Jean-Paul Belmondo, morto l'attore simbolo del cinema francese - la Repubblica

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È morto Jean-Paul Belmondo, il mondo piange un monumento del cinema

Aveva 88 anni. Tra i più importanti attori francesi, arrivò al successo nel 1960 con i film di Godard

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E' morto Jean-Paul Belmondo, il bello e dannato del cinema francese. Aveva 88 anni. La notizia della sua scomparsa è stata data all'agenzia France Press dal suo avvocato, Michel Godest, il quale ha detto che l'attore è morto nella sua casa di Parigi: "Da qualche tempo era molto affaticato. Si è spento serenamente", ha aggiunto. In 50 anni di carriera, Belmondo ha partecipato a più di 80 film e recitato con i più grandi registi, specialmente francesi, da Truffaut a Lelouche, e la sua fama è dovuta sia a film d'essai apprezzati dalla critica come a film d'azione e commedie di grande successo commerciale. 

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«Non sono molto bello» ammette guardandosi allo specchio Michel Poiccard, il protagonista di Fino all’ultimo respiro; poi aggiunge, ringalluzzito, «ma sono un gran boxeur». In realtà Jean-Paul Belmondo non fu un gran boxeur, anche se la boxe l’aveva praticata da dilettante. Non era neppure molto bello, e tuttavia fu uno degli attori della sua generazione più amati dalle donne, sullo schermo e nella vita, al punto da guadagnarsi il soprannome di Bebel.

Contrariamente a quanto poteva far supporre la sua faccia da simpatica canaglia Belmondo, nato a Neuilly-sur-Seine il 9 aprile 1933, non traeva affatto le sue origini dalla Francia proletaria del Fronte Popolare: il padre Paul era un rinomato scultore e i primi anni di Jean-Paul furono quelli di un rampollo della buona borghesia. Studi al Conservatorio, poi la sua personalità esuberante ed esibizionistica lo attrae verso il palcoscenico.

Belmondo con Alain Delon (afp)

Al cinema debutta ventitreenne e per un po’ deve accontentarsi di piccole parti, tra cui il Lou di Peccatori in blue-jeans di Marcel Carné. Nel 1959 è Laszlo Kovacs, protagonista di A doppia mandata di Claude Chabrol, e guasconeggia come D’Artagnan in una versione dei Tre moschettieri per la tv francese. La svolta arriva con Jean-Luc Godard, che gli offre 50mila franchi dell’epoca per un cortometraggio da girare nella sua stanza. Come ha raccontato più volte, all’inizio Belmondo è diffidente di questo strano tipo che si aggira in occhiali neri per Saint-Germain des Prés; sospetta che le intenzioni di Godard riguardino tutt’altro. Ma sua moglie lo incoraggia: «Alla peggio, gli darai un pugno». Dopo il corto, Charlotte et son Jules, Jean-Paul accetta d’interpretare anche il primo lungometraggio di Godard, Fino all’ultimo respiro: ma è convinto che il film, girato contro ogni regola vigente nei set dell’epoca, non uscirà mai.

Ovviamente è un pessimo profeta, perché Fino all’ultimo respiro diventa il manifesto della Nouvelle Vague e apre una nuova epoca del cinema. Con grande vantaggio personale del protagonista, che da un giorno all’altro vede moltiplicarsi le proposte di lavoro e si scopre uno degli attori più richiesti d’Europa. Nei primi anni Sessanta è spesso in Italia, dove interpreta un film dopo l’altro (è Michele ne La ciociara di Vittorio De Sica, Amerigo ne La viaccia di Mauro Bolognini, il Livornese in Mare matto di Renato Castellani) ritrovandosi accanto a Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Claudia Cardinale.

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Quando si interpretano quaranta film in dieci anni (in tutta la sua carriera arriveranno a poco più di film), non si può andare tanto per il sottile. La vedette francese alterna il cinema d’autore con il comico popolare, la storia d’avventure in costume con il noir: il risultato è che diventa il beniamino, contemporaneamente, di due pubblici generalmente antitetici e irriducibili. Gli intellettuali lo amano per le collaborazioni con Godard (La donna è donna, Il bandito delle undici), con Jean-Pierre Melville (Léon Morin, prete), con François Truffaut (La mia droga si chiama Julie); il grande pubblico lo applaude nei panni di un bandito del Settecento (Cartouche), si emoziona e si commuove vedendolo combattere nella prima (Week-end a Zuydcoote) e nella seconda guerra mondiale (l’episodio della Resistenza parigina ne Il giorno più lungo), ride alle sue atletiche buffonate in commedie campioni d’incassi come L’uomo di Rio o Il cervello.

Il massimo della popolarità arriva, all’inizio del nuovo decennio, con la parte di François Capella in Borsalino di Jacques Deray, film di modesto livello ma di enorme astuzia che sbanca i botteghini sfruttando l’inedita accoppiata tra Belmondo e Alain Delon, per anni conclamati rivali del cinema francese nonché protagonisti di due itinerari in cui si potrebbero contare molte analogie. Travestiti da gangster in omaggio alla moda rétro, Jean-Paul e Alain si comportano da amiconi, mentre contano i milioni di franchi che accompagnano l’apice della loro popolarità.

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Poiché il sistema è vincente, Bebel non viene meno al principio dell’alternanza nemmeno negli anni 70. Il grande successo di film per anime semplici (Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo, Gli sposi dell’anno secondo) non impedisce, infatti, che l’attore sia richiesto dai registi più prestigiosi per film come Stavisky il grande truffatore di Alain Resnais o Trappola per un lupo di Chabrol. Con la seconda metà del decennio, Jean-Paul tende a specializzarsi in parti di agente rompicollo, dove fa il "cascadeur" di se stesso (pubblicità e interviste insistono sul fatto che rifiuta la controfigura, prestandosi anche alle sequenze più spericolate); un quarantenne palestrato e in perfetta forma atletica, star di una serie di «polar» d’azione tra cui Il poliziotto della brigata criminale e Poliziotto o canaglia?.

Se la qualità dei film è un po’ appannata, la popolarità non subisce incrinature: Belmondo è protagonista di parecchi speciali televisivi e, sul grande schermo, compare più di una volta (da T’es fou Marcel  a Les acteurs) nella parte di se stesso. Negli utimi anni era tornato al cinema di qualità, con registi meno noti e tuttavia con risultati interessanti (Itinéraire d’un enfant gâté, Peut-être); anche se il progredire dell’età da una parte, le mutate condizioni del cinema mondiale dall’altra (ai tempi di Jean Gabin, uno come lui sarebbe rimasto una vedette anche con i capelli bianchi) gli avevano tolto gran parte della visibilità internazionale. Le più belle soddisfazioni gliele dava il teatro; sulle cui tavole, trionfante di istrionismo e vitalità, si era esibito come Cyrano de Bergerac o nei panni del mitico Fréderick Lemaître, mattatore dell’ottocentesco Boulevard du Crime.

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Proprio mentre recitava la parte di Lemaître al teatro di Brest, nel dicembre del 2001, si era sentito male e aveva dovuto abbandonare la scena per il reparto cardiologico dell’ospedale. All’epoca, un cronista gli rivolse la fatidica domanda se sia meglio, per un grande attore, morire in scena oppure nel proprio letto: «Nel mio letto -- rispose -- morire in scena è un’indelicatezza!, un modo sicuro per rovinare la serata agli spettatori».