Indiana Jones e l'ultima crociata Recensione

Indiana Jones e l'ultima crociata, la recensione del classico con Harrison Ford e Sean Connery

06 maggio 2020
5 di 5

Nel 1989 Steven Spielberg sfornò quello che per molti è il film migliore della saga: Indiana Jones e l'ultima crociata. Ecco la nostra recensione.

Indiana Jones e l'ultima crociata, la recensione del classico con Harrison Ford e Sean Connery

Dopo un prologo ambientato nel 1912, con un giovanissimo Indiana Jones (River Phoenix) boyscout, impegnato nella sua prima vera avventura, torniamo nel 1938. Jones (Harrison Ford) viene reclutato dal miliardario Walter Donovan (Julian Glover) per riprendere la ricerca del Santo Graal, abbandonata da un altro professore scomparso nel nulla: si tratta di Henry Jones Sr. (Sean Connery), padre distante proprio del nostro eroe. Tra Venezia e la Germania, tra catacombe romane e nazisti sempre più cattivi, Indy cercherà di mettere le mani sul Graal prima dei suoi antagonisti, ma soprattutto dovrà riallacciare i rapporti con il cocciutissimo babbo.

Se domandate a qualunque fan di Indiana Jones quale sia il miglior film della saga ideata da George Lucas e diretta da Steven Spielberg, con buone probabilità vi citerà questo terzo capitolo, Indiana Jones e l'ultima crociata, uscito nel 1989 e accolto da subito trionfalmente. Non tutta la critica è d'accordo, preferendolo a Indiana Jones e il tempio maledetto, ma lasciando la medaglia d'oro ai Predatori dell'arca perduta. In linea teorica, riusciamo a seguire il ragionamento dei detrattori. L'ultima crociata in effetti ha un plot modellato su quello rodato del primo capitolo, un fanservice per rimediare alle critiche ricevute dopo il Tempio Maledetto, tanto che torna persino il Sallah di John Rhys-Davies: superficialmente, la struttura narrativa nei suoi tre atti è uguale a quella del prototipo, inclusa la sconfitta dei cattivi nel finale per hybris, la superbia nella tragedia greca. Dal punto di vista tecnico, Indiana Jones e l'ultima crociata non stupisce nemmeno: non è rivoluzionario nelle sequenze d'azione come i precedenti episodi, giusto spicca la scena del carro armato, comunque variazione sul tema che Spielberg, il suo montatore Michael Kahn e quel pazzo cascatore Vic Armstrong sembrano eseguire a occhi chiusi. Entusiasma, ma non è di certo una scena spartiacque della tecnica cinematografica come lo furono l'inseguimento al camion o la corsa sui carrelli della miniera.

Ma Indiana Jones e l'ultima crociata rimane magico, e una volta che ci siamo liberati delle motivazioni che non lo renderebbero tale, non ci rimane che capire dove siano le vere scintille. Se si guarda solo al plot, si ha l'impressione di una struttura che piega ma non spezza, meno coraggiosa nel ripensarsi rispetto alle follie del Tempio maledetto. Eppure, pare grazie alle idee di uno Spielberg motivatissimo (e lo si avverte), il terzo capitolo segna un'evoluzione enorme nel trattamento del protagonista che, investito di un passato e di un padre, passa così dal divertito stereotipo ambulante che era a un personaggio reale, che esiste nel tempo e invecchia come lo spettatore. Specie rivedendo la trilogia in sequenza, si nota che qui Harrison Ford cominciava in effetti a denunciare la sua età (aveva 46 anni durante le riprese), ma proprio per questo motivo non pesa affatto, anzi: L'ultima crociata è soprattutto una commedia avventurosa, dove poche sequenze action segnano il tempo del racconto ma non lo giustificano. Il soggetto di George Lucas e Menno Meyjes finisce nelle mani di uno sceneggiatore simbolo degli anni Ottanta, il compianto Jeffrey Boam che fu dietro al gran ritmo di Arma letale 2 e Salto nel buio, specialista nel confronto tra due personaggi forti, qui Indy e Henry Jones Sr.

Un altro ingrediente della ricetta di aggiornamento passa dal metalinguismo più sottile che si sia mai visto nella saga: chiamando Sean Connery a interpretare il padre di Indiana Jones, si gioca con le icone. Spielberg e Lucas ritenevano Indy il "loro" 007, cosicché titare in ballo l'attore simbolo dietro alla spia di Ian Fleming e a un determinato tipo di cinema, traduce in eleganti duetti e battaglie di carisma il legame col cinema del passato che i due autori hanno sempre sbandierato con orgoglio e venerazione. Lo spettatore non deve nemmeno pensare troppo: è così scontato che questo cinema sia l'erede di quell'intrattenimento, che tutti abbiamo creduto a Sean Connery padre di Harrison Ford, quando tra i due non ci sono più di dodici anni di differenza! Il tempo dell'immaginario cinematografico scorre più veloce, però lo sguardo veloce di Spielberg sa rallentarlo e fermarlo.

L'ultima crociata racconta inoltre di un Indiana più maturo: se nei Predatori era a caccia dell'Arca anche per orgoglio personale di studioso, in più di un caso si sottolinea qui come il professore anteponga il ricongiungimento col babbo al ritrovamento del Graal. E la sceneggiatura diventa uno di quei tanti casi nel cinema americano in cui la famiglia si traduce in religlione laica, tanto che credere nel Santo Graal e accettare un babbo nonostante i suoi difetti diventano nel film parte dello stesso percorso esistenziale. "Junior" va alla ricerca del "divino in tutti noi", e notate il parallelismo: nel gustoso prologo, dopo aver preso la croce di Coronado, Indy ragazzino corre a comunicare l'impresa al babbo, sordo al suo entusiasmo. Poco dopo nel film, quando l'Indy adulto rimette le mani sulla croce, ammette a Marcus (Denholm Elliot, qui scatenata spalla comica) che la cercava "da tutta una vita". Cercava solo la croce o l'attenzione del papà? Sottigliezze, rimandi, finezza di scrittura: puoi non notarla, ma lavora sottotraccia.
Anche se la dr.ssa Elsa Schneider della meteora Alison Doody non è di certo paragonabile come profondità a Marion, il suo percorso è più significativo di quello della zavorra Willie Scott nel Tempio: il suo doppiogioco è quello sterile di Belloq nel primo film, e ha la parabola più cupa tra i personaggi femminili del ciclo, l'unico tocco davvero malinconico in un film assai allegro e vivace.

Un'ultima parola sulla regia di Steven Spielberg, che preferisce l'eleganza allo sfoggio di tecnica, in un percorso di maturità artistica condivisa con quella esistenziale raggiunta da Indy: sembra incredibile che Spielberg abbia atteso il remake di West Side Story per abbracciare del tutto il musical. A partire dal prologo, spassosa e compressa origin story, la sintonia con la colonna sonora scherzosa di John Williams è qualcosa di più di un intelligente accompagnamento: l'intero film fa letteralmente danzare immagine, suono e recitazione, senza mai calcare la mano, immergendoti sin dalle prime battute in un'atmosfera familiare e ludica che ti sembra di conoscere da una vita. La formula del sorriso. Ancora una festa, a trent'anni di distanza.



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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