariamente che mi espongo. [...] Io non ho che una passione, quella della luce, in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta infiammata non è che il grido della mia anima. Che si osi quindi portarmi in corte d’assise e che l’inchiesta abbia luogo! Io attendo.» Queste le parole finali di Émile Zola sulla prima pagina del giornale parigino.

j'accuse zola dreyfus
La prima pagina de «L’Aurore», 13 gennaio 1898

Lo stesso Zola subisce negli anni seguenti un processo e una condanna per le sue affermazioni, ma il clamore sollevato intorno a Dreyfus e la schiera crescente dei “dreyfusardi” – favorevoli all’ex capitano – comincia a eguagliare, se non a sovrastare, quella degli “anti-dreyfusardi”.

Una revisione del processo davanti alla corte marziale, nel 1899, si risolve in una nuova condanna, ma là dove l’esercito non vuole arrivare – a una ritrattazione del caso e a un’ammissione di colpa – arriva invece il presidente della Repubblica Émile Loubet, appena eletto, che concede a Dreyfus la grazia. Sarà un processo civile conclusosi nel 1906 a ristabilire definitivamente l’innocenza di Dreyfus, che verrà risarcito con la restituzione dei suoi gradi militari e con la Legion d’onore. Soltanto nel 1995 l’esercito francese riconoscerà pubblicamente l’innocenza del capitano.

Legion d'onore

Ordine cavalleresco francese istituito da Napoleone Bonaparte nel 1802, riformato da Napoleone III durante il Secondo Impero (1852-1870) ed esistente ancora oggi. Possono essere decorati con la Legione d’onore per meriti verso la patria sia militari che civili, e a certe condizioni anche istituzioni e città.

I germi dell’odio e della violenza

Ma il processo a Dreyfus non è l’unico esempio di come l’antisemitismo stia diventando un tratto distintivo del nazionalismo più reazionario e aggressivo. Già all’inizio del nuovo secolo, chi si riconosce in questo sistema di “valori” non usa mezzi termini per esprimere il suo odio. La Biblioteca nazionale di Francia conserva uno spartito musicale a stampa datato 1906, che riporta musica e parole di una canzone dall’esplicito titolo L’anti-juive, ‘L’anti-ebraica’. Testo e musica sono di un versatile pittore francese di padre italiano, Charles Castellani, noto allora al pubblico anche per le sue avventure coloniali in Africa. Le parole, a noi che possiamo leggerle con la consapevolezza di quanto sarebbe avvenuto pochi decenni più tardi – e cioè la tragedia della Shoah –, suonano particolarmente sinistre.

Shoah

Parola ebraica che letteralmente significa ‘tempesta’, ‘catastrofe’, e che è utilizzata per indicare la deportazione e l’eliminazione sistematica degli ebrei avvenute per mano della Germania nazista e dei suoi alleati durante la seconda guerra mondiale (1939-1945).

  

Dopo alcune strofe in cui si manifesta l’amore per la Francia e i francesi, «fieri figli della Gallia», l’invito a scrollarsi di dosso «l’infame Giudeo trionfante» è marcato con queste parole:

Suoniamo l’ultima ora per la razza immonda, è [giunto il tempo;

e ovunque nel mondo seminiamo le sue ossa nei [campi.

Uccidiamo senza misericordia.

Suoniamo l’ultima ora per la razza immonda, è giunto [il tempo;

e ovunque nel mondo seminiamo le sue ossa per i campi.

Massacriamo senza misericordia.

[testo originale: Sonnons le glas de la race immonde, il est temps;

et semons ses os de par le monde dans le champs.

Sans miséricorde tuons.

Sonnons le glas de la race immonde, il est temps;

et semons ses os de par le monde dans le champs.

Sans pitié massacrons.]

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Charles Castellani, L’anti-juive

antisemitismo nazionalismo francia
Lo spartito della canzone L’anti-juive (Bibliothèque nationale de France, Parigi)

Questi germi di odio e di violenza circolano indisturbati in Europa per tutto il primo Novecento. Quando forze politiche che si presenteranno come le uniche vere rappresentanti degli interessi collettivi della nazione si faranno espressamente portatrici di parole come queste, si aprirà uno dei periodi più oscuri e drammatici della storia del mondo.

Immagine in anteprima: Ebrei subiscono violenze durante un pogrom in Russia, 1880

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