Jeffrey Dahmer non era un mostro. E questo fa ancora più paura

Il punto di vista di una criminologa sul protagonista della serie televisiva di Ryan Murphy. Un'analisi della personalità del serial killer, tra fiction e realtà
Jeffrey Dahmer durante il processo
Jeffrey Dahmer durante il processo Curt Borgwardt/Sygma/Sygma via Getty Images

La serie tv Netflix Dahmer - Monster: The Jeffrey Dahmer Story ripercorre le tappe della vita di uno dei serial killer più noti offrendo allo spettatore uno spaccato dell’America tra gli anni Sessanta e la metà degli anni Novanta.

Jeffrey Dahmer viene spesso inquadrato di tre quarti e dall’alto così che la stranezza dei tratti, seppure prestati allo schermo dall’attore Evan Peters, possa essere in qualche modo indagata alla ricerca di quel male che Cesare Lombroso avrebbe sicuramente riconosciuto, nel vero Dahmer, osservandone il portamento. Le braccia che non oscillavano restando abbandonante lungo il corpo, il busto proteso in avanti in una camminata rigida e meccanica che, qualcuno disse, ricordava più quella di un primate che quella di un uomo.

Da sempre, chi studia il male ha la tendenza a bollarlo, una volta trovato, come qualcosa di abnorme, animalesco. Mostruoso, appunto. Come gli sceneggiatori e i produttori della serie che, ancora una volta, non si sono lasciati sfuggire l’occasione di sottolineare, nel titolo, la peculiare caratteristica del protagonista. Mostro. E se vogliamo fermarci a ‘mostro’, possiamo farlo, in fin dei conti era un serial killer. Ha ucciso, e ha provato piacere a uccidere, a smembrare i corpi.

Se invece volessimo andare oltre, potremmo scoprire qualcosa in più. Per esempio che se Jeffrey Dahmer fosse stato davvero un mostro, le sue vittime se ne sarebbero accorte in tempo. Ed è proprio questo il dramma: Jeffrey Dahmer non era un mostro. Era uno come tanti. Anzi, ancora meno. Jeffrey Dahmer era un invisibile. Questo, ovviamente, nulla toglie alla gravità dei crimini commessi. Ma la criminologia non fa sconti. E il male lo guarda da dentro. Non si limita alle apparenze.

Errori, fragilità, pericoli

La serie tv ha il pregio di sottolineare come, più e più volte, nel corso degli anni, Jeffrey Dahmer avrebbe potuto essere fermato. Aveva già violentato un minore, ma il giudice era stato clemente. Era stato arrestato per atti osceni in luogo pubblico, ma anche in quel caso nessuno si era preoccupato più di tanto dei deliri di un alcolizzato. Il culmine viene raggiunto quando gli agenti di polizia Balcerak e Gabrish, chiamati per un ragazzino dai tratti asiatici sanguinante in strada, lo riconsegnano a Dahmer. Nonostante le due donne di colore, madre e figlia, che hanno allertato le forze dell’ordine, li implorino di non farlo. Glenda Cleveland, questo il nome della madre, insiste affinché chiamino un’ambulanza, il ragazzino sanguina dalle parti intime, non parla inglese e sembra alterato da qualche sostanza. Mentre Glenda Cleveland sostiene con forza il suo punto di vista, arriva Jeffrey Dahmer. Alto, biondo, occhi chiari. E bianco, come gli agenti che trattano con sufficienza le due donne di colore. La scena viene ripresa nella serie tv, esattamente come si è svolta. L’unica differenza, del tutto ininfluente, è che Glenda nella fiction viene descritta come la vicina di casa, mentre nella realtà viveva nel palazzo in fianco. Un cambiamento irrilevante.

Il Jeffrey descritto dagli sceneggiatori è un astuto calcolatore, capace dal punto relazionale e disinibito tanto da flirtare e corteggiare le vittime. Nella realtà Jeffrey Dahmer era totalmente incapace di instaurare relazioni. Ma disgraziatamente non ha avuto bisogno di calcolare alcunché dato che chi gli stava intorno era così distratto o volutamente disattento da non accorgersi di quanto stava accadendo proprio sotto gli occhi di tutti. Leggendo le testimonianze nei file dell’FBI così come i saggi che, negli anni, sono stati dedicati al serial killer di Milwaukee, emerge una persona fragile e pericolosa al tempo stesso. Pericolosa perché fragile.

Il miraggio della rispettabilità

Interessante l’autobiografia di Lionel Dahmer,Mio figlio, l’assassino” in cui risulta evidente che lo stesso Lionel Dahmer non era in grado, per sua ammissione, di avere rapporti relazionali stabili. “Ho sempre avuto difficoltà ad affrontare la gente” si legge nelle prime pagine del saggio. E quando il figlio viene arrestato per esibizionismo, Lionel scrive: “La sola idea che venissero alla luce, all’improvviso, fatti privati, così terribili aveva il potere di mantenermi in uno stato di assurda negazione della realtà” e poco oltre descrive “l’angoscia di essere scoperto personalmente, che la mia vita fosse messa a nudo, e l’atroce vergogna che questo avrebbe provocato in me”.

La storia di Jeffrey Dahmer è la storia di chi è riuscito, per anni, a uccidere impunemente perché tutti erano occupati a mantenere la loro facciata di rispettabilità. Ognuno era concentrato a giudicare gli altri: il padre, che preferiva dormire nel suo ufficio in università invece di tornare a casa dalla moglie, Joyce, alle prese con la malattia mentale. Malattia mentale che portava uno stigma, una nube nera sulla bella villetta dei Dahmer e sulle loro vite apparentemente perfette. E Joyce, nella sua instabilità, se ne va col figlio minore, lasciando indietro quello irrecuperabile. Jeffrey che viene descritto come alcolizzato già a tredici o quattordici anni. E a descriverlo è John Backderf, uno dei compagni di scuola, nella graphic novel “My friend Dahmer che, nemmeno a dirlo, riesce a tratteggiare un ritratto del serial killer meglio di qualsiasi altro saggio, meglio di qualunque report di polizia o di perizia psichiatrica. Nessuno sembrava fare caso a un ragazzino di quattordici anni che si presentava completamente ubriaco in classe per dormire con la testa sul banco per la maggior parte delle lezioni. Nell’America dei winners e dei losers Jeffrey Dahmer era una perniciosa macchia sui registri della scuola, un ostacolo da eliminare per non perdere punti e benefit nel ranking scolastico.

La narrativa rassicurante 

La serie tv ha dovuto aggiungere quel tratto mostruoso che Dahmer non aveva: diversamente, forse, gli spettatori si sarebbero annoiati. O peggio intristiti di fronte alla vita vuota, ma certamente non mostruosa del vero Jeffrey. Che trascorreva ore, giorni, mesi da solo. A bere. A sollevare pesi perché suo padre glielo aveva consigliato, dato che non faceva niente altro. A spendere soldi nei bar che frequentava solo per rimorchiare qualcuno e non essere più solo. Una cosa del tutto normale. La necessità di non essere soli.

E la serie tv, nell’aggiungere quel mostro nel titolo e nella narrazione filmica, offre una visione consolatoria allo spettatore: Jeffrey Dahmer era un mostro, voi, spettatori, no. Voi non siete come lui. Ha ucciso perché era un mostro.

Purtroppo, per noi e per lui, Jeffrey Dahmer era un omicida. Seriale. Ma non un mostro. Quello che non emerge dalla serie tv è il movente di Dahmer. Perché si è talmente abituati dalla fiction, e da certe indagini condotte male, al movente inesistente, ovvero a quei raptus di follia o a nessun motivo per uccidere, che ormai non ci si fa più caso.

Jeffrey Dahmer uccideva perché non era in grado di avere alcuna relazione umana con nessuno. E più di tutto temeva di essere abbandonato. E Jeffrey Dahmer era stato abbandonato. Non aveva avuto, come la maggior parte di noi, una madre amorevole pronta ad accoglierlo. Joyce era spaventata da Jeffrey e più di tutto era spaventata dalla vita, da se stessa, dagli scherzi tremendi che la sua mente le faceva.

Jeffrey Dahmer viene descritto come un mostro assestato di sangue, tanto che nella serie tv il sangue lo beve proprio in una scena piuttosto splatter. Dahmer lavorò davvero in un punto di prelievo di sangue, ma disse negli interrogatori di aver assaggiato il sangue da una fiala, solo per sapere che gusto avesse, e di averlo poi sputato. Nella fiction beve il sangue davanti allo specchio, quindi si guarda bere, la potenza dell’immagine è amplificata. Così che noi che guardiamo, noi spettatori, possiamo dire che mai faremmo una cosa così tremenda. Orrorifica. E possiamo spegnere la tv e non curarci più del resto, tranquilli nelle nostre esistenze. La tv, la fiction, è esattamente questo.

Se invece dovessimo fare i conti con il vero Jeffrey, con il vuoto che era la sua vita, con la solitudine inflittagli dai genitori, prima e dagli insegnanti, poi. Con l’incapacità di stabilire una qualsiasi relazione forse troveremmo delle sottili attinenze con le nostre vite. E potrebbe essere che ci spaventeremmo. Perché il male spaventa quando è un male normale. Il mostro, nella sua abnormità, è rassicurante. È molto diverso da noi. Non ha niente a che fare con noi.

Per esempio vi è un continuo indugiare, nella serie, delle inquadrature sul trapano. E che Jeffrey Dahmer trapanasse crani è del tutto vero. Ma perché? Forse perché era un mostro? Perché era malato di mente? Perché era un sadico che voleva vedere soffrire le vittime? Perché trapanare il cranio di un altro essere umano a cui si è appena detto “sei bellissimo”? Perché trapanargli il cranio se l’unico scopo per cui quell’essere umano bellissimo giace nel letto, pronto al sesso? Perché?

Perché Jeffrey Dahmer non era in grado di avere rapporti sessuali con un essere umano vivo. Gli esseri umani gli facevano paura. Tutti. Li drogava per poi approfittare di loro. Della loro momentanea perdita di coscienza che gli permetteva di non interagire. E se gli avessero fatto domande? E se avessero preteso? E se avessero deciso di andarsene? Se lo avessero abbandonato? Ancora e ancora e ancora?

Tra consapevolezza e delirio

Jeffrey Dahmer era un omicida seriale che ha sfruttato la distrazione degli altri per muoversi indisturbato dove la polizia non andava a controllare. Infatti aveva scelto di vivere agli Oxford Apartments, a maggioranza afro americana, perché sapeva bene che lì non sarebbe stato disturbato. Era un diverso tra i diversi nell’America degli anni Novanta, razzista fino al midollo ma attenta a mantenere le apparenze con un perbenismo e una rispettabilità di facciata. In cui la polizia poteva farsi beffe delle denunce di scomparsa delle famiglie delle vittime, non solo di Dahmer, nascondendosi dietro la bugia che tanto solo i neri facevano usano di droghe e alcol e si allontanavano volontariamente.

Questo la serie lo racconta molto bene. E per capire un serial killer è necessario capire perché ha fatto delle scelte. Jeffrey Dahmer ha fatto delle scelte economiche, intese come vantaggiose per evitare di essere catturato. I suoi omicidi vengono studiati ancora oggi perché sono peculiari. Ha ucciso la prima vittima, Steven Hicks, provocandogli un letale trauma alla testa perché non voleva che Steven se ne andasse. In seguito a quell’omicidio, anni dopo, è tornato a uccidere.

Ma anche il secondo omicidio, quello di Steven Tuomi in una camera di hotel, non sembra essere stato pensato e pianificato. Jeffrey Dahmer è sempre apparso piuttosto sincero nelle confessioni, e ha dichiarato di aver avuto una sorta di blackout e di non ricordare alcun dettaglio dell’assassinio. Si è svegliato e Steven era morto. L’intossicazione da alcol certamente ha avuto un ruolo. Ma anche sugli effetti devastanti dell’alcol c’è una sorta di riserva a parlarne. C’era nell’America degli anni Novanta, dove l’abuso di alcol andava di pari passo con l’edonismo reaganiano.

I successivi quindici omicidi hanno invece avuto uno schema che, nel tempo, si è evoluto. Le capacità di Dahmer di disfarsi dei cadaveri erano certamente mutuate dalle lunghe sessioni solitarie nel capanno stile piccolo chimico che il padre gli aveva approntato nel giardino di casa quando aveva cinque anni. E che non aveva mai smesso di usare. Jeffrey sapeva tutto di acidi per sciogliere i cadaveri e trattenere per sé le ossa.

Poco importava che l’odore di putrefazione appestasse la casa della nonna e poi l’appartamento 213 al 924 North 25th Street. La nonna è un’altra figura chiave nella vita di Dahmer e delle sue vittime. Lionel Dahmer, infatti, aveva del tutto scaricato la responsabilità della gestione di un figlio che non era solo problematico, ma criminale, su una donna anziana che, con tutta la buona volontà, mai avrebbe potuto fronteggiarlo. E dire che sembra essere stata l’unica ad averci almeno provato.