L’angolo di Michele Anselmi

D’accordo, Donald Trump ha detto di recente: “Se non sarò eletto sarà un bagno di sangue”, alludendo forse a una possibile guerra civile (poi ha ridimensionato il senso della fosca profezia). Sembra prenderlo sul serio, invece, il regista inglese Alex Garland, classe 1970, anche se il suo “Civil War”, nelle sale dal 18 aprile con 01- Rai Cinema, fu scritto nel giugno 2020, quando Trump regnava ancora alla Casa Bianca.
Confesso che, a differenza di molti colleghi, a me questa “distopia” ambientata in futuro ravvicinato non convince proprio, anzi mi sembra, al di là dei notevoli valori formali, una mezza scemenza, benché presa molto sul serio. Negli Stati Uniti c’è chi ha sollevato dubbi sull’uscita di un film del genere a pochi mesi dalle presidenziali, soprattutto alla luce di un sondaggio YouGov/Economist del 2022 secondo il quale il 40% degli interpellati considerano “in qualche modo probabile nei prossimi dieci anni una guerra civile” (solo in Italia chiamiamo “di secessione” il conflitto 1861-1865).
Garland immagina che un presidente americano giunto al suo terzo mandato, non si capisce se repubblicano o democratico ma certo autoritario, stia per cadere sotto i colpi di una ribellione armata guidata dalle Forze Occidentali, cioè un esercito formato dalla California e del Texas (uno Stato “blu” e uno Stato “rosso”, a evitare le solite contrapposizioni, e una bandiera con solo due stelle). Il presidente si dice convinto della vittoria, ma l’uomo è ormai assediato, chiuso nel fortino di Washington, mentre tutto il Paese è scosso da un’ondata di violenza inconsulta e feroce.
In questo contesto fratricida, una famosa fotoreporter di guerra della Reuter, la veterana Lee, decide di intervistare il presidente prima che tutto precipiti. Il rischioso viaggio da New York a Washington, su una vecchia station-wagon, si arricchisce di personaggi: un giovane collega scafato, un’allieva fotografa alle prime armi, un vecchio cronista nero. E intanto, come in un film di zombie, il paesaggio diventa sempre più minaccioso: esecuzioni a vista, gente impiccata e lasciata penzolare dai ponti, piccole comunità di sopravvivenza, l’acqua e la benzina che mancano, cecchini micidiali appostati nelle fattorie, anche una fossa comune coperta dalla calce che lascia prevedere seri guai per i quattro viaggiatori.
Garland arpeggia sul tema ricorrendo a un bel numero di stereotipi: ecco il soldato impazzito e razzista, ecco gli scatti in bianco e nero come “frizzati”, ecco il cinismo dei fotoreporter alla ricerca dell’immagine migliore, ecco infine l’assalto finale alla Casa Bianca chiuso da una ghignante fotografia.
Da “Salvador” di Oliver Stone a “Sotto tiro” di Roger Spottiswoode, solo per citare due titoli sull’argomento, il cinema ha raccontato spesso il lavoro dell’inviato di guerra, magari cinico e impolverato, amico della bottiglia e rassegnato a beccarsi una fucilata. “Civil War” non fa eccezione, anche se, una volta accettata la dimensione metaforica della storia, magari si vorrebbe sapere perché è scoppiata quella guerra, perché due Stati, ancorché ricchi, potenti, e pur con l’aiuto di altri diciassette via via scesi in campo, abbiano la meglio sul resto dell’Unione, perché il presidente americano, con tutti i suoi guai, dovrebbe farsi intervistare da Lee prima di fare la probabile fine di Gheddafi o di Ceausescu.
Kirsten Dunst, Wagner Moura, Cailee Spaeny e McKinley Anderson incarnano i quattro testimoni in viaggio alla volta di Washinton, ciascuno dei quali deciso a raccontare ciò che vede, senza sovrastrutture politiche, per la serie “i fatti separati dalle opinioni”. Ma il migliore in campo forse è Jesse Plemons, il guerriero impazzito in tuta mimetica e occhiali rossi che sente di avere potere di vita e di morte su chiunque gli capiti per le mani.
Naturalmente il crudo realismo della messa in scena fa sprofondare lo spettatore dentro il clima della guerra, coi proiettili che sfiorano, il fumo acre, le macerie, l’adrenalina a mille, le carni lacerate. Ma si esce da “Civil War” con la sensazione che tutto sia un po’ fasullo, di testa, frutto di una visione squisitamente europea degli Stati Uniti (e si rimpiange la satira che Joe Dante distillò in “La seconda guerra civile americana” nel lontano 1997).

Michele Anselmi