Agosto 1968, Chicago. In città è in corso la Convention del Partito Democratico per la nomina del candidato che sfiderà Richard Nixon alle elezioni presidenziali di novembre. Jerry Rubin, leader del Youth International Party (gli yippies, ala politicizzata parte delle galassia hippie), cammina solenne per Grant Park. La folla di manifestanti, curiosi e poliziotti lo circonda. E’ tempo di iniziare la cerimonia. Al termine della formula di rito, il partito ha nominato il suo candidato alla Presidenza degli Stati Uniti: “Pigasus the Immortal,” maiale di sessantacinque chili delle campagne dell’Illinois.

Gli slogan: “loro nominano un presidente e quello si mangia la gente. Noi nominiamo un presidente e la gente se lo mangia.” E ancora “se non lo possiamo avere alla Casa Bianca, almeno possiamo averlo a colazione.” Seguono, inevitabili, gli arresti per "disturbo alla quiete pubblica”: di Rubin, dei suoi sodali yippie e di Pigasus stesso. Il giorno successivo, il militante yippie Brad Fox si presenta a Grant Park con “la signora Pigasus”, venuta a perorare la causa della liberazione del marito. Questa volta, prima di procedere all’arresto di Fox, alla polizia tocca inseguire “la signora” in giro per il parco.

Non c’è traccia di Pigasus ne Il Processo ai Chicago 7, ma la storia raccontata è talmente assurda che Aaron Sorkin ha potuto permettersi di sorvolare su uno dei suoi aspetti più memorabili. Il celebre autore di West Wing, Newsroom, e The Social Network ha scelto per il suo secondo film da regista un evento tanto affascinante quanto per lo più dimenticato: il processo, fortemente politicizzato e spettacolarizzato sui media del paese, che avvenne a seguito degli scontri tra polizia e manifestanti durante la Convention del Partito Democratico nel 1968. Il ’68 è un anno che non ha bisogno di presentazioni: le proteste studentesche nel mondo, il maggio francese, gli scioperi sindacali, la primavera di Praga in Unione Sovietica, per citare solo gli aspetti più memorabili.

after the barricades are broken in front of the criminal courts building, police officers begin to break up groups of protestors who responded with everything from name calling to thrown bottles, new york, new york, february 16, 1970 the protest was related to events surrounding the political demonstrations held at the chicago democratic convention photo by garth eliassenpictorial paradegetty imagespinterest
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Ma negli Stati Uniti il ’68 è caratterizzato da una sequenza di eventi cruciali che mette i brividi: a marzo, il Presidente Lyndon B. Johnson annuncia a sorpresa che non si ricandiderà alle elezioni per concentrarsi interamente sul portare a termine la guerra in Vietnam entro la fine del suo mandato (sappiamo come è andata a finire); ad aprile, Martin L. King è ucciso a Memphis: a giugno è il turno di Bob Kennedy, in quel momento tra i più quotati candidati alla nomination democratica, freddato alla fine di un comizio a Los Angeles; in estate si raggiunge il picco di soldati impiegati in Vietnam (cinquecentomila tra marines e truppe d’appoggio) e le bare ritornano al ritmo di mille alla settimana; a novembre, Richard Nixon diventa presidente.

Il Processo dei Chicago 7 fa un buon lavoro nello spazzare via immediatamente alcune storture storiche di fondo. Tendiamo a pensare agli anni sessanta negli Stati Uniti come a un momento di liberazione sociale e culturale collettiva, con hippie, studenti e studentesse, pantere nere, femministe, pacifisti, veterani di guerra, attivisti per i diritti degli omosessuali uniti nella lotta per una trasformazione radicale della società americana. Il film si sofferma fin da subito sulla falsità di questo mito. La carrellata iniziale è una rapida immersione nella diversità di classe, razziale, culturale e sociale della grande galassia pacifista degli anni sessanta: gli studenti e le studentesse in giacca e cravatta e tailleur della Students for a Democratic Society; il comizio popolato di hippies con gonne a fiori e capelli fino alla vita di Abbie Hoffman e Jerry Rubin; la sede di Oakland delle Pantere Nere; l’ordinato patio della casa suburbana del socialista cristiano non-violento David Dellinger. La Convention Democratica del 1968 è forse la prima occasione in assoluto in cui gruppi dalle origini e gli approcci così diversi si trovano fianco a fianco per cercare di coordinare i propri diversi modi di condurre azione politica.

Ma l’esito del poderoso sforzo messo in campo è disastroso: del tutto ignorati dalla Convention Democratica, che elegge come candidato il Vicepresidente e sostenitore della guerra in Vietnam Hubert Humphrey, i manifestanti subiscono la violentissima repressione della polizia di Chicago, che massacra ripetutamente centinaia di manifestanti per le strade. “The Whole World is Watching, cantano i manifestanti mentre le botte ricevute sono trasmesse in diretta in TV, scatenando un putiferio di proteste in tutto il paese. Sorkin mette in scena la protesta e la violenza della polizia ( anche se in realtà i numeri dei manifestanti erano ben più massicci di quanto non appaia nel film), ma per ovvie ragioni non può approfondire un tema che rimane ancora ampiamente dibattuto tra gli storici. La domanda cruciale la pone il procuratore federale Richard Schultz (Joseph Gordon-Levitt) all’inizio del film: Nixon ha vinto le elezioni quel giorno a Chicago?

portrait of the chicago seven and their lawyers as they raise their fists in unison outside the courthouse where they were on trial for conspiracy and inciting a riot during the 1968 democratic national convention, chicago, illinois, october 8, 1969 they are, from left, lawyer leonard weinglass, rennie davis, abbie hoffman 1936   1989, lee weiner, david dellinger 1915   2004, john froines, jerry rubin 1938   1998, tom hayden 1939   2016, and lawyer william kunstler 1919   1995 froines and weiner were ultimately acquitted on all charges while the others were convicted of inciting to riot though the convictions were overturned on appeal photo by david fentongetty imagespinterest
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Solo tre anni prima, la violenza della polizia contro i manifestanti per i diritti civili afroamericani che attraversavano pacificamente l’Edmund Pettus Bridge all’inizio della loro marcia da Selma a Montgomery aveva portato a un moto collettivo di disgusto – impeto fondamentale per creare lo spazio politico per l’approvazione del Voting Rights Act e celebrare cosi la definitiva vittoria del movimento per i diritti civili. La violenza di Chicago, invece, per quanto ugualmente brutale e altrettanto mediatica, non porta nessun vantaggio concreto ai manifestanti.

Chicago 1968 è una resa dei conti interna al mondo progressista americano, una resa dei conti in cui, alla prova dei fatti, finiranno per perdere tutti. Il film si concentra su una faglia che attraversava il fronte pacifista dell’epoca, quella tra Tom Hayden e la SDS da una parte e Abbie Hoffman, Jerry Rubin e gli yippies dall’altra. Hayden (Eddie Redmayne nel film) è il principale autore del Port Huron Statement, testo fondativo del movimento studentesco americano e della sinistra radicale post-partitica e post-sindacale degli anni Sessanta. Un capolavoro incentrato su un socialismo di stampo umanistico e su una modalità di militanza politica partecipativa destinato a influenzare in maniera profonda la storia della sinistra americana per generazioni. Hoffman e Rubin sono i promotori di un tentativo di trovare una sintesi tra il disimpegno edonista degli hippies e l’eccessiva serietà e politicizzazione della sinistra studentesca (che dopo Chicago inizierà un verticale declino fatto di lotte intestine e derive armate). Una via fatta di teatralità, spregiudicatezza, geniale uso dei media, scandalo e ironia. “Il mondo è il nostro palco,” dicono Hoffman e Rubin, e stunts come quello di Pigasus spiegano benissimo cosa hanno in mente.

Sorkin appiattisce un po’ lo scontro, facendo liberamente gigioneggiare Hoffman (Sascha Baron Cohen) per buona parte del film e trasformando Hayden in un parlamentarista sui generis (“se non si vincono le elezioni, non c’è libertà, uguaglianza, e nient’altro,” dice Hayden nel momento di tensione massima con Hoffman. In realtà Hayden cercava una via ben più stretta tra parlamentarismo e azione di rottura sociale: “la vera strategia per Chicago è sempre stata la disruption”, scriveva prima di giungere in Illinois). Ma la tensione tra rivoluzione politica e trasformazione culturale che il duo Hayden-Hoffman incapsula è un tema importantissimo di elaborazione sociale per il movimento progressista americano degli anni sessanta. Su questo aspetto Il processo dei Chicago 7 resta in bilico fino all’ultimo, in quella che forse è la tematica meglio problematizzata di tutto il film.

Sorkin ha detto: "Vorrei che il mio film fosse meno rilevante".

Ma se si allarga un po’ lo sguardo, è inevitabile concludere che da Chicago, alla fine, uscirà perdente anche il fronte democratico moderato che ha incoronato Humphrey e ha respinto le proteste della sinistra studentesca, giovanile e pacifista. Incapace di incorporare e governare quell’energia, il Partito Democratico perde le elezioni e spiana la strada alla costruzione di un sistema egemonico di destra che trionferà sotto Reagan un decennio abbondante dopo. In un momento storico come il nostro in cui la sinistra americana sembra tornare ad avere un ruolo politico centrale nel Partito Democratico, Sorkin ritorna al momento in cui quella frattura tra politica istituzionale e movimentismo si è fatta definitiva e insanabile.

Nel film c’è molto altro. Sorkin stesso ha detto “vorrei che il mio film fosse meno rilevante,” cogliendo un aspetto che probabilmente lui stesso non aveva in mente quando ha iniziato a lavorare a questo progetto. La violenza della polizia è il motore principale dell’intera vicenda di Chicago, in una dinamica che ha chiari paralleli con le circostanze che hanno portato alle violenze in strada di quest’estate a seguito della morte di George Floyd. Parliamo di un sistema che si regge ormai in maniera strutturale su di un monopolio della violenza da parte dei corpi di polizia locali dai risvolti talvolta criminali e su di una gestione del conflitto sociale finalizzata alla repressione piuttosto che alla soluzione di tensioni sociali.

Le organizzazioni pacifiste riunitesi a Chicago nel ’68 avrebbero avuto modo di evitare derive violente se la città avesse autorizzato la protesta, cosa che invece non avvenne mai. Lo stesso corpo di polizia, in più di un occasione, si comportò in modo tale da fomentare il disordine pubblico invece di ripristinarlo. “A iniziare la sommossa è stato il Dipartimento di Polizia di Chicago” dice l’ex-Attorney General Ramsey Clark (Michael Keaton) quando è chiamato sul banco dei testimoni (per una testimonianza ritenuta per davvero irrilevante ai fine processuali). Guardando l’approccio di tanti corpi di polizia locali alle proteste di quest’estate, sembra che il tempo in America si sia fermato.

american activist jerry rubin 1938   1994 speaks at a news conference with other members of the chicago seven, including john froines, rennie davis, lee weiner and abbie hoffman 1936   1989, may 1, 1970 black panther elbert howard stands to his left the chicago seven were indicted for conspiracy and inciting to riot during the 1968 democratic national convention in chicago, illinois photo by silvermannew york times cogetty imagespinterest
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Un ultimo aspetto da menzionare: il ruolo di Bobby Seale e delle Pantere Nere nella vicenda della Convention e del processo. La Pantere Nere non partecipano alle dimostrazioni di Chicago; è il solo Bobby Seale a portare il saluto dell’organizzazione, volando dalla California per poche ore per tenere un discorso. Seale finisce alla sbarra con gli altri leader, in un processo che il nuovo General Attorney del governo Nixon John N. Mitchell vede come un’occasione perfetta per mandare un segnale politico all’intera galassia movimentista americana. In questa improbabile posizione (“Quattro ore sono stato a Chicago! Quattro ore!” urla Seale in aula), il leader delle Pantere Nere avanza la legittima richiesta di essere difeso dall’avvocato ufficiale del gruppo invece che dal legale assunto dagli altri sette leader imputati.

Ci vorranno ottantatre giorni e una sequenza di umiliazioni pubbliche infinite perché il giudice Julius Hoffman conceda di stralciare la posizione di Seale e gli permetta di accedere a un processo separato. Sorkin usa diversi episodi per dare un’idea della situazione che le Pantere Nere erano costretti ad affrontare: il trattamento di Seale, imbavagliato e legato al tavolo degli imputati nel corso del processo (non solo una volta, ma per più giorni di seguito), il vero e proprio assassinio di stato del giovane e brillantissimo leader della sezione di Chicago Fred Hampton nel corso del processo, l’uso di un falso messaggio delle Pantere Nere come pretesto per dismettere membri della giuria favorevoli agli imputati. Ma il film non può che dare una vaga idea dell’enormità della discriminazione di stato subita dalle Pantere Nere, movimento che J. Edgar Hoover definì senza mezze misure “la più grande minaccia alla sicurezza interna del paese.”

Quando Sorkin si distanzia più decisamente dalla realtà storica, lo fa per concedere qualcosa al suo indomito animo di liberal ottimista. La figura del procuratore dal cuore buono impersonato da Gordon-Levitt è pura invenzione, così come il climax finale di cui è protagonista Tom Hayden – colpi di teatro per evitarci l’amaro in bocca alla fine di una vicenda che dà un immagine davvero poco edificante dello stato di salute della “più antica democrazia del mondo.”