Festival di Cannes 2023 – Bilancio
Non senza problemi e polemiche, si è concluso il Festival di Cannes 2023, ancora una volta guidato dall’inossidabile Thierry Frémaux. Alla luce delle due settimane sulla Croisette, dei film visti e persi (non per sempre, per fortuna), degli splendori e delle crepe della macchina organizzativa, dei premi principali, delle sezioni e delle varie prospettive, proviamo a buttar giù una specie di bilancio.
Cerrar los ojos se envió al Comité de Selección del Festival de Cannes el 24 de marzo, en un
QuickTime que integraba el final cut de la película, aunque sin las últimas correcciones de luz
propias del etalonaje digital, y las correspondientes a las mezclas finales, pero que daba cuenta
fidedigna no sólo de la existencia de la obra, sino de su entidad cinematográfica. Un work in
progress, procedimiento bastante habitual usado por los productores en esas circunstancias,
aceptado por los comités de selección de los festivales… [qui il testo integrale]
Mentre buona parte della stampa tace, anche quando costretta a sorbirsi la cerimonia di premiazione per poter vedere il film di chiusura (l’atteso e deludente Elemental della Pixar), lo splendido cineasta spagnolo Víctor Erice ci mette di fronte al re nudo, a una delle tante deleterie dinamiche festivaliere. Di Cannes, certo, ma non solo. Ma basterebbe, in fin dei conti, prendere in considerazione solamente due film per calibrare le direttrici del Festival di Cannes, la pellicola d’apertura e quella di chiusura. Entrambi superflui, piuttosto sterili, rapidamente dimenticabili, Jeanne du Barry di Maïwenn ed Elemental di Peter Sohn sono la cartina tornasole di una concezione monolitica del festival, dei festival. Da un lato, come si è poi visto, rivisto, stravisto durante la cerimonia di premiazione, l’apertura affidata al film di Maïwenn è l’ennesima autocelebrazione della poderosa e senza dubbio fertile industria transalpina (però, a un certo punto, si potrebbe anche cambiare musica…); dall’altra, in chiusura, anche se interessa a pochissimi, si vede come sulla Croisette il cinema d’animazione conti pochissimo, praticamente niente, e il cinema in generale conti relativamente. Ed ecco che un film come l’ottimo e abbondante Mars Express di Jérémie Périn finisce per passare inosservato, collocato senza motivo nella sezione Cinéma de la plage (bella, ma la visibilità è altrove), mentre l’amabile Robot Dreams di Pablo Berger viene addirittura marchiato come Séance enfants. Vabbè, peggio di così è probabilmente impossibile. Invece, come ampiamente auspicabile e già visto persino con qualche impresentabile prodotto della DreamWorks, il mainstream a stelle e strisce tira a prescindere, gode della massima visibilità, viene sospinto con tutte le forze del festival. È davvero necessario? Sì, ma non per il film, per il festival. A questo punto, per l’ennesima volta dopo tanti anni, ci domandiamo se questa concezione di festival sia davvero utile al cinema, ovviamente nel senso culturale del termine. L’industria, si sa, qui ci sguazza.
E allora torniamo a Erice, al suo magnifico Cerrar los ojos, alle esclusioni insensate dal concorso, alle beghe tra il colosso del Palais e la più piccola Quinzaine. Nessuna novità sia chiaro, solo un po’ di stanchezza – la nostra. E l’amara consapevolezza che anno dopo anno il sistema festivaliero si sia sempre più incancrenito e, ancor peggio, sia sempre più simile a una sorta di grande produttore. In questo senso, tra l’altro, leggiamo la vittoria del pur interessante Anatomie d’une chute di Justine Triet e di altri titoli delle ultime edizioni. Non solo cannensi, repetita iuvant. Un po’ come il Sundance, il grande giro festivaliero alimenta un cinema sempre più prevedibile, ammansito, fin troppo riconoscibile e presto dimenticabile – per dire, tra pochi anni, cosa sarà rimasto di Titane?
Poi, come se non bastasse, il Festival di Cannes 2023 conferma il gigantismo senza limiti della selezione, oramai ampiamente oltre la dimensione umana. Sempre più film, più accreditati, più di tutto. Alla fine, con una selezione che poco seleziona ma che pesca a strascico, quanti film meritevoli restano invisibili? Perché, ad esempio, programmare anche il fiacco e smaccatamente derivativo Project Silence? Perché rendere abnorme il fuori concorso, accumulando, accumulando e accumulando? Per chi? Non per il cinema…
Detto di Cerrar los ojos, Mars Express e Robot Dreams, aggiungiamo qualche titolo in ordine sparso, tra la magnificenza e l’interessante: gli italiani Bellocchio (Rapito) e Moretti (Il sol dell’avvenire), mentre lascia più di un dubbio la Rohrwacher (La chimera); gli attesi e facilmente pronosticabili Monster di Hirokazu Kore-eda, Occupied City di Steve McQueen, About Dry Grasses di Nuri Bilge Ceylan, Youth (Spring) di Wang Bing, Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, May December di Todd Haynes, Fallen Leaves di Aki Kaurismäki, Perfect Days di Wim Wenders e L’Été dernier di Catherine Breillat. Discorso a parte per Ken Loach, col suo commovente e dignitosissimo The Old Oak, e per quel folle meraviglioso che è Takeshi Kitano, qui con Kubi, bellissimo. A premio, anche meritato, The Zone of Interest di Jonathan Glazer, e poi il solido Le Procès Goldman di Cédric Kahn, il già citato vincitore Anatomie d’une chute di Justine Triet, con qualche riserva ma indubbiamente stimolante. Ma anche, volendo, Trần Anh Hùng e Jessica Hausner e altri, la lista crescerà nei prossimi giorni, qui.
La speranza è l’ultima a morire, ma per Cannes 2024 ci aspettiamo lo stesso gigantismo, gli stessi problemi per entrare in sala (gioie e dolori della prenotazione dei biglietti e della logica vetusta e piuttosto ridicola delle caste…), i soliti film schiacciati dal peso del programma. Come sempre, però, sappiamo che nel peggiore dei casi possiamo rifugiarci nel passato, nello splendore del cinema d’antan, magari scovando qualche illuminante documentario sul cinema – un po’ didascalico nella forma, ma ad esempio Nelson Pereira Dos Santos – Vida De Cinema è un bel viaggio stimolante. Qui si sono viste godibilissime anteprime, come Indiana Jones e il quadrante del destino di James Mangold, ma anche versioni rimesse a nuovo di titoli imponenti come Il disprezzo di Jean-Luc Godard, L’Amour fou di Jacques Rivette, The Young Girl di Souleymane Cissé e Hello, That’s Me! di Frunze Dovlatyan. E sulla spiaggia, durante la proiezione de L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente, si accalcava una folla oceanica. Se solo si tornasse alle retrospettive…