(PDF) IL TERZO OCCHIO - HATHAYOGA | paolo proietti - Academia.edu
2 3 La Pratica e l’Insegnamento dello Yoga 4 IL TERZO OCCHIO di Paolo Proietti Estratti delle Lezioni del Corso di Formazione per Insegnanti Yoga Citrā Padova, riconosciuto da Yoga Alliance International® e Ginnastica Yoga CSEN diretto da Laura Nalin e Paolo Proietti Biennio 2019–2021 A.S.D. Yoga Citra – Via del santo 30, 35123 Padova. Telefono: +39 333 4145 141 – www.asdyogacitra.com - Email: asdyogacitra@gmail.com 5 Paolo Proietti IL TERZO OCCHIO A.S.D. Yoga Citra Padova Formazione, Promozione e Divulgazione dello Yoga 6 7 Indice INTRODUZIONE .................................................................................. 9 IL TERZO OCCHIO ............................................................................. 21 TRA POLITICA E FANTASCIENZA ................................................ 27 IL SEGRETO DEL FIORE D’ORO ..................................................... 35 SCIENZA MEDIOEVALE ................................................................. 43 LA GHIANDOLA PITUITARIA ........................................................ 49 ALCHIMIA INTERIORE .................................................................... 57 LA PRATICA DELLO ṢAḌAṄGAYOGA ........................................ 71 LA REALIZZAZIONE DEI DIECI SEGNI ....................................... 77 ENERGIE SOTTILI ............................................................................. 81 IL CICLO NASALE ............................................................................ 89 I DUE EMISFERI CELEBRALI ......................................................... 95 PRĀṆĀYĀMA .................................................................................. 103 I CINQUE SOFFI VITALI ................................................................ 107 CONCLUSIONE: ............................................................................... 115 TESTI DI RIFERIMENTO ................................................................ 125 LO YOGA DEI NATH ...................................................................... 128 ṢAṬKRIYĀ ......................................................................................... 130 ṢAḌAṄGA ........................................................................................ 130 NOVE CAKRA DEI NATH ............................................................. 131 SEDICI ĀDHĀRA ............................................................................. 132 TRILAKṢYA ...................................................................................... 133 LE CINQUE STANZE (VYOMA PAÑCAKA)................................. 133 BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 136 8 9 INTRODUZIONE Il Mito della Pineale Nella cultura post new age la ghiandola pineale viene identificata con il terzo occhio delle divinità hindu e si ritiene che la sua “attivazione” porterebbe all’emergere di particolari poteri psichici ed alla cosiddetta “illuminazione”. Questa credenza, alimentata da una folta letteratura pseudoscientifica, nasce dalla errata interpretazione e dalla rielaborazione di teorie già ritenute infondate da Galeno1 nel II secolo della nostra era. Galeno, riconosciuto come uno dei padri della medicina moderna, descrive la ghiandola pineale nel testo “De usu partium”, dove spiega, tra l’altro che il suo nome deriva dalla somiglianza, per forma e dimensioni, con un pinolo, e la riconosce come una delle ghiandole che, secondo le sue teorie, avevano la funzione di sostenere i vasi sanguigni. Prima di Galeno si credeva invece che la pineale Galeno di Pergamo (129 d.C.– 201d.C. circa) è stato un medico greco i cui studi hanno influenzato la medicina occidentale fino al Rinascimento. Dal suo nome deriva la galenica, l'arte di preparare i farmaci. 1 10 regolasse il flusso dello “spirito”, ovvero ciò che oggi chiamiamo liquido cerebrospinale e che all’epoca si reputava essere una sostanza gassosa. Ghiandola Pineale: Fonte: Fonte: Anatomography maintained by Life Science Databases (LSDB) Con il tempo, a causa delle diverse valenze della parola spirito, si creò l’equivoco dell’identificazione della pineale con il “Terzo Occhio” o, come affermava Cartesio, con la “sede dell’anima”; un equivoco generato dal fatto che in filosofia lo “Spirito” viene inteso come una “forza vitale distinta dalla materia e che tuttavia interagisce con essa” 2 oppure come una “forma dell’essere radicalmente diversa dalla materia” 3 talvolta identificata con “l’assoluto”, ovvero con l’insieme di ogni genere di manifestazione. M. Pancaldi, M. Trombino, Maurizio Villani, “Atlante della Filosofia: gli autori, le parole, le opere”. Hoepli editore, 2006. 3 Op. Cit. 2 11 Galeno in una litografia di Pierre Roch Vigneron (1789–1872). Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Galen_detail.jpg. Galeno di Pergamo (Pergamo, 129[1] – Roma, 201 circa) è stato un medico greco antico, i cui punti di vista hanno dominato la medicina occidentale per tredici secoli, fino al Rinascimento, quando cominciarono lentamente e con grande cautela a essere messi in discussione, per esempio dall'opera di Vesalio. Dal suo nome deriva la galenica, l'arte di preparare i farmaci da parte del farmacista in farmacia. 12 Gli attuali new ager interpretano la credenza antica che vedeva nell’epifisi l’organo che regola il “flusso dello spirito”, sulla base dell’identificazione dello spirito con l’assoluto tipica dell’idealismo tedesco – continuando ad alimentare il mito della ghiandola pineale quale anello di congiunzione tra il mondo degli uomini e quello degli dei, un mito diffuso, come vedremo, alla fine del XIX secolo dalla Società Teosofica. Paradossalmente le teorie e le osservazioni dei medici antichi erano più in linea con le moderne neuroscienze delle concezioni dei teosofi e degli attuali new ager: già due secoli dopo Galeno, le sue teorie furono riprese e sviluppate dal vescovo Nemesio di Emesa (350 – 420 circa) che nel suo “De cogitazione e De memoria”, dopo aver affermato, come già Galeno, che la “regolazione dello spirito avveniva non grazie alla ghiandola pineale, ma tramite il “verme cerebellare”ovvero la parte mediana del cervelletto – si spinse fino a teorizzare la cosiddetta “localizzazione ventricolare”, ovvero la corrispondenza di ogni parte del cervello ad una precisa facoltà, anticipando in un certo qual modo le scoperte degli scienziati moderni. In particolare, secondo Nemesio: - Al ventricolo anteriore sarebbe associata la facoltà dell’immaginazione; - Al ventricolo mediano sarebbe associata la ragione; - Al ventricolo posteriore la memoria. Nel Medioevo divennero molto popolari le teorie del medico bizantino Qusta ibn Luqa (820-912) che riprendendo gli studi di Galeno e Nemesio non solo attribuì il compito della regolazione dello spirito/liquido cerebrospinale al verme cerebellare, ma mise appunto una specie di “tecnica operativa” 13 per attivare a piacimento il flusso di coscienza piuttosto che il pensiero razionale. Secondo Qusta ibn Luqa coloro che volevano immergersi nella memoria guardavano in alto, in modo che la valvola del verme cerebellare si aprisse al flusso dei ricordi. Al contrario coloro che volevano attivare il pensiero razionale guardavano in basso allo scopo di chiudere il passaggio al flusso di coscienza e mantenere incontaminato lo “spirito della ragione”. Qusta Ibn Luqa (Costa figlio di Luca). “Portrait of Qusta ibn Luqa, famous arab mathematician and scientist”. Autore: Paolo Giovio (1483-1552). Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Qusta_ibn_Luqa#/media/File:Qusta_ibn_Luqa.jpg 14 Qualche secolo più tardi Mondino de’ Luzzi (1275 -1326) docente di medicina dell’università di Bologna e primo scienziato occidentale a riprendere la pratica delle dissezioni del corpo umano iniziata da Erofilo nel III secolo a.C. e abbandonata durante l’era cristiana, chiamò il verme cerebellare “pinea”, e questo originò ulteriore confusione nei non addetti ai lavori, tanto che ancora oggi molti non conoscono né l’esatta posizione dell’epifisi nel cranio né le sue reali funzioni. Nel XVI secolo l’anatomista Niccolò Massa (1489- 1569) scoprì che lo “spirito” che riempiva i ventricoli cerebrali secondo i medici antichi era in realtà un liquido, il liquido cerebrospinale, e il suo contemporaneo Andrea Vesalio (1514 -1564) ridimensionò l’importanza sia della pineale sia del verme cerebellare, dimostrando l’infondatezza delle teorie precedenti che riconoscevano nell’una o nell’altro delle valvole in grado di regolare il flusso di coscienza4. Il mito della pineale come sede dell’anima fiorisce pochi anni più tardi, con Cartesio. René Descartes (1596-1650) non era né un medico né un anatomista, ma, essenzialmente, un matematico. Ciò nonostante si avventurò nello studio del cervello umano in ben due trattati - “De homine” e “Le passioni dell’anima” - nei quali, mostrando una scarsissima conoscenza dell’anatomia, riprende delle tesi già considerate superate ai tempi di Galeno. 4 A. Vesallus, “De Humani corporis fabricaLibri septem”, 1543. 15 René Descartes (1596-1650): L’homme de René Descartes, et la formation du foetus…. Paris: Compagnie des Libraires, 1729. Fonte: McLeod - Historical Medical Books at the Claude Moore Health Sciences Library, University of Virginia; “L'interazione tra mente e corpo in due illustrazioni di Cartesio: nella prima gli stimoli esterni verrebbero trasmessi dagli organi sensoriali alla ghiandola pineale nel cervello, e in tal modo recepiti dallo spirito immateriale; quest'ultimo a sua volta, nel secondo disegno, impartisce un comando veicolato agli arti. Scrive Cartesio ne “Le passioni dell’anima”, parte prima, articoli 31,32: “[…] come si vede che questa ghiandola è la principale sede dell’anima. Mi sono convinto che l’anima non può avere in tutto il corpo altra localizzazione all’infuori di questa ghiandola, in cui esercita immediatamente le sue funzioni, perché ho osservato che tutte le altre parti del cervello sono doppie, a quel modo stesso che abbiamo due occhi, due mani, due orecchi, come infine, sono doppi tutti gli organi dei nostri sensi esterni. Ora, poiché abbiamo d’una cosa, in un certo momento, un solo e semplice pensiero, bisogna di necessità che ci sia qualche luogo in cui le due immagini provenienti dai due occhi, o altre duplici impressioni provenienti dallo stesso oggetto attraverso duplici gli organi duplici degli altri sensi, si possono unificare prima di giungere all’anima, in modo che non le siano rappresentati due oggetti invece di uno: e si può agevolmente concepire che queste 16 immagini, o altre impressioni, si riuniscano in questa ghiandola per mezzo degli spiriti che riempiono le cavità del cervello; non c’è infatti nessun altro luogo del corpo dove esse possano essere così riunite, se la riunione non è avvenuta in questa ghiandola.” René Descartes, Pineale. Fonte: https://philosophykitchen.com/wp-content/uploads/2015/12/Descartes-pineal.jpg Per Cartesio il corpo umano è una macchina nella quale la ghiandola pineale, sede dell’anima, gestisce le facoltà della percezione, dell’immaginazione, della memoria e della motricità. Le sue supposizioni non si fondavano né su osservazioni sperimentali né sulle concezioni della sua epoca, ma su una serie di personali teorie assai fantasiose. La ghiandola pineale secondo Descartes sarebbe sospesa in mezzo ai ventricoli cerebrali e pullula di “spiriti animali”, dall’aspetto di un “vento molto fine” o di “una fiamma pura e vivace che gonfia i ventricoli”. 17 Nessuno scienziato serio prenderebbe in considerazione le bizzarre teorie di Cartesio, ma nel XIX secolo, sull’onda dell’Orientalismo e del diffondersi delle moderne “scienze esoteriche” alcuni filosofi e maestri spirituali ripresero la favola della “pineale sede dell’anima”. Cominciò a diffondersi la voce che l’epifisi fosse una reliquia filogenetica, ovvero i resti un terzo occhio dorsale che l’essere umano avrebbe perso nel corso dell’evoluzione e la maestra spirituale Helena Petrovna Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica - sovrapponendo questa errata credenza5 alle fantasie di Cartesio - identificò proprio nella ghiandola pineale il “terzo occhio di Śiva”, l’organo della “visione spirituale” che, purtroppo “si era atrofizzato nell’uomo moderno, ma per fortuna poteva essere riattivato grazie alle pratiche dello yoga6”. Rudolf Steiner, allievo di Blavatsky, sosteneva invece che la pineale fosse la reliquia filogenetica di un organo che avrebbe permesso ai Lemuriani, nostri progenitori, di discriminare il caldo dal freddo. I Lemuriani, nella concezione della Teosofia e dell’Antroposofia, sarebbero stati degli ermafroditi molto evoluti spiritualmente; provvisti di un corpo informe, bianco e molliccio che li rendeva incapaci di correre o camminare sulla terra, ma, in virtù dei loro poteri psichici sarebbero stati in grado di viaggiare con il corpo Una reliquia filogenetica è, per definizione, un organo corporeo che ha perso la sua funzione ed esiste ancora perché non sussiste una particolare esigenza della selezione naturale che porti alla sua scomparsa; dato che la ghiandola pineale ha un sua funzione, importantissima, nell’organismo umano, non può essere definita reliquia filogenetica. 6 H.P. Blavatsky, “La Dottrina Segreta”, 1888. 5 18 astrale nel tempo, nello spazio e nelle indefinite dimensioni di cui si compone l’Universo. Elena Blavatsky, terza a destra della terza fila dal basso, al Convegno della Società Teosofica del Dicembre 1884. Fonte: https://www.blavatskyarchives.com/hpbphotos19.htm Le teorie teosofiche e antroposofiche appaiono ai nostri occhi piuttosto bizzarre, come bizzarri possono apparire gli esercizi per attivare la pineale/Terzo Occhio proposti sia da Blavatsky sia da Steiner. Steiner, tra l’altro affermava che la “visione dei mondi superiori è ostacolata dalla volontà di riconoscerli dopo averli visti” per cui prima bisognava comprendere l’esistenza di tali mondi attraverso il sano pensare”; sarebbe proprio il “sano pensare” a evocare “forze importanti dell’anima, le quali 19 conducono alla veggenza”7. Tale veggenza, intesa come “visione degli archetipi spirituali”, sempre per Steiner, sarebbe accompagnata da suoni, percepibili tramite lo sviluppo di un analogo “orecchio sovrasensibile”, il Terzo Orecchio8. Non è ben chiaro cosa sia il “sano pensare” di cui parla il pensatore austriaco, ma viene quasi da supporre che si tratti di una forma di immaginazione creativa. Comunque sia grazie alla diffusione delle teorie di Steiner, della Blavatsky e di Annie Besant – personaggi che, nel bene e nel male, hanno influenzato tutta la vita politica e culturale del ’900 - il mito della pineale si diffuse negli ambienti esoterici e nei salotti della ricca borghesia dell’epoca, e in seguito, come spesso accade in questi casi, per un effetto “di rimbalzo”, fu accolto anche in India, negli ambienti più vicini alla cultura occidentali, sovrapponendosi – e a volte sostituendosi- alle concezioni originarie dell’induismo e del buddhismo tantrico. . 7 Rudolf Steiner, “Teosofia. Un’introduzione alla conoscenza sovrasensibile del mondo e del destino dell’uomo”; traduzione italiana di Emmelina de Renzis, pagina 10; Carlo Aliprandi editore, Milano 1922. 8 Rudolf Steiner, opera citata, pagina 46. 20 21 IL TERZO OCCHIO Nel 1956 uscì il libro “The Third Eye” - il Terzo Occhio – presentato come l’autentica autobiografia di un Lama tibetano e definito dal Times una “straordinaria testimonianza della vita e della spiritualità tibetana”. In pochi mesi divenne un successo mondiale, venne pubblicato in trenta paesi diversi e spinse molti occidentali a convertirsi al buddhismo tibetano. L’autore, Tuesday Lobsang Rampa, ad un certo punto descrive la tecnica che gli avrebbe aperto il Terzo Occhio, mettendolo in grado di “vedere l’aura delle persone” e, quindi, di cogliere con un solo sguardo il loro stato di salute e i loro pensieri profondi: la trapanatura dell’osso frontale. Questa incredibile rivelazione – per aprire il Terzo occhio ti devi fare un buco nella testa – ed una serie di incongruenze e dettagli bizzarri fecero irritare alcuni dei più noti tibetologi europei - tra cui Hugh Richardson, capo della missione britannica a Lhasa dal 1936 al 1945, Heinrich Harrer, l’alpinista tedesco autore di “Sette anni in Tibet”, e l’al- 22 pinista ed esoterista Marco Pallis - affidarono ad un investigatore privato di nome Clifford Burgess, il compito di indagare sull’autore dl Best Seller. Cyril Henry Hoskin, alias Tuesday Lobsang Rampa,nei panni del medico tibetano "Dottor Carl Kuon Suo". Fonte: http://skepdic.com/rampa.html 23 Burgess scoprì che Tuesday Lobsang Rampa si chiamava in realtà Cyril Henry Hoskin, era il figlio di un idraulico del Devonshire e prima di darsi alla carriere letteraria, lavorava in una fabbrica di corsetti. Dopo il successo, mondiale, del “Terzo Occhio” lo pseudo monaco - che non conosceva una sola parola in tibetano - si era trasferito in Irlanda dove, sotto il nome di Carl Kuon Suo – poi trasformato in Doctor Kuan Su – esercitava la professione di veggente-guaritore. Il truffatore non si perse d’animo e tra il 1957 e il 1960 scrisse altri tre libri, “My Visit to Venus”, “Il medico venuto da Lhasa” e “Storia della mia vita” nei quali oltre a deliziare i lettori con la cronaca dei suoi viaggi astrali interplanetari, rivelava uno “stupefacente segreto”: il suo corpo – racconta lo pseudo monaco buddhista - è sì quello di Cyril Henry Hoskin, ma il suo spirito è quello di Lobsang Rampa, Lama guaritore, che dopo aver combattuto eroicamente insieme all’esercito cinese contro i giapponesi ed essere stato torturato dai russi era tornato in Tibet dove, su consiglio del suo maestro, aveva lasciato le sue spoglie mortali per infilarsi, appunto nel corpo di Cyril. Durante il trasferimento qualcosa era andato storto e il tibetano aveva perso la capacità di parlare la sua lingua, ma la sua conoscenza - e quindi la capacità di portare avanti la sua missione divina - era intatta. Nonostante la storia fosse meno verosimile del viaggio di Astolfo sulla Luna, il pubblico si schierò dalla parte del falso monaco. Cyril Henry Hoskin - alias Carl Kuon Suo alias Tuesday Lobsang Rampa - scrisse in seguito altri sedici libri di successo, morì ricco e, si suppone, felice nel suo Ashram a Calgary, in Canada, il 25 gennaio del 1981. 24 “Il Terzo Occhio”, è tutt’oggi nella classifiche dei libri più venduti nonostante i più grandi orientalisti e tibetologi del XX secolo lo abbiano giudicato un falso clamoroso. Scrive Agehananda Bharati, monaco buddhista e orientalista di fama internazionale a cui venne sottoposto il testo di Hoskin prima della pubblicazione: “Il Terzo Occhio sa di sciocchezze blavatskyane e post blavatskyane. Le prime due pagine mi convinsero che lo scrittore non fosse un tibetano, le dieci successive che non era mai stato né in Tibet né in India e che non sapeva assolutamente niente del buddhismo.”9 Il successo duraturo delle fantasie letterarie di Lobsang Rampa e delle bizzarre teorie di Steiner, Blavatsky e Besant è difficilmente spiegabile; non è nostra intenzione negare la possibilità che alcuni o molti esseri umani abbiano vissuto esperienze straordinarie, ma è abbastanza sconvolgente pensare alla facilità con la quale milioni di persone decidono di credere - senza nessuna esperienza diretta e al di là di ogni evidenza storica, scientifica o archeologica – a viaggi astrali nel passato e nello spazio profondo, monaci che volano su enormi aquiloni trascinati da straordinariamente dolci brezze tibetane, incontri con l’abominevole uomo delle nevi e con mummie secolari in cui gli iniziati riconoscono precedenti incarnazioni o cruente operazioni chirurgiche che aprono, appunto, “il Terzo Occhio” donando agli adepti il potere di esplorare il passato, il futuro e le innumerevoli dimensioni spazio-temporali. L’attitudine a credere alle balle spirituali e la diffusione di certe bizzarre teorie potrebbero forse essere 9 Vedi: https://Skeptic.com/rampa.html 25 spiegate con la sorprendente naïveté del pubblico occidentale, da sempre alla disperata ricerca del misterioso e del sublime, ma è probabile che il vero motivo sia da ricercare nella “Teoria del Complotto Globale” che, almeno dalla fine del XIX secolo, riempie gli scaffali delle librerie esoteriche e ravviva le serate nei salotti pseudoculturali: Il mondo che vediamo, secondo i “Complottisti” è un illusione, e qualcuno – identificato di volta in volta con gli alieni, una misteriosa razza terrestre ma immortale, gli illuminati di Baviera o generiche forze del male – tiene schiavo l’essere umano impedendogli di esprimere tutte le sue potenzialità. L’idea di essere qualcosa di più di ciò che appare è presente nella maggior parte di noi e le nostre insoddisfazioni, le nostre frustrazioni, l’innata ansia di incompiutezza sono un terreno assai fertile per le teorie del complotto: se non fosse per “Loro” - le forze oscure che godono nel tirar fuori il peggio dagli esseri umani - saremmo tutti dei grandi eroi, dei maghi, degli angeli caduti e degli dei annichiliti. Ognuno di noi, in fondo in fondo, pensa di essere una creatura eccezionale, mal compresa, impossibilitata ad esprimere i propri talenti, per cui quelle che Agehananda Bharati definisce “sciocchezze blavatskyane e post blavatsyane” hanno sicuramente una valenza consolatoria, addirittura terapeutica; per molte persone, ma dando credito a storie di fantasia come quelle di Lobsang Rampa si rischia di smarrire il senso degli insegnamenti originari dello yoga e, in genere, delle discipline psicofisiche orientali. 26 27 TRA POLITICA E FANTASCIENZA Il Terzo Occhio - detto a volte, in Occidente “Occhio ArianoAtlantideo” – al di là del significato simbolico – o alchemico – che gli viene attribuito negli insegnamenti originari, diviene nell’ambito esoterico-complottista del XIX e del XX secolo l’emblema dalla “liberazione dalle Forze Oscure”. Le Forze Oscure rappresenterebbero un gruppo di potere che governa il mondo da secoli e che – secondo le teorie complottiste – cerca di evitare a tutti i costi che si diffondano le tecniche di attivazione dell’Occhio Spirituale. Qualora gli esseri umani, grazie all’apertura del Terzo Occhio si “risvegliassero” e scoprissero di essere degli dei annichiliti o, meglio ancora, dei discendenti dei “semidei atlantidei” la civiltà moderna cadrebbe a pezzi e dopo qualche decennio di morte e distruzione le forze del bene prenderebbero il sopravvento e avrebbe inizio una nuova Età dell’Oro definita sin dagli inizi del ‘900 “New Age”10. “The New Age” è il nome di una rivista fondata nel 1894 da Joseph Clayton, un attivista Socialista cristiano, con lo scopo di diventare il trait d’union 10 28 Tutti movimenti complottisti e la maggior parte delle correnti esoteriche del XX e del XXI secolo fanno riferimento alle “sciocchezze blavatskyane e post blavatskyane” di cui parlava Agehananda Bharati, ovvero ad un bizzarro sistema di interpretazione della realtà e della storia dell’umanità basato su una serie di romanzi di fantascienza cui, per andare incontro ai gusti dell’epoca, si sono mescolati elementi veri, verosimili o completamente inventati tratti dalla filosofia orientale. Uno dei “libri-maestri” dell’élite intellettuale ottocentesca – e in seguito dell’élite nazista11 - fu senza dubbio “The Coming Race” (dalla seconda edizione “Vril, The Power of Coming Race) di sir Edward George Earle Bulwer-Lytton. “The Coming Race”, in Italiano “La Razza che Verrà”12 non parla specificamente del Terzo Occhio, ma descrive l’incontro fortuito del protagonista con una razza umanoide che vive in gigantesche caverne sotto la superficie terrestre. Gli abitanti del mondo sotterraneo, dotati di poteri psichici, sono altissimi, di bell’aspetto, e grazie ad un fluido energetico chiamato Vril dispongono di una tecnologia avanzatissima (volano grazie ad appendici meccaniche poste sulle scapole), e sono immuni dalle malattie (sempre grazie al Vril). tra le istanze sociali dell’epoca e la cultura cristiana. Ben presto “The New Age” divenne un punto di riferimento per le avanguardie artistiche europee. Nel 1907 fu acquistata, con il denaro messo a disposizione da Georges Bernard Shaw, da un allievo di Gurdjeff, Alfred Richard Orage e progressivamente i suoi contenuti virarono verso l’esoterismo e il misticismo che oggi riconosciamo negli attuali movimenti spiritual-complottisti. 11 Vedi il nostro “Liberamente Schiavi”; Edizioni Writeup Site. Roma 2019. 12 https://www.amazon.it/razza-verr%C3%A0-Edward-Bulwer-Lytton/dp/8889993081 29 Lytton, massone e membro della camera dei Lord, zio del viceré dell’India13, fu uno dei romanzieri e drammaturghi più famosi del 1800. Lo potremmo definire il Dan Brown della sua epoca. Il suo libro “Gli Ultimi Giorni di Pompei” ebbe un successo mondiale (basti pensare che, dal 1908 al 1958, ne furono tratti ben sette film) e negli Stati Uniti viene ancora oggi studiato all’università come esempio di cattiva scrittura (“Era una notte buia e tempestosa”, incipit dei maldestri esperimenti letterari del bracchetto Snoopy, è una frase di Lytton). Quando sir Litton pubblicò “The Coming Race”, per gettare sulla sua opera un alone di mistero, usò un espediente assai comune all’epoca: raccontò di esserne solo l’editore e di aver ricevuto il manoscritto da un anonimo iniziato appartenente alla segretissima confraternita dei Rosacroce (nota ai nostri giorni anche grazie alla fiction degli anni ’60 “Belfagor, Il fantasma del Louvre”, con Juliette Greco). La finzione divenne più vera del vero: i teosofi Helena Blavatsky, Annie Besant, Charles Webster Leadbeater, Rudolf Steiner e soprattutto William Scott-Elliot, presero – a quanto pare – “The Coming Race” per una testimonianza, anziché per una fiction. Scott-Elliot pubblicò ben tre libri sull’argomento: - The Story of Atlantis: A Geographical, Historical and Ethnological Sketch, 1896. - The Lost Lemuria, 1904. Edward era il fratello di Lord Dalling, anch'egli politico, drammaturgo e romanziere. Il figlio di Lord Dalling, Robert fu viceré dell'India dal 1876 al 1880. 13 30 - The Great Law: a Study of Religious Origins and of the Unity Underlying Them, London and New York: Longmans, Green, and Co., 1899. Scritto con lo pseudonimo di W. Williamson. La Blavatsky 14 , da parte sua, riprese anche le teorie del “Continente perduto di Bailly15” (Histoire de l'astronomie ancienne” e “Lettres sur l'Atlantide de Platon”) e le inserì nel suo manoscritto “Le Stanze di Dzyan”, parte integrante del suo libro più celebre, “La Dottrina Segreta”16. “Le Stanze di Dzyan” sarebbe un libro fondamentale per far luce sulle origini dell’umanità che, purtroppo andò perduto diverse migliaia di anni fa, ma i teosofi, grazie all’apertura del Terzo Occhio erano dei chiaroveggenti e avevano il potere di andare avanti e indietro, in stato di trance, nella storia dell’universo, consultando i “Registri Akashici” - una specie di biblioteca universale delle idee e dei fatti che galleggerebbe in una dimensione sottile, non accessibile in condizioni ordinarie – per cui erano riusciti a recuperarlo. Tra l’altro i teosofi erano – così dicevano e dicono tutt’ora - in contatto con dei maestri invisibili, alieni appartenenti ad altre dimensioni, o anime disincarnate di maestri antichi, che li istruivano sulla Vera Scienza, sulla Vera Dottrina e in https://it.wikipedia.org/wiki/Helena_Blavatsky Jean Silvain Bailly (1736 – 1793), astronomo francese fu autore di due libri su Atlantide, “Histoire de l'astronomie ancienne” del 1775 e “Lettres sur l'Atlantide de Platon” del 1779, in cui univa il mito di Atlantide a quello di Iperborea, narrato da Erodoto, e si diceva certo che il continente perduto fosse in Siberia. 16 The Secret Doctrine, the synthesis of Science, Religion and Philosophy, 1888. 14 15 31 genere sulla Verità, una verità che era stata nascosta per millenni da un complotto ordito da creature malvagie appartenenti al nostro e ad altri mondi. Così, grazie ai teosofi, “Le stanze di Dzyan” erano miracolosamente ricomparse e la loro lettura, insieme agli insegnamenti dei maestri invisibili, avrebbe permesso agli esseri umani di comprendere il loro passato e costruirsi un futuro radioso. Ma vediamo qual è il passato dell’umanità secondo i teosofi17 (il grassetto è nostro): “Le epoche evolutive della Terra vengono suddivise in Globi, Ronde e Catene e sono contraddistinte da forme di vita che gradualmente si densificano fino a raggiungere lo stato fisico attuale, per poi ritornare gradualmente a forme sempre più sottili. Il Globo è una forma planetaria costituita - in progressione - da: 1. calore, 2. calore + gas, 3. calore + gas + liquidi, 4. calore + gas + liquidi + solidi per poi invertirsi. L'onda di vita passa quindi da un Globo all'altro in 7 cicli di milioni di anni (Ronde), che a loro volta si ripetono per 7 volte (Catene), ulteriormente ripetute per 7 (1 Ronda = 7 Globi / 1 Catena = 7 Ronde = 49 Globi / 1 Schema Evolutivo completo = 7 Catene = 49 Ronde = 343 Globi). I 7 globi sono definiti come: Saturno, Sole, Luna, Terra (l'attuale), Giove, Venere, Vulcano, mentre le 7 epoche relative al Globo attuale sono le seguenti: - Polare, - Iperborea, - Lemurica, http://www.scienzenoetiche.it/raphael_project/inc_162.htm e http://fohat.clarence.com/permalink/185776.html. 17 32 - Atlantidea, che fanno parte del nostro passato. Poi c'è l'attuale epoca Ariana e altre due future ancora senza nome. Nell'ambito dell'epoca Ariana (o post-Atlantica) che stiamo vivendo ci sono poi 7 ulteriori suddivisioni: 1) un periodo iniziale guidato da un'antichissima civiltà dell'India, 2) periodo Persiano, 3) periodo Egizio-Caldaico, 4) periodo Greco-Romano, 5) periodo attuale Anglo-Sassone a cui seguiranno due periodi futuri (il prossimo sembra di matrice Russo-Slava) che concluderanno l'epoca Ariana. Per riassumere sinteticamente, attualmente ci troviamo dunque nel quarto Globo (Terra), quinta epoca (Ariana) e quinto periodo di civiltà (AngloSassone). Alle 7 grandi epoche contenute in ogni ciclo di Globo corrispondono quelle che la Teosofia chiama Razze-Radice o Razze-Madri: La prima Razza-Radice, detta Polare in quanto localizzata per lo più ai poli, aveva una forma umana astrale-eterica non ancora discesa sul piano fisico, di natura filamentosa, asessuata, fluttuante nell'atmosfera densa e ribollente della Terra ancora in via di solidificazione. Nella seconda epoca, Iperborea, convivevano due forme umane: una simile a quella precedente mentre l'altra con una struttura fisica un poco più densa. In queste forme non c'era alcuna divisione sessuale, ma una procreazione per gemmazione. La vita si svolgeva per lo più nel continente Iperboreo (nell'attuale estremo Nord del pianeta) che a quel tempo godeva di un clima tropicale. Una forma umana simile a quella attuale comincia con l'apparire della razza della Lemuria (situata in Asia orientale): più evoluta, sempre più solida ma ancora flessibile e quindi non ancora in grado di assumere la stazione eretta. La riproduzione avveniva sempre per emissione diretta, gli esseri presentavano una struttura androgina, ma di forma umana con pelle scura - che gradualmente arriva a scindersi in due distinti caratteri sessuali (da tale razza derivano gli aborigeni australiani e i boscimani dell'Africa). 33 La quarta epoca, Atlantidea, si sviluppò nel continente di Atlantide, il quale andò incontro a successivi cataclismi che lo frammentarono fino a lasciare due grandi isole chiamate Ruta e Daitya al centro dell'Atlantico, sommerse definitivamente circa 12.000 anni fa. L'uomo atlantideo - di pelle rossa - era dotato di una naturale e istintiva chiaroveggenza e fondò una grande civiltà dotata di avanzate tecnologie, comunque molto diverse dalle nostre. Verso la fine dell'epoca atlantica, i colossali cataclismi che portarono alla totale scomparsa del continente costrinsero infine i superstiti ad emigrare verso tre direttrici: ovest (da cui originano le razze rosse amerinde), nord-est (attuali popoli europei) e sud-est (colonizzando il Nord Africa fornirono le basi della civiltà Egizia). Ulteriori visioni sulla storia perduta del pianeta vengono dalla Cosmogonia di Urantia, dalle già ricordate rivelazione fatte da Thoth a Drunvalo e dalle svariate canalizzazioni telepatiche provenienti dalle dimensioni extraterrestri.” Ovviamente non esiste una sola prova archeologica né una qualche documentazione che possa avvalorare queste teorie. Si tratta, fino a prova contraria naturalmente, di fantasiose credenze nate, chissà come, negli ambienti esoterici del XIX secolo che sono andate a creare quell’insieme di “sciocchezze blavatskyane e post-blavatskyane”, come le definiva Agehananda Bharati, che, sorprendentemente – secondo noi – hanno fatto breccia nella mente di alcuni dei maggior intellettuali del ‘900 finendo per influenzare buona parte della cultura occidentale e, per l’effetto boomerang cui abbiamo accennato, la cultura orientale degli ultimi 150 anni. 34 35 IL SEGRETO DEL FIORE D’ORO L’influenza dell’esoterismo occidentale sulle discipline ha prodotto un progressivo allontanamento dagli insegnamenti originali: se per lo Yoga tradizionale e nel Sāṃkhya – la filosofia ateistica che sta alla base sia dello Yoga sia dello Āyurveda – tutto ciò che riguarda l’essere umano - compresi pensieri, emozioni e ciò che noi definiamo anima individuale - fa parte della manifestazione intesa come sfera materiale, nelle moderne concezioni si è creato un dualismo spirito-materia o mente-corpo più vicino alle teorie del neoplatonismo e dello gnosticismo cristiano che alle concezioni indiane. Per tornare al tema della nostra trattazione, nello Yoga moderno - e nelle visioni contemporanee del taoismo, del buddhismo, del misticismo Sufi e della “New Qabbalah”, oggi considerati quasi delle variazioni sul tema dello Yoga “apertura del terzo occhio” significa avere la possibilità di accedere a dimensioni e stati di coscienza extra-ordinari e di acquisire poteri paranormali. 36 La causa di questo evento sarebbe il risveglio di Kuṇḍalinī, l’energia della creazione che giace, dormiente, dentro di noi fin quando – in seguito all’uso di droghe, pratiche di alchimia interiore o eventi fortuiti – non si risveglia riportando alla coscienza dell’essere umano la sua natura divina e liberandolo dai vincoli – fisici, psicologici e culturali – che lo tengono incatenato al mondo della materia. Questa visione di Kuṇḍalinī e dell’apertura del Terzo Occhio ricorda da vicino - forse troppo - la cosmogonia della Gnosi cristiana, con l’eone Sophia che viene imprigionata nella materia dai sette Arconti emanati dal Demiurgo, suo figlio per così dire illegittimo, e dovrà attendere la discesa dal Pleroma – la dimensione dell’entità spirituale – della sua controparte maschile chiamata Logos o Cristo. Grazie all’energia vitale definita Pneuma gli esseri umani potranno così risvegliarsi alla luce della conoscenza e, una volta liberati dalle catene dalla materia, sotto forma di anime pure potranno far ritorno alla “casa del padre”, il regno dell’Uno senza secondo e dei suoi eoni. La somiglianza o addirittura l’identità delle attuali teorie sullo Yoga alchemico – definiamo così le tecniche psicofisiche finalizzate al cosiddetto risveglio di Kuṇḍalinī – con la teorie gnostiche è spiegabile solo in due maniere: 1. Si tratta di brandelli di un unico insegnamento antico come l’essere umano – la Tradizione con la “T” maiuscola di cui parlano i fratelli Huxley, Mircea Eliade, Julius Evola ed in genere teosofi, esoteristi e new-ager occidentali; 2. Si tratta del frutto della manipolazione - o per lo meno dell’adattamento - del sapere orientale allo 37 gnosticismo e al neoplatonismo occidentale operata negli ultimi 150 anni da teosofi, massoni e new ager. In virtù della mia esperienza personale – ho praticato yoga e tecniche psicofisiche cinesi quasi esclusivamente con maestri orientali almeno fino al 2010 – pur non escludendo la possibilità dell’esistenza di una Tradizione unica, propendo per la seconda ipotesi; ovvero per una generale manipolazione del sapere orientale operata nel XIX e nel XX secolo per alimentare la credenza di una religione unica di origine non umana. La mia ovviamente non è una certezza e, sono pronto a cambiare idea di fronte a ad eventuali evidenze archeologiche o sperimentali, ma la sensazione è che le tecniche psicofisiche indiane e, di conseguenza – vista la provata trasmissione di teorie e pratiche attraverso la “via della Seta” e le rotte marittime – le discipline di alchimia interiore cinesi e giapponesi siano, rispetto all’esoterismo occidentale – più legate alla realtà fisica e a quella che oggi definiamo scienza. Se è vero che alcune pratiche di “evocazione” rintracciabili nello yoga alchemico indiano e nel Qi Gong Wai Dan possono ricordare quelle della teurgia occidentale, occorre considerare che le divinità o gli spiriti invitati a scendere in oggetti e parti del corpo o addirittura ad impossessarsi del praticante nel tantra e nell’alchimia interiore taoista, non appartengono a dimensioni extra mondane, ma sono la rappresentazione di vibrazioni o energie naturali che appartengono alla sfera delle possibilità di esperienza dell’essere umano. 38 La simbologia di Kuṇḍalinī inserita nell'Albero delle Sephirot Qabalistico, tipico esempio della contaminazione culturale della New Age. Fonte: https://www.pinterest.it/pin/703898616733735059/ 39 Per tornare al “terzo occhio” e agli effetti “psichedelici” legati al cosiddetto “risveglio di Kuṇḍalinī”, la mia opinione è che si tratti di fenomeni fisici, sperimentabili da tutti coloro che siano in possesso della giusta chiave di lettura degli insegnamenti antichi. Si legge, ad esempio ne "IL SEGRETO DEL FIORE D'ORO", traduzione di R. Wilhelm (pag. 118 dell'edizione italiana a cura di Boringhieri): "Non occorre far altro che far cadere la luce nell'udito [...]. Si tratta del risplendere proprio della luce oculare. L'occhio guarda solo all'interno e non verso l'esterno. Percepire un chiarore senza guardar fuori, questo è sguardo interiore". Frontespizio della prima edizione inglese de "Il Segreto del Fiore d'Oro",con la traduzione di Richard Wilhelm18. Richard Wilhelm (1873 – 1930) è stato un orientalista, teologo e missionario tedesco. La sua opera più famosa è la traduzione del “Yi Jing”, il “Libro dei Mutamenti”. 18 40 “Il Segreto del fiore d’Oro” è un interessantissimo libro di meditazione taoista del XVIII secolo, ristampato in un migliaio di copie, negli anni '20 e tradotto in Occidente, per la prima volta da Wilhelm, amico e collaboratore di Gustav Jung. L’autore, un certo Lu Tzu, dichiara prima di tutto che non c’è alcuna differenza tra buddhismo, taoismo, confucianesimo, a voler significare sia che la conoscenza prescinde dai credi religiosi, sia che le “tecniche operative” sono le medesime. Poi dà una serie di precise indicazioni sul come sedersi per praticare meditazione, ovvero dove posare lo sguardo – sulla “gobbetta” del naso, non sulla punta come si afferma di solito – in che misura abbassare le palpebre– gli occhi non devono essere né chiusi né “spalancati”, ma deve filtrare giusto un raggio di luce – ecc. Si tratta evidentemente di indicazioni per ottenere “l’apertura del Fiore d’Oro”, ovvero la “Realizzazione”, tramite tecniche esclusivamente fisiche. Non c’è traccia, nel libro di Lu Tzu, né di devozione né di speculazione filosofica; sarebbe impossibile ad esempio interpretare la frase sullo “sguardo interiore” che abbiamo citato come un invito a praticare l’autoanalisi - del genere “Chi sono io” - o a ricercare l’origine di pensieri ed emozioni, metodi di “meditazione” che tanto vanno di moda nell’ambito dell’attuale yoga “post–new age”. Il “Guardarsi dentro” del “Segreto del Fiore d’Oro” è un osservare con l’occhio fisico l’interno del proprio corpo (e, molto probabilmente, utilizzare i muscoli oculari per stimolare la produzione di neuro ormoni): "[...] L'occhio guarda solo all'interno e non verso l'esterno. Percepire un chiarore senza guardar fuori, questo è sguardo interiore." 41 In altre parole “sguardo interiore” significa esattamente guardare dentro il corpo, e questo porta a considerare la possibilità che molti dei simboli della tradizione cinese e della tradizione indiana non siano rappresentazioni di particolari stati mentali o di alterazioni percettive, ma la visione di determinati organi e di processi fisiologici innestate dalla stimolazione di tali organi. Il “Palazzo di Giada” dei taoisti o la “serpentessa Kuṇḍalinī” dei tantrici sono, a quanto pare, “realtà fisiche”, e non allegorie da interpretare in chiave esoterica o psicologica. 42 43 SCIENZA MEDIOEVALE Lo Yoga medioevale – che oggi spesso viene definito Tantra – e le pratiche taoiste raggiungono il momento di massima diffusione nell’era moderna, tra il 700 e il 1700 dell’era cristiana, un’epoca in cui la conoscenza della fisica, della chimica e della fisiologia in Cina e in India erano paragonabile a quella dei nostri scienziati rinascimentali o dei loro colleghi arabi: Sia indiani sia cinesi, tra l’altro, avevano la capacità di costruire aerostati per uso militare, navi in grado di varcare gli oceani, armi di ogni genere e strumenti di precisione. I medici sezionavano cadaveri, facevano esperimenti di ogni genere e si riunivano per confrontare i risultati delle loro ricerche sia nelle numerose università dell’epoca – la prima università indiana, quella di Taxila, è stata fondata prima dell’arrivo di Alessandro Magno nella Valle dell’Indo, nel IV secolo a.C. – sia alle corti di sovrani, illuminati. Lo smembramento sia di cadaveri sia di esseri viventi era una pratica più diffusa di quanto si possa credere. 44 In India, nonostante la riforma dell’Induismo e la parziale riscrittura dei testi classici e della storia delle discipline psicofisiche attuate nel XIX secolo dall’aristocrazia bengalese – Tagore, Vivekananda, Aurobindo, Yogananda, per citare solo i più famosi – tesa a dare un’immagine edulcorato dello Yoga, dai miti e dai racconti emerge il ricordo di pratiche che prevedevano, oltre allo smembramento dei cadaveri, il cannibalismo, la tortura – spesso autoinflitta – il sacrificio umano. Per ciò che riguarda la Cina basta ricordare il lingchi (凌遲 o, in cinese moderno 凌迟) detto anche shā qiān dāo (殺千 刀 o in cinese moderno 杀千刀), nome che dovrebbe ricordare la lenta ascesa di un monte. Il lingchi era una particolare forma di tortura, praticata, con altri nomi, a partire dal III secolo a.C. (dinastia Qin) fino al 1905 – anno della sua abolizione – cui venivano condannati coloro che si erano resi colpevoli di stragi, matricidio o parricidio, omicidi di maestri spirituali o tentativi di sovvertire l’ordine “cosmico”. Il condannato dopo aver assunto grandi quantità di oppio, veniva legato, nudo, ad un palo, in un luogo pubblico – di solito la piazza principale della città – e fatto a brandelli con estrema perizia da un carnefice “specializzato” che aveva il compito di far sopravvivere la vittima il più a lungo possibile in modo da costringerla ad assistere alla” messa a nudo dei suoi muscoli degli organi interni, e al taglio delle ossa. Le procedure per il lingchi variano a seconda delle attitudini del carnefice, ma in genere si cominciava dal taglio delle palpebre, delle orecchie, del naso, dei genitali, e delle dita delle mani e dei piedi; quindi si passava allo spellamento e all’asportazione dei muscoli di grandi dimensioni (cosce, 45 glutei, dorsali) e, infine al taglio delle ossa. Talvolta, per pietà o per le tangenti pagate dalla famiglia delle vittima, il condannato veniva ucciso in pochi minuti con un colpo al cuore o alla gola, e la mutilazione avveniva solo dopo la morte, ma in alcuni casi la tortura durava per ore o addirittura per giorni. La carne, i testicoli e gli organi interni, venivano poi utilizzati, probabilmente, per preparazioni medicinali; il resto, dopo essere stato esposto al pubblico, veniva bruciato e le cenere disperse. 46 Martirio di Joseph Marchand, Vietnam 1835. Fonte: PHGCOM – Own work by uploader, personal photograph of 1860 painting at the MEP. 47 La tradizione millenaria del lingchin, testimoniata da fotografie del primo novecento che suscitarono l’interesse morboso degli studiosi occidentali19, ci dà, innanzitutto, la misura del livello di crudeltà cui può giungere l’essere umano, ma ci mostra pure come sia possibile che gli antichi maestri tantrici e taoisti avessero una conoscenza approfondita dell’anatomia e della neurofisiologia: potevano osservare direttamente gli organi interni e i processi fisiologici di esseri umani in vita, e avevano modo di osservare le modificazione causate dall’uso di droghe, dalla sofferenza o dal piacere. Questo genere di conoscenza avrebbe posto le basi di ciò che possiamo definire “Alchimia Interiore”, una serie di tecniche finalizzate alla modificazione del corpo e della mente tramite l’utilizzazione di sostanze prodotte dall’organismo. Tornando alla frase de “Il Segreto del Fiore d’Oro” che abbiamo citato in precedenza, è più che probabile che riguardi la possibilità di osservare con l’occhio fisico, organi e processi fisiologici all’interno del corpo provocando, tramite un utilizzo non ordinario dei muscoli oculari, la stimolazione di determinate ghiandole – probabilmente la ghiandola pituitaria posta sulla sella dell’osso sfenoide in linea con il chiasma ottico – e la conseguente produzione di determinati ormoni. Vedi. Georges Dumas, “Nouveau Traité de psychologie”, Paris, 1930-1943; George Bataille “L'expérience intérieure” (1943);”Le coupable“(1944) e “Le Lacrime di Eros” (1961); Suan Sontag, Davanti al Dolore degli Altri (2003). 19 48 Il “guardarsi dentro” di cui parlano tantrici e taoisti potrebbe quindi essere la visione dell’universo interiore” inteso non come un insieme di idee, emozioni e ricordi, ma come una serie di organi che vengono rappresentati simbolicamente con divinità, palazzi, mostri e animali mitici; quasi che il corpo fosse costituito da una comunità di esseri viventi che lavorano insieme per dar forma a ciò che definiamo all'essere umano. Immaginiamo, per un attimo, che ci sia una città dentro di noi, abitata da diecimila o centomila persone. Ogni abitante avrà una sua fisionomia, un ritmo corporeo, dei pregi e dei difetti caratteriali, ma ci saranno degli eventi che annullano le differenze: una musica festosa, il vento di primavera, il tramonto o l'uragano, che spaventa, ma unisce. I mantra, le posizioni, le mudrā per gli abitanti della “città– corpo” non sarebbero altro che gli eventi che rinsaldano la comunità, spingendo gli esseri che abitano in noi a vivere in armonia. Se "gli esseri che ci abitano" avessero la capacità di scegliere, di avere paura, di armonizzarsi con gli altri, non potremmo dire che ognuno di loro ha una propria coscienza? Se così fosse i moti della nostra anima non sarebbero altro che la risultante delle relazioni che si stabiliscono trai nostri organi corporei. 49 LA GHIANDOLA PITUITARIA Talamo. Fonte: Anatomography maintained by Life Science Databases (LSDB). Nella figura precedente è evidenziato in scuro il “glande” del tronco encefalico, formato da talamo, ipotalamo, pituitaria, si appoggia sul tronco encefalico, e si lega al midollo 50 spinale, che discende nella colonna vertebrale fino ad uscirne come Filum Terminale. In direzione del Chiasma Ottico, sulla faccia anteriore del tronco encefalico, è posta la ghiandola Pituitaria o Ipofisi, che si attiva con la luce, mentre sulla faccia posteriore è posta la ghiandola Pineale o Epifisi, che si attiva invece con l’oscurità– Ghiandola Pineale o Epifisi. Fonte: Anatomography maintained by Life Science Databases (LSDB). Nella cultura New Age e Post New Age si tende a riconoscere il cosiddetto “Terzo Occhio” nell’Epifisi, ma dato il rapporto tra Kuṇḍalinī, e l’energia sessuale sarebbe forse più indicato individuarlo nell’Ipofisi. L’Ipofisi o ghiandola Pituitaria è una ghiandola di piccole dimensioni – ha un peso non superiore ai 9 grammi – posta sulla “sella turcica dell’osso Sfenoide” – l’osso a forma di falena che fluttua al centro del cranio al ritmo delle maree del liquido cerebro–spinale – nelle vicinanze del chiasma ottico. È separata dall'encefalo da una porzione della dura 51 madre, che la sovrasta ad ombrello ed è collegata all’ipotalamo da un “peduncolo vascolo–nervoso”. Intorno alla sella turcica si trovano i seni cavernosi da cui defluiscono le carotidi interne e i nervi cranici III, IV, V e VI; cosa spiega il motivo per cui un cattivo funzionamento dell’Ipofisi possa riflettersi negativamente sulle funzioni visiva, vascolare e neurologica. Posizione della Ghiandola Pituitaria rispetto al chiasma ottico. Fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Ipofisi#/media/File:Pituitary_gland.png La compromissione dell’Ipofisi – o la sua parziale rimozione (ipofeisectomia) durante gli esperimenti sulle cavie da laboratorio – causa una diminuizione dell’attività di tutte le ghiandole endocrine: 52 - La tiroide, e le surrenali si atrofizzano; - Le gonadi vengano compromesse con scomparsa della spermatogenesi nel maschio e dell'ovulazione nella femmina; - Aumenta la sensibilità all'insulina per la compromissione delle isole pancreatiche, e può insorgere una articolare forma di diabete; - Provoca un arresto dello sviluppo somatico, con alterazioni scheletriche e muscolari. Se osserviamo adesso la lista degli ormoni prodotti da questa minuscola ghiandola vedremo che l’ipotesi di un suo legame con ciò che viene definito “Terzo Occhio”, è un’ipotesi tutt’altro che da scartare. Le varie cellule dell’Ipofisi, a seconda della loro “specializzazione” producono infatti: 1. L’ormone della crescita, o l'ormone somatotropo – ormone GH o STH – che produce la deposizione del calcio nel tessuto osseo e la proliferazione delle cellule cartilaginee, aumenta la massa dei muscoli scheletrici e stimola la sintesi proteica; 2. La prolattina – PRL – che agisce sulla ghiandola mammaria e stimola la secrezione di latte dopo il parto; 3. L'ormone melanotropo – MSH – ha effetto trofico – ovvero di stimolazione e accrescimento – sui melanociti, responsabili della pigmentazione della pelle; 4. L'ormone tireotropo – TSH – che agisce sulla tiroide, favorendo la liberazione degli ormoni tiroidei – tiroxina e triiodotironina – che regolano i processi 53 5. 6. 7. 8. metabolici ed il consumo di energia dell’intero organismo; L'ormone adrenocorticotropo (ACTH) determina a sua volta la sintesi e la secrezione molto rapida degli ormoni della corteccia surrenale e stimola il metabolismo lipidico. Gli ormoni “follicolo–stimolante – FSH – e luteinizzante – LH – agiscono sulle gonadi. Nelle ovaie il primo stimola la formazione dei follicoli e la secrezione degli estrogeni, il secondo la formazione del “corpo luteo” e la secrezione del progesterone; nei testicoli, l'LH agisce invece sulle “cellule interstiziali, promuovendo la spermatogenesi e la secrezione dell'ormone testicolare – il testosterone – mentre l'FSH favorisce la sintesi di una proteina (ABP) che “legando” il testosterone, attiva gli spermatozoi; L’ Ossitocina detta “ormone dell’amore”, che viene prodotta durante il rapporto sessuale, l’allattamento e il parto; L’ ADH, o “ormone della paura. Avendo l’Ossitocina e l’ADH caratteristiche opposte – il primo stimola la produzione di sperma, latte materno, fluidi genitali, mentre il secondo funge da antidiuretico facendo, cioè, trattenere i liquidi – la ghiandola Pituitaria non può produrli contemporaneamente: O viene secreto l’ormone della paura o viene secreto l’ormone dell’amore. Questo, rammentando un insegnamento tradizionale ripreso da Osho – “il contrario dell’amore non è l’odio, ma la paura” – potrebbe essere fonte di interessanti riflessioni, ma quel che ci preme, in questo contesto, è analizzare la possibilità 54 che ciò che viene definito “terzo occhio” sia in realtà, semplicemente, la ghiandola Pituitaria, o Ipofisi, o, altra ipotesi, l’insieme di Talamo, Ipotalamo e Pituitaria. L’Ipofisi, come abbiamo accennato, è posta sotto il Talamo Il Talamo a sua volta entra in contatto con il midollo spinale grazie al tratto spino–talamico mediante il quale vengono trasmesse le informazioni sugli stimoli tattili, sul dolore e sulla temperatura. Sopra al talamo troviamo poi una delle strutture più importanti del cervello: il Corpo Calloso. Il Corpo Calloso, congiunto al chiasma ottico attraverso una sottile lamella grigia detta “lamina terminale” – collega tra loro i quattro lobi celebrali – lobo frontale, temporale, parietale e occipitale – garantendo il trasferimento delle informazioni trai due emisferi e, quindi, la loro coordinazione. Possibile che gli antichi maestri tantrici e taoisti abbiano messo a punto tecniche psicofisiche per stimolare volontariamente le funzioni del Talamo, dell’Ipotalamo e soprattutto della ghiandola Pituitaria? Se così fosse il fenomeno definito “risveglio di Kuṇḍalinī” o “apertura del Terzo Occhio” consisterebbe “semplicemente” nella iperstimolazione degli ormoni – responsabili della crescita, del metabolismo, dell’energia distribuita nel corpo, del piacere e della fertilità. 55 Corpo Calloso (in rosso). Fonte: Anatomography maintained by Life Science Databases (LSDB). 56 57 ALCHIMIA INTERIORE Nello Yoga e nel Taoismo le testimonianze di pratiche basate sulla stimolazione “diretta” del sistema endocrino in genere e della ghiandola Pituitaria in particolare, attraverso, ad esempio particolari movimenti dei bulbi oculari che porterebbe alla la visione della “luce interiore” o alla “apertura del Terzo Occhio” sono tutt’altro che rare. Un tipico esempio di questo genere di “Alchimia interiore” – collegata all’utilizzazione dell’energia sessuale - è lo Yoga del Sesso medioevale, diffuso nell’XI secolo in Tibet e Nepal dalla coppia tantrica Nigumā e Nāropā – conosciuto come “Yoga delle sei membra” o “Ṣaḍaṅgayoga”20. I “sei passi” di Nāropā – che differiscono sensibilmente dai “sei passi” insegnati dalla sua sposa mistica Nigumā – sono parte integrante del Kālacakratantra, una serie di testi e commentari che, formano, nel loro insieme un dettagliatissimo manuale di yoga e di “fisiologia sottile”21. Ṣaḍaṅgayoga è un termine usato comunemente per indicare il percorso dello Haṭḥayoga medioevale. Vedi “CONCLUSIONE”. 20 La traduzione più attendibile del testo pare sia quella di Raniero Gnoli e Giacomella Orofino - pubblicata nel 1994 da Adelphi con il titolo “Nāropā, 21 58 Prima di addentrarci nella descrizione delle specifiche tecniche operative crediamo sia necessario accennare ai principi generali su cui si basano il Kālacakratantra e, in genere, le pratiche di Alchimia interiore dello yoga medioevale: Sukhasiddhi, allieva di Nigumā, fondatrice del lignaggio tantrico Shangpa Kagyu. Fonte: https://www.yogapaoloproietti.com/2020/01/i–riti–erotici–di–sambhala.html INIZIAZIONE, KĀLACAKRA” – alla quale faremo riferimento in questo capitolo. 59 Il praticante di “Ṣaḍaṅgayoga” innanzitutto deve essere in grado di far circolare l’energia nei canali e nei plessi che fanno parte del – o vengono influenzati dal – cosiddetto “corpo sottile” definito Liṅga śārīra o Sūkṣma śarīra. Nei testi si parla, in genere di 72.000 canali – nāḍī – che conducono il soffio vitale – prāṇa – in tutte le parti del corpo. In genere –vedi I canali più importanti, secondo lo Ṣaḍaṅgayoga, sono sei: Tre sopra la “ruota dell’ombelico” e tre, che rappresentano delle modificazioni dei tre superiori, nella zona sotto l’ombelico. Il primo dei tre canali chiamato avadhūtī, khagamukhā, suṣumṇā o taminī (“la tenebrosa”) – che potremmo identificare con uno dei canali del midollo spinale – parte dalla fontanella anteriore e scende lungo la colonna vertebrale fino all’altezza dell’ombelico dove piegandosi a destra, dà luogo ad un altro canale – considerato una modificazione del canale centrale – chiamato śaṅkhinī, che svolge la funzione di emissione del seme. Lungo questo canale centrale (formato in realtà dal canale mediano superiore e dal canale di destra inferiore) sono situati sei plessi energetici – cakra – da cui si diramano altri canali, considerati petali (dala), che raggiungono il numero totale di 156. - Il primo cakra – dal basso – è nella zona dei genitali. Secondo la dottrina del Kālacakratantra è di colore azzurro (verde in altri tradizioni) ed ha 32 petali; - Il secondo è nella zona dell’ombelico, è di colore giallo ed ha 64 petali; 60 - Il terzo è nella zona del cuore, è nero (blu secondo altre tradizioni) ed ha 8 petali; - Il quarto è nella gola, è rosso ed ha 32 petali (16 secondo altre tradizioni); - Il quinto, identificabile secondo noi con la ghiandola pituitaria – è nella zona della fronte, sopra le sopracciglia; è bianco ed ha 16 petali (32 secondo altre tradizioni); - Il sesto è nella parte più alta del cranio (nel buddhismo uṣṇīṣa o “ciuffo di Buddha”), è verde ed ha 4 petali. A sinistra e a destra del canale centrale – nella zona sopra l’ombelico, ci sono altri due canali, chiamati lalanā – detto anche iḍā – e rāsanā – detto anche piṅgalā – che si avvolgono intorno ai cakra. In questi canali associati al Sole – canale di destra – e alla Luna – canale di sinistra – circola il soffio vitale durante l’inspiro e l’espiro (N.B. i due canali sono relativi al ciclo giorno–notte, e quindi potremmo trovare facilmente delle corrispondenze con le strutture del cervello con simili funzioni, come la ghiandola pineale). I tre canali fondamentali – avadhūtī, lalanā e rāsanā – al cakra dell’ombelico si intrecciano, formando un nodo, quindi scendono verso il basso cambiando posizione: Avadhūtī, che in alto si trovava al centro, in basso è posizionato a destra e, con il nome di śaṅkhinī, svolge la funzione dell’emissione del seme; 61 Lalanā, che si trovava a sinistra, si trova adesso al centro e svolge la funzione dell’escrezione delle feci; Rasanā, che si trovava a destra, si trova adesso a sinistra e svolge la funzione di escrezione dell’urina. Al di sopra dell’ombelico il “soffio vitale” che scorre nei tre canali principali viene definito prāṇa, al di sotto dell’ombelico prende il nome di apāna. Lo scopo della pratica dello yoga è quello di arrestare (nirudh–) la circolazione del “soffio vitale” nei canali laterali – del Sole e della Luna – per convogliarlo nel canale centrale, detto avadhūtī. Questo processo – l’arresto del soffio nei canali del Sole e della Luna ovvero l’interruzione del sistema di regolazione del ciclo giorno notte – viene paragonato alle eclissi, ragion per cui il canale mediano viene associato al “nodo settentrionale della Luna”, Rāhu – considerato responsabile, appunto, delle eclissi – e prende il nome di Taminī, “la Tenebrosa”. Per provocare “l’eclissi di Sole e Luna” lo yogin pratica il prāṇāyāma, o “controllo del soffio”, variando la direzione, l’intensità e la durata di tre fasi associate ai tre momenti respiratori, ovvero: - Pūraka associato alla inspirazione; - Kumbhaka associato all’apnea; - Recaka, associato alla espirazione. 62 Pūraka, kumbhaka e recaka, sono simboleggiati dalle sillabe OṂ, ĀḤ e HŪṂ, la cui recitazione, detta vajrajāpa o “recitazione del diamante” viene identificata con il prāṇāyāma stesso. Nella teoria del kālacakratantra, il soffio vitale è il “veicolo” della mente, per cui “dal controllo del soffio si ottiene il controllo della mente”. Dal controllo della mente a sua volta deriva il controllo del seme definito bindu (in tibetano thig le). Il bindu, definito anche bodhicitta – “pensiero del risveglio” o “mente del risveglio” – risiede nella parte più alta del cranio, sotto la fontanella posteriore chiamata nello yoga buddhista uṣṇīṣa, che potremmo individuare come il “glande” del tronco encefalico. Una volta attivato il desiderio sessuale – ovvero “una volta attivate le ghiandole che secernono gli ormoni sessuali” – il bindu cola lungo il canale centrale per arrivare, al glande del pene detto “gemma del vajra” o vajrāgra. In questo percorso discendente penetra in tutti i centri energetici – cakra – assumendo, in quattro di essi, caratteristiche e nomi diversi: - Alla gola diviene conoscenza, jñāna; Al cuore diviene mente/memoria, citta; All’ombelico diviene parola, vac; Ai genitali diviene corpo, kaya. 63 Jñāna, citta, vac e kaya vengono considerati quattro semi – bindu – diversi, che, durante la fase detta di “concentrazione” o “ritenzione” – dharana – devono essere “fissati” nei rispettivi cakra. Lo “scioglimento” del seme è causato dal “fuoco del desiderio” – kāmāgni – che giace nell’ombelico nella forma, ovviamente simbolica, di una giovane donna di bassa casta – caṇḍālī – chiamata in tibetano Gtum mo o “Fiera dama”. Caṇḍālī, rappresentata talvolta come una giovane vedova seduta sulla riva di un fiume (il canale mediano) in un certo senso è un energia che viene attivata “per risonanza” dalla presenza fisica di una yoginī, oppure da un’immagine che ritrae una donna – da sola o intenta a far l’amore con il partner – o da un immagine visualizzata22. È bene a proposito fare delle precisazioni: Nei testi tantrici non si fa menzione di tecniche analoghe per attivare caṇḍālī nelle donne, ma si accenna a tecniche di autoerotismo e a “danze serpentine” che insorgono spontaneamente (Vedi. Drimé Kunga,“The Life and Visions of Yeshé Tsogyal: The Autobiography of the Wisdom Queen”, Snow Lion Publisher (2017). ISBN- 10 1611804345) il che, secondo noi, significa che per le concezioni tantriche la yoginī ha in sé una capacità di attivare naturalmente e di utilizzare le energie del desiderio. L’uso del termine caṇḍālī - che indica propriamente una donna appartenente alle caste più basse -viene di solito spiegato con la necessità del tantrico di andare oltre i principi del bene e del male, del puro e dell’impuro ecc. L’appartenenza delle più importanti maestre tantriche – come Yeshe Tsogyal, Ma gcig Lab sgron e Nigumā - alle classi abbienti e il loro essere donne di altissima preparazione culturale lascia intravedere nell’uso termine caṇḍālī, più che l’indicazione di una determinata provenienza sociale, la capacità di abbandonarsi ad istinti, tra virgolette, “bassi” e di compiere azioni e assumere posizioni che, allora come oggi, in certi ambiti vendono considerate “squalificanti”. 22 64 Spesso con il termine Caṇḍālī si indica anche il canale mediano, “vivificato” dall’energia femminile pura. “Caṇḍālī” – si legge nell’Hevajratantra – “s’infiamma nell’ombelico, e brucia i cinque Tathāgata, brucia Locanā ecc. e, bruciatili, la luna, cioè il suono HAṂ, comincia a fluire”.23 Dove per Tathāgata si intendono i cinque elementi, “Locanā ecc.” sono i cinque sensi e gli oggetti di percezione, mentre il verbo bruciare deve essere inteso nel senso di “ridurre ad uno stato di non azione”. Il seme, disciolto grazie all’energia del desiderio, come si è detto, comincia a colare lungo il canale mediano facendo sperimentare al praticante quattro diverse condizioni di piacere o ānanda, ognuna delle quali è, a sua volta, suddivisa in quattro gradi definiti “piacere del corpo”, “piacere della voce”, “piacere della mente” e “piacere della conoscenza”: - Il primo piacere è detto prathamānanda – “godimento iniziale” – e corrisponde alla discesa del seme dalla fontanella al punto in mezzo alle sopracciglia; - Il secondo piacere è detto paramānanda – “sommo godimento” – e corrisponde alla discesa del seme dal centro della gola a quello del cuore; - Il terzo piacere è detto viramānanda o vivindharamaṇānanda – “godimento dalle molte forme” – e corrisponde alla discesa del seme dall’ombelico al centro dei genitali; Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 71. Biblioteca Orientale 1. Adelphi 1994). 23 65 - Il quarto piacere è detto sahajānanda – “godimento innato” o “godimento dello stato naturale” – e si sperimenta sul glande al momento dell’emissione. Alla fine del processo di discesa del seme – caratterizzato da rāga inteso qui come “emozione del desiderio sessuale” – si ha un processo inverso detto virāga – “sazietà” – in cui il praticante sperimenta a ritroso il percorso precedente – ovvero sahajānanda, viramānanda, paramānanda, prathamānanda – fino ad arrivare ad uno stato di totale assenza di desiderio detto naṣṭacandra o “assenza della Luna” che indica la cosiddetta Luna nera, fase finale della Luna calante. L’uso del termine naṣṭacandra ci rivela che il percorso discendente e ascendente del desiderio corrisponde alle sedici fasi della Luna. Nel percorso discendente infatti: - Il “primo godimento” – prathamānanda – diviso in quattro gradi – piacere del corpo”, “piacere della voce”, “piacere della mente” e “piacere della conoscenza” – coincide con il primo quarto della Luna crescente; - Il “secondo godimento” – paramānanda – con i suoi quattro gradi coincide con il secondo quarto della Luna crescente; - Il “terzo godimento” – viramānanda – con i suoi quattro gradi coincide con il terzo grado della luna crescente; - Il “quarto godimento” – sahajānanda –con i suoi quattro gradi coincide con l’ultimo grado della Luna crescente. 66 Con l’orgasmo, ovvero il plenilunio, ha termine la “quindicina chiara” o “quindicina del desiderio sessuale” – ovvero il periodo di Luna crescente – ed ha inizio la “quindicina scura” o “quindicina del non desiderio sessuale” – ovvero periodo di luna calante – che nel percorso a ritroso, a partire dal plenilunio, passerà tutte le fasi precedenti fino ad arrivare alla fase della “assenza di Luna” – naṣṭacandra – o Luna nera, uguale e contraria al plenilunio. L’insieme delle due quindicine costituisce il Saṃsāra; Per nirvāṇa con base – prathiṣṭita – si intende l’orgasmo ordinario; Per nirvāṇa senza base – aprathiṣṭita –si intende l’orgasmo della mente conseguente alla risalita dell’essenza del seme che avviene durante la pratica yogica; Visto che ciò che viene definito saṃsāra è il continuo alternarsi dei due periodi – quindicina del desiderio e quindicina del non desiderio – lo yogin per interrompere questo processo “naturale” dovrà cercare di eliminare la “quindicina scura” ovvero la fase di assenza del desiderio sessuale. Immaginiamo che il desiderio crescente sia un liquido bianco e il desiderio decrescente un liquido nero. Se nella fase crescente il liquido bianco, dapprima in quiete nel punto più alto della testa, scende sempre più velocemente fino ad uscire dalla punta del pene (plenilunio), nella fase discendente il liquido nero – l’assenza del desiderio – salirà sempre più velocemente fino a riempire il punto più alto della testa (Luna nera). 67 Per invertire il processo naturale lo yogin dovrà controllare la fuoriuscita dell’essenza del seme – bodhicitta – e farla risalire lungo il canale centrale in luogo del liquido nero ovvero della “assenza di desiderio”. Nel kālacakratantra lo scioglimento del seme a fini yogici – e non quindi a fini di riproduzione o di ricerca del piacere – è definito “yoga del bindu”, mentre la sua risalita è definita sūkṣmayoga o “yoga sottile”. La risalita del seme – sūkṣmayoga – avviene in quattro momenti distinti, vere e proprie operazioni alchemiche che avvengono nei centri dell’ombelico, del cuore, della gola e, infine, della testa: 1. 2. 3. 4. Niḥsyanda, emanazione (ombelico); Vipāka, maturazione (cuore); Puruṣakāra, attività (gola); Vaimalya, purezza (testa). Questi quattro momenti sono accompagnati dai “canti delle dee”, con cui si indicano sia i canti reali eseguiti dalle yoginī che partecipano ai riti, sia i suoni interiori, di vario genere, percepiti dal praticante durante lo stato meditativo. Durante la pratica dello “yoga del bindu” e dello “yoga sottile” il vajra del praticante deve essere mantenuto costantemente in erezione grazie alla presenza – fisica o visualizzata – della yoginī. 68 Questo processo è descritto chiaramente nei versi del Mūlakālacakratantra un testo oggi perduto, ma citato in molti commentari del Kālacakratantra24: “Fissato che abbia il vajra nel loto, egli dovrà applicare il soffio vitale ai bindu, i bindu ai vari centri e [infine] arrestare il movimento dei bindu nel vajra.” “Lo yogin dovrà stare sempre in erezione, dovrà avere il seme rivolto verso l’alto e, grazie all’unione con la mudrā, sarà visitato [N.d.A. avrà visioni di esseri divini] […] e […] diverrà vajrasattva in persona”. L’arrivo del seme al centro della testa coincide con l’interruzione della circolazione del soffio nei due canali laterali (Sole e Luna) e questo porterà al progressivo rallentarsi delle fasi respiratorie fino all’ottenimento di una apnea spontanea. Questa progressiva soppressione degli atti respiratori – come dice Abhinavagupta nel Tantrāsara – conduce al “divoramento del tempo” che molti identificano con la realizzazione finale (o comunque con un indizio della realizzazione). La soppressione di un atto respiratorio durante la pratica tantrica corrisponde ad un istante di “godimento supremo”. Dopo un certo numero di questi istanti – 1800 secondo il Kālacakra, permette di entrare in una serie di terre spirituali dette bhumi –probabilmente da intendersi come particolari stati di coscienza – che sono da considerarsi luoghi fisici, disposti, in corrispondenza dei vari cakra. Le terre spirituali vanno “esplorate” progressivamente, dal cakra dei genitali Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 75. Biblioteca Orientale 1. Adelphi 1994). 24 69 sino alla fontanella, ed ogni tappa è scandita da un numero progressivamente più elevato di sospensioni di atti respiratori e, quindi di istanti di beatitudine. Alla fine dell’intero percorso, avverrà una trasformazione completa del corpo fisico, che prenderà il nome di “corpo di conoscenza”, o Jñānadeha. 70 71 LA PRATICA DELLO ṢAḌAṄGAYOGA25 Lo Ṣaḍaṅgayoga, come dice il nome, è formato da sei “membra” o parti: 1. Pratyāhāra, o “ritrazione”; 2. Dhyāna, o “meditazione”; 3. Prāṇāyāma, o “controllo della respirazione/dei soffi vitali”; 4. Dhāraṇā, o “ritenzione/fissazione”; 5. Anusmṛti, o “applicazione mnemonica”; 6. Samādhi, o “contemplazione”. Questi sei passi nel kālacakra sono a loro volta organizzati in quattro diversi momenti: - Sevā, o “pratica devota”, che comprende Pratyāhāra e Dhyāna; Vedi: “Sekkodeśa stanze 24-92”, in Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 253 e seguenti. Biblioteca Orientale 1. Adelphi 1994 25 72 - Upasādhana, o “realizzazione inferiore”, che comprende Prāṇāyāma e Dhāraṇā; - Sādhana, inteso come “realizzazione”, che corrisponde all’Anusmṛti; - Mahāsādhana, o “grande realizzazione”, che coincide con il Samādhi. Il primo passo, Pratyāhāra, consiste nell’isolarsi dalla realtà circostante portando l’attenzione sul vuoto. Dal vuoto emergono dieci segni (N.B. la visione dei dieci segni è collegata, secondo noi, a particolari movimenti e posizioni degli occhi): 1. Visione del fumo; 2. Visione di un miraggio (definito come “visione di acqua in movimento”): 3. Una luce simile a quella emessa da una lucciola; 4. Una luce simile a quella emessa da una lampada; 5. Una fiamma; 6. La Luna; 7. Il Sole; 8. Un disco nero (visualizzazione di Rāhu, nodo lunare settentrionale/canale mediano); 9. Un lampo; 10. Un disco azzurro (visualizzazione del bindu). Dopo il manifestarsi del decimo segno appare, secondo il kālacakra, un’immagine “immateriale e ineffabile” 26 definita Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 95. Biblioteca Orientale 1. Adelphi 1994). 26 73 “forma del Buddha”, “forma dei Buddha” o “corpo di fruizione del Buddha”, che contiene “tutti i tempi e tutte le cose”. Il secondo passo dello Ṣaḍaṅgayoga è la meditazione, Dhyāna durante la quale il praticante deve “consolidare” l’immagine apparsa dopo la manifestazione dei dieci segni. Più propriamente bisognerebbe parlare di meditazione dell’immagine o bimbabhāvanā, che nel kālacakra viene divisa in due fasi: antecedente (o preliminare) e finale (o susseguente). La “meditazione dell’immagine preliminare”, consiste nell’insorgere dell’immagine dopo la realizzazione dei dieci segni (fumo, miraggio, lucciola ecc.). Si legge a questo proposito nella Laghutantraṭīka di Vajrapāṇi27: “Vista l’immagine e posto [il pene] nella vulva, si ha la meditazione susseguente, allo scopo di accrescere il supremo immoto piacere. Quindi ancora, dopo aver abbandonato la mudrā dell’azione e della conoscenza, lo yogin deve realizzare meditando la grande mudrā allo scopo di accrescere il grande piacere”. Il secondo “passo”, dhyāna, è articolato in cinque diversi momenti: 1. Vitarka, ovvero “esame”; 2. Vicāra, ovvero “analisi”; 3. Prīti, ovvero “gioia”; Vedi: Cicuzza, C. (1994), La Laghutantraṭīkā di Vajrapāṇi, tesi di laurea, Università La Sapienza di Roma. 27 74 4. Sukha, ovvero “piacere”; 5. Cittaikagratā, ovvero “concentrazione della mente in un punto”. Nel primo momento – vitarka – si ha una visione “descrittiva”, in senso lato “razionale” della realtà (dell’immagine realizzata dopo i dieci segni). Nel secondo momento – vicāra – si ha una visione d’insieme o meglio “intuitiva” della realtà (dell’immagine realizzata dopo i dieci segni). Nel terzo momento – prīti – il praticante si trova immerso in uno stato di pace e tranquillità mentale che lo conduce alla gioia. Dalla gioia scaturisce la completa distensione del corpo che si accompagna ad una condizione di piacere diffuso definita sukha (quarto momento). Nel quinto momento – cittaikagratā – il praticante è completamente immerso nello stato definito prajña, o saggezza. Il terzo passo – prāṇāyāma – è il controllo del respiro e dei soffi vitali intesi come veicolo della mente e il suo scopo è quello di interrompere la circolazione delle energie nei due canali laterali (rāsanā a destra e lalanā a sinistra) per immetterle nel canale di centro (Avadhūtī). Il quarto passo – dhāraṇā – consiste nella concentrazione – o fissazione – del soffio vitale nella parte più alta delle testa – nel luogo del bindu – conseguente all’arresto della circolazione delle energie nei due canali laterali (arresto realizzato 75 grazie alla pratica del prāṇāyāma). Tramite l’eccitazione dell’energia sessuale, caṇḍālī sale lungo il canale centrale e discioglie il seme (bindu). Il seme, come si è visto, è legato a quattro diversi tipi di piacere e durante la pratica di dhāraṇā viene fissato nei diversi cakra: - Il cosiddetto “bindu corporeo” – Kāyabindu –viene fissato al cakra dei genitali; - Il “bindu della voce” al cakra dell’ombelico; - Il “bindu della mente” al cakra del cuore; - Il “bindu della conoscenza” al cakra della gola. Il quinto passo – anusmṛti – lo possiamo definire “meditazione susseguente” o “meditazione finale”. La risalita della caṇḍālī si accompagna di nuovo alla manifestazione dei dieci segni – “fumo, miraggio, lucciola, lampada, fiamma, Luna, Sole, disco nero, lampo e disco azzurro” – dopo i quali appare la “divinità desiderata” – Heruka, Hevajra, Kālacakra ecc. – accompagnata da una luce diffusa. La caṇḍālī – con cui si intende sia la yoginī che partecipa al rito, sia la sua immagine visualizzata, sia l’energia dell’eccitazione sia il canale in cui scorre – viene quindi identificata con la “grande mudrā” e viene divinizzata, nel senso che si trasforma nell’incarnazione fisica delle energie che assumono i nomi delle varie dee. Lo yogin colto da un potentissimo desiderio, passa quindi attraverso dieci stati emotivi – messi in relazione con i dieci segni – detti dieci stati di Kāma: 76 1. Pensiero fisso (fumo); 2. Desiderio (miraggio dell’acqua in movimento); 3. Febbre (lucciola); 4. Pallore del volto (lampada); 5. Inappetenza (fiamma); 6. Tremore (Luna); 7. Follia (Sole); 8. Vertigine (disco nero); 9. Confusione mentale (lampo); 10. Insensibilità (disco azzurro). Il desiderio si trasforma in azione sfociando nel rapporto sessuale – fisico o visualizzato – e provoca la discesa del seme la cui essenza, attraverso il canale mediano, risale verso la testa anziché essere disperso all’esterno. Il sesto passo – samādhi – è caratterizzato dallo stato di beatitudine permanente o “piacere onnipervadente” – ānanda – ed è definibile come condizione del “due in uno”. Si realizza in altre parole l’identità tra yogin e yoginī, tra essere umano e divinità, tra interno ed esterno. 77 LA REALIZZAZIONE DEI DIECI SEGNI Vediamo adesso, come viene descritta nei testi del kālacakra la manifestazione dei dieci segni28, ovvero: 1. Visione del fumo; 2. Visione di un miraggio (definito come “visione di acqua in movimento”): 3. Una luce simile a quella emessa da una lucciola; 4. Una luce simile a quella emessa da una lampada; 5. Una fiamma; 6. La Luna; 7. Il Sole; 8. Un disco nero (visualizzazione di Rāhu, nodo lunare settentrionale/canale mediano); 9. Un lampo; 10. Un disco azzurro (visualizzazione del bindu). Vedi: Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 253 e seguenti. Biblioteca Orientale 1. Adelphi 1994 28 78 “24. Di questa [realtà lo yogin dovrà mettere in atto la realizzazione con apparizioni inconcepibili, ossia i segni del fumo ecc., immagini della saggezza, simili all’etere,” “25. Trascendenti l’essere e il non essere, esperienze testimoniate dalla sua propria mente, completamente prive di aggregati materiali[…].” “26. [Queste immagini sono] il fumo, il miraggio, la lucciola, la lampada, la fiamma, la Luna, il Sole, la tenebra, il lampo, il grande bindu, l’immagine universale, chiarolucente.” “In primo luogo appare come una nuvola e, in secondo luogo, l’immagine del fumo. Il miraggio ha[…] l’aspetto di acqua in movimento. [Gli altri due segni…hanno] l’aspetto di una lucciola e di una lampada […].” “[…questi] quattro segni nascono nelle tenebre e costituiscono lo yoga notturno detto anche yoga dello spazio [chiuso]. “In seguito, preceduta dall’apparizione di un cielo senza nuvole, si ha un’apparizione vuota, chiarolucente, che ha l’aspetto del fuoco. Le apparizioni della Luna e del Sole sono ben note. La tenebra è la luce di Rāhu, un’apparizione simile a una gemma nera. Kalā è l’apparizione del lampo. Il grande bindu è un’apparizione che ha l’aspetto di un orbe lunare azzurrino, che illumina tutte le cose[…]. “Questi sei segni [N.d.A. la fiamma, la Luna, il Sole, il disco nero, il lampo, il disco azzurro] nascono nella luce di un cielo senza nuvole e costituiscono […] lo yoga diurno detto anche yoga dello spazio aperto. Subito dopo in unione con la visione dell’immagine del Buddha […] in mezzo al bindu [N.d.A il disco azzurro] si ha, in un singolo istante, l’immagine […] di tutte le cose, in tutti i loro aspetti […] pura come l’acqua nel cavo della mano.” 79 “27. Con gli occhi mezzo chiusi e mezzo aperti, quell’immagine che appare nel vuoto, come un sogno […] lo yogin dovrà sempre meditarla.” “[…] questa immagine […] lo yogin dovrà […] consolidarla con quel membro dello yoga chiamato […] dhyāna.” La meditazione sull’immagine che insorge dal disco azzurro è ciò che nel buddhismo viene definita “retta visione”. Occorre chiarire che la meditazione viene intesa come “conoscenza della realtà”, e la conoscenza si ottiene in due modi: Con la percezione – con “l’occhio di carne” dicono i testi del Kālacakra, ovvero con l’esperienza diretta detta pratyakṣa – o con il ragionamento detta anumāna. Ma solo l’esperienza diretta può condurre all’illuminazione. “Di esse due la percezione diretta è esclusa da ogni impurità […] e, essendo in congiunzione con la realtà […] [brilla] come un cerchio di stelle nel cielo […] ed è percepibile con l’occhio di carne […] simile a un’illusione o a un sogno […].” “qui dapprima lo yogin […] vede con l’occhio di carne l’immagine di tutte le cose […]. Successivamente vede con l’occhio divino […] dopo ancora […] con l’occhio del risvegliato[…]; quindi con l’occhio della saggezza […] e dopo ancora, con l’occhio della conoscenza, essendo pervenuto alla condizione di perfetto risvegliato […]”. “[…] In assenza della percezione diretta […] il ragionamento è come un corpo senza vita, […] come un cadavere[…]”: 80 Se si legge il testo con attenzione vedremo che ci sono indicazioni precise sull’utilizzazione della vista, della luce che entra tra le palpebre – “Con gli occhi mezzo chiusi e mezzo aperti” – e dei globi oculari come tecnica operativa. Il penultimo verso che abbiamo trascritto è particolarmente importante da questo punto di vista: “dapprima lo yogin vede con l’occhio di carne l’immagine di tutte le cose. Successivamente vede con l’occhio divino […] dopo ancora […] con l’occhio del risvegliato[…]; quindi con l’occhio della saggezza […] e dopo ancora, con l’occhio della conoscenza, essendo pervenuto alla condizione di perfetto risvegliato […]”. Si tratta evidentemente di una trasformazione della realtà percepita che si accompagna ad una progressiva trasformazione dell’occhio di carne. Una trasformazione che, secondo noi ha – avrebbe – luogo grazie alla stimolazione volontaria del sistema endocrino realizzata attraverso l’utilizzazione non ordinaria dei muscoli oculari e dei muscoli sottili degli organi genitali. Un processo alchemico che potremmo definire, a ragion veduta, “Visione Interiore”. 81 ENERGIE SOTTILI Le indicazioni “operative” del “Ṣaḍaṅgayoga” – e in genere di tutti i testi dello Yoga medioevale - non sono di facile comprensione, ma anche coloro che non hanno una esperienza nello yoga possono facilmente comprendere che si tratta di tecniche che riguardano delle realtà fisiche, ovvero processi fisiologici da “ascoltare” e da – inteso tra virgolette – “controllare”. La definizione “energia sottile” – collegata a ciò che chiamiamo kuṇḍalinī, caṇḍālī o genericamente śakti – non indica una vaga sensazione né l’onnipresente, e non descrivibile, energia cosmica della new age, ma un qualcosa di reale, oggettivo, che sta alla base della pratica dello haṭhayoga. Senza la percezione delle energie sottili diventa difficile, se non impossibile, comprendere pienamente la pratica degli āsana e delle mudrā, perché la “valenza operativa” dello yoga consiste sulla possibilità – tutta da dimostrare ovviamente – di intervenire sul sistema linfatico, il sistema circolatorio, il sistema nervoso e il sistema endocrino, per mezzo di una serie di tecniche che necessitano, appunto della percezione e dell’utilizzazione delle “energie sottili”. 82 Le tecniche respiratorie – apnea, inversione o comunque alterazione del ciclo nasale, allungamento delle fasi di inspirazione o di espirazione o entrambe ecc. servono per mutare la chimica del corpo. L’espirazione forzata chiamata kapālabhātī, ad esempio è finalizzata alla diminuizione della percentuale di CO2 nel sangue inducendo nel praticante lo stato detto “ipocapnia”. I sintomi della ipocapnia indotta da kapālabhātī sono: 1. Riduzione della frequenza del respiro; 2. Accelerazione della frequenza cardiaca; 3. Leggera alterazione cerebrale con vaso costrizione e produzione di effetti visivi anomali. 4. Insorgere di uno stato di eccitazione mentale o di leggera ansietà. Un altro esercizio respiratorio molto praticato nello yoga è bhastrika che consiste in veloci inspirazioni ed espirazioni forzate. Questo secondo caso, alla diminuizione della concentrazione di CO2 si accompagna la diminuizione della concentrazione di ossigeno nel sangue. Visto che nel corpo umano la necessità di assumere ossigeno viene indotta dall’aumento della percentuale di anidride carbonica, essendoci poca CO2 nel sangue il praticante non sentirà la necessità di inspirare più profondamente e sperimenterà i sintoni di una leggera “ipossia”, ovvero di una diminuzione della percentuale di ossigeno nel sangue. I sintomi dell’ipossia sono: 1. Progressivo abbassamento della frequenza dei battiti cardiaci (dopo un iniziale aumento); 83 2. La diminuizione del metabolismo, con una sensazione di tranquillità e sonnolenza: 3. La sensazione di leggera ebrezza (successiva alla sonnolenza) con distorsioni percettive; 4. Restringimento del campo visivo. L’apnea forzata, assai utilizzata anche in molti esercizi respiratori di base – esempio: si inspira in 4 tempi, si trattiene l’aria per 64 tempi e si espira per 16 tempi – provoca infine ipercapnia, ovvero un aumento della percentuale di anidride carbonica, con l’insorgere di un leggero stato di letargia, riconoscibile da questi sintomi: 1. Sonnolenza; 2. Scarsa reattività agli stimoli esterni; 3. Diminuizione dell’attività mentale. È ovvio che questi esercizi vanno praticati con cautela e vanno appresi da istruttori esperti che, se sono autentici haṭhayogin, saranno consci delle possibili utilizzazioni degli effetti di ipocapnia, ipossia e ipercapnia. L’aumento della percezione della propria vitalità, gli effetti luminosi, o sonori, che portano il praticante a portare l’attenzione “all’interno del proprio corpo”, il rilassamento e la diminuzione di attività psichica che predispongono alla meditazione possono essere indotti negli allievi al fine di migliorare il loro rapporto con il corpo, aumentando le capacità di “ascolto interiore”, ridurre il livello di stress e permettere loro di usufruire della pratica fisica per migliorare innanzitutto il proprio stato di salute; ma, ovviamente, collegare gli stati indotti dalle tecniche respiratorie a pratiche e credenze reli- 84 giose può al contrario, secondo me, portare degli effetti negativi, con l’insorgere di disturbi cognitivi e fisici di vario genere. La sensazione di piacevolezza derivante da una seduta di meditazione o da una riuscita pratica di prāṇāyāma, dipendono dall’alchimia del corpo umano, e non, ad esempio, dalla fede in un guru o in un maestro spirituale. Un conto è, per esempio la preghiera, intesa come atto di devozione, un altro è quello di affrontare gli esercizi dello yoga alchemico – elaborazione medioevale del sapere tradizionale indiano – animati dalla fede cieca. Un ricercatore conscio del lavoro “alchemico” che sta facendo, riuscirà a rendersi conto dei limiti cui può spingersi con se stesso o con gli allievi, durante la pratica di esercizi non esattamente innocui come le tecniche di prāṇāyāma. Un devoto animato da fede cieca può da un lato invece avere il desiderio di spingersi oltre i limiti stabiliti dalla propria anatomia e dal proprio stato di salute, dall’altro può arrivare a collegare ad esempio, le distorsioni percettive causate dalla diminuizione della percentuale di ossigeno, con visioni di esseri celestiali o messaggi di esseri di altre dimensioni. Per ciò che riguarda gli āsana bisogna essere coscienti che si tratta in genere di tecniche per favorire il flusso dei cinque principali fluidi del corpo umano: 1. 2. 3. 4. 5. Sangue venoso; Sangue arterioso; Linfa; Liquidi sinoviale; Liquido cefalo–rachidiano. 85 Di questi il più importante dal punto di vista yogico è la linfa, detta un tempo “sangue bianco”, che grazie all’enorme diffusione di vasi linfatici nel corpo umano interagisce con tutti gli altri fluidi corporei, Gli effetti piacevoli riscontrati dopo una buona pratica di haṭhayoga sono attribuibili in gran parte al miglioramento della circolazione dei fluidi corporei. L’aumento della scioltezza articolare ad esempio, sarò dovuto in genere, alla migliore distribuzione del liquido sinoviale. Avete fatto caso alla facilità con cui, durante un’intensa, e ben condotta, pratica di yoga, “scrocchiano” le vertebre e le articolazioni? Lo “scrocchio” è dovuto all’esplosione di bolle d’aria contenute nel liquido sinoviale. Quando le due estremità di un articolazione sono mal disposte o comunque sottoposte ad una eccessiva pressione, il liquido sinoviale – responsabile della scioltezza articolare – è mal distribuito e ristagna, creando delle bolle d’aria. Allungando le due estremità dell’articolazione con gli esercizi yoga si crea una zona di “vuoto”, le bolle scoppiano e l’articolazione, dopo il crack, ritorna al suo stato naturale. Per far vuoto tra le due estremità dell’articolazione si dovrà lavorare sul processo di contrazione e rilassamento dei muscoli, processo legato indissolubilmente alla circolazione del liquido linfatico. Il flusso linfatico a sua volta dipende dal funzionamento dei diaframmi (diaframma toracico, diaframma urogenitale, diaframma della sella turcica ecc.) delle vere e proprie pompe che hanno la funzione di regolare la pressione delle zone in cui si trovano, in genere, i gruppi di linfonodi. La linfa non si muove autonomamente nel corpo, ma ha bisogno di una sollecitazione esterna. 86 La pressione all’interno dei vasi linfatici è assai bassa, per cui di fronte ad una resistenza causata da una contrazione muscolare o a una rigidità dei diaframmi crea a sua volta dei ristagni. La maggior parte degli āsana sono finalizzati all’aumento della pressione nei canali linfatici tramite la riduzione delle tensioni presenti nel sistema fasciale, strettamente connesso all’asse dei diaframmi. Il movimento fisico, i bandha, l’uso di manipolazioni e la respirazione “consapevole” tipici delle tecniche yoga, aumentano la pressione nei vasi linfatici favorendo la circolazione della linfa e, di conseguenza, di tutti i fluidi corporei e del sistema endocrino. L’altro sistema su cui lavora lo Yoga è il sistema nervoso, e si suppone che uno yogin sviluppi a tal punto le capacità percettive da riuscire ad avvertire il passaggio delle informazioni elettrochimiche dalla periferia al cervello (funzione afferente dei nervi) e dal cervello alla periferia (funzione efferente). Lo haṭhayogin in altre parole deve sviluppare la tecnica dell'ascolto interiore (che non ha niente a che vedere con l'esame di coscienza o l'auto–analisi!), spostando l'attenzione della mente sulla percezione interna, o enterocettività, fino a sviluppare progressivamente una sensibilità "febbrile" per le percezioni tattili in modo da percepire lo scorrere dei fluidi corporei, il loro stagnarsi, e addirittura lo scorrere delle informazioni lungo i nervi. Sono queste le energie sottili di cui si parla nello Yoga: I fluidi corporei e le correnti di informazioni nervose. Il vero yogin dovrebbe essere in grado di percepire la quantità di ossigeno (prāṇa), azoto ecc. che circola nel suo corpo, il flusso del liquido linfatico o quello del liquido cerebro spinale, e dovrebbe conoscere le tecniche per aumentare o diminuire la percentuale dei gas e la velocità dei fluidi corporei. 87 Il primo passo per la corretta pratica dello yoga sarà quindi quello di sviluppare l’ascolto interiore inteso come percezione delle energie sottili, una specie di tatto interno. All’inizio si sentiranno dei leggeri formicolii, sensazioni di caldo e freddo che si spostano da una parte all’altra del corpo ecc. In seguito si diventerà in grado di percepire la circolazione dei fluidi come vibrazioni, imparando a distinguerne il ritmo e la direzione. 88 89 IL CICLO NASALE Āsana, bandha, mudrā, prāṇāyāma sono tecniche “alchemiche”, finalizzate all’ascolto, all’utilizzazione e, in molti casi, all’alterazione di naturali processi fisiologici. La respirazione a narici alternate, ad esempio, si basa sulla conoscenza e la volontaria alterazione del “ciclo nasale” ovvero la naturale tendenza dell’organismo a “aprire” periodicamente l’una o l’altra narice, attivando uno dei due emisferi cerebrali alla volta. In occidente29 le prime osservazioni storicamente documentate sul ciclo nasale vennero compiute alla fine del XIX secolo dal fisiologo tedesco Richard Kayser30. Gli studi di Kayser furono ripresi nella seconda metà del XX secolo nell’ambito delle ricerche orientate alle terapia Vedi: “IL CICLO NASALE, L’ATTIVITA’ CEREBRALE E IL SISTEMA NERVOSO AUTONOMO”, adattamento e traduzioni di Andrea Di Chiara, Odontoiatra, Ortopedia Cranio-Cervico-Mandibolare e Terapia Ortopedica Dentale delle Disfunzioni Posturali, www.aipro.info. 30 Richard Kayser: Die exakte Messung der Luftdurchgängigkeit der Nase. Arch. Laryng. Rhinol. (Berl.) 8, 101 (1895). 29 90 delle “ostruzioni nasali croniche31” e si arrivò a collegare l’alternarsi del funzionamento delle narici all’attività delle innervazioni del sistema simpatico e del sistema parasimpatico presenti nelle mucose nasali: “Il predominio del simpatico sulla narice destra causa la sua vasocostrizione e la conseguente decongestione, facendo aumentare il flusso d’aria; tale predominio si accompagna al prevalere del parasimpatico nella narice sinistra che ne provoca la congestione”32. Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 cominciarono le ricerche per dimostrare il legame tra l’alternanza delle narici nel processo respiratorio e la cosiddetta “dominanza emisferica cerebrale”, ovvero il predominio di un emisfero celebrale rispetto all’altro. Tra il 1983 e il 1987 un equipe guidata da David S. Shannahoff–Khalsa – un discepolo di Yogi Bhajan, attualmente membro del “Center for Integrative medicine della University of California di San Diego – dimostrò sperimentalmente la possibilità di attivare volontariamente uno o l’altro dei due emisferi cerebrali decongestionando la narice del lato opposto del corpo. Mirza, N., Kroger, H., Doty, R.L., 1997. Influence of age on the 'nasal cycle'. Laryngoscope. 107(1), 62-66. 32 Tratto da “IL CICLO NASALE, L’ATTIVITA’ CEREBRALE E IL SISTEMA NERVOSO AUTONOMO”, adattamento e traduzioni di Andrea Di Chiara; Op. Cit. 31 91 Le modalità degli esperimenti di Shannahoff–Khalsa e del team di ricercatori che lo coadiuvava sono descritte in numerose pubblicazioni scientifiche333435 e i risultati delle loro ricerche, tutt’oggi considerati attendibili, gettano, tra l’altro, una nuova luce sulle tecniche operative dello Haṭḥayoga medioevale dimostrando come sia possibile, modificando la postura, alterare i “ritmi ultradiani” del corpo umano. Per “ritmo ultradiano” si intende un ciclo biologico che si ripete regolarmente all’interno del “ritmo circadiano”, ovvero dell’alternarsi di luce e buio nell’arco delle 24 ore, così come per “ritmo infradiano” si intende un ciclo biologico di durata superiore alle 24 ore, come ad esempio, il ciclo mestruale. Questi tre ritmi – infradiano, circadiano e ultradiano – seguono l’andamento “dell’onda”, nel senso che sono caratterizzati da una fase ascendente – “luminosa”, “attiva”, “Yang” – ed una fase discendente – “oscura”, “ricettiva”, “Yin” – che nascono l’una dall’altra e negli “organi pari” – ovvero quelli formati da due strutture simmetriche come i reni, le gonadi o gli emisferi celebrali – si alternano secondo Werntz DA, Bickford RG, Shannhoff-Khalsa DS, “Selective Hemispheric Stimulation by Unilateral Forced Nostril Breathing”, Human Neurobiology (1987),6:165-171. 34 Werntz DA, Bickford RG, Bloom FE, Shannahoff-Khalsa DS: “Alternating Celebral Hemispheric Activity and the Lateralization of Autonomic Nervous Function”. Human Neurobiology, 1983, 2:39-43. 35 Shannhoff-Khalsa DS, “Lateralized Rhytms of the Central and Autonomic nervous Systems, International Journal of Psychophysiology, 1991, 11:225-251. 33 92 la logica della lateralizzazione: se la narice destra, ad esempio, è congestionata – fase “yin” – la sinistra viene decongestionata – fase “yang” – e viceversa. Questo fenomeno viene definito dominanza nel senso che per un periodo definito di tempo “domina” l’organo pari di sinistra e per un eguale periodo di tempo “domina” invece l’organo pari di destra. Esempi di ritmi ultradiani sono: 6. Il ciclo di 90 – 120 minuti delle fasi del sonno del sonno (REM – Rapid Eyes Movement – e non REM; 7. Il ciclo della circolazione sanguigna; 8. Il battito delle ciglia; 9. Il battito del polso; 10. La frequenza cardiaca; 11. La minzione; 12. Le attività intestinali; 13. La secrezione ormonale; 14. Il ciclo nasale. La cosa interessante, per ciò che riguarda il lavoro fisico dello yoga, è che questi cicli possono essere facilmente alterati con un semplice spostamento di peso e, in genere, con la pressione su determinati punti del corpo; in altre parole l’essere umano ha la possibilità di rendere volontariamente “dominante”, ad esempio, la narice sinistra rispetto alla narice destra per un tempo indefinito. 93 Provate, ad esempio, a rimanere in equilibrio sulla gamba destra volgendo leggermente lo sguardo a sinistra: immediatamente si decongestionerà la narici sinistra che resterà “dominante fino a quando non cambieremo posizione. Le implicazioni di questa osservazione – la possibilità di rendere volontariamente dominante una narice rispetto all’altra – sono maggiori di quanto si possa immaginare: il team di Shannahoff–Khalsa ha infatti dimostrato sperimentalmente che alla dominanza della narice sinistra corrisponde una maggior attività dell’emisfero cerebrale destro e, di conseguenza, una probabile una alterazione di tutti i ritmi ultradiani, compreso, quindi il ciclo delle secrezioni ormonali. 94 95 I DUE EMISFERI CELEBRALI Aree sensitivi e motorie dei due emisferi celebrali. Fonte: https://medicinaonline.co/2018/03/09/differenze– tra– emisfero– destro– e– sinistro– del– cervello/ 96 Il Sistema Nervoso Centrale, che ha il compito di ricevere, esaminare e rispondere agli stimoli interni ed esterni provenienti dal Sistema Nervoso Periferico, è formato dall’encefalo e dal midollo spinale posto all’interno della colonna vertebrale. L’encefalo è costituito dal cervello, dal tronco encefalico – formato a sua volta da mesencefalo, ponte e bulbo – e dal cervelletto. Il cervello a sua volta è suddiviso in telencefalo e diencefalo; è il telencefalo ad essere costituito dai due emisferi celebrali, due masse speculari che creano la caratteristica forma a noce che possiamo notare nelle raffigurazioni anatomiche. L’emisfero destro controlla i movimenti e riceve le sensazioni del lato sinistro del corpo, mentre l’emisfero sinistro controlla i movimenti e riceve le sensazioni del lato destro, ma hanno anche funzioni generali diverse: L’emisfero sinistro ad esempio, è specializzato nella “organizzazione del linguaggio” e nella “conoscenza distintiva”, ovvero nella capacità di analizzare i particolari, mentre l’emisfero destro è specializzato nella comprensione “globale”, ovvero la capacità di percepire un quadro, un paesaggio, una situazione nel suo insieme. Banalizzando si può dire che l’emisfero cerebrale destro è il nostro “cervello poeta”, mentre l’emisfero celebrale sinistro è il nostro “cervello ingegnere”. Le “specializzazioni del cervello ingegnere” sono: - I processi linguistici; - I processi sequenziali, ovvero nella comprensione e nella gestione degli eventi che si susseguono nel tempo; 97 - La concatenazione logica del pensiero (anch’essa ovviamente un “processo sequenziale”); - La gestione del rapporto causa– effetto; - La percezione analitica della realtà (esamino la foglia e non ho la visione dell’albero).36 Le “specializzazioni del cervello poeta” sono invece: - La percezione e l’elaborazione delle informazioni visive; - L’organizzazione spaziale e quindi anche la comprensione degli stimoli che permettono il movimento nello spazio; - La comprensione e condivisione delle emozioni; - La creatività; - La “visione d’insieme” (non osservo analiticamente la singola foglia, ma ho la percezione dell’albero). Le differenze funzionali tra i due emisferi, banalizzando, si possono schematizzare in questo modo: 1. L’emisfero destro è sintetico (unisce le parti formando un tutto) e il sinistro è analitico (analizza il tutto nelle sue parti); 2. Il destro vede somiglianze oggettive, il sinistro comprende le metafore; 3. Il destro è “irrazionale”, il sinistro è razionale; 4. Il destro è impulsivo, il sinistro è logico; https://medicinaonline.co/2018/03/09/differenze-tra-emisfero-destroe-sinistro-del-cervello/ 36 98 5. Il destro trova soluzioni creative, il sinistro trova soluzioni “lineari”. Queste differenze provocano il fenomeno della “dominanza”. In pratica quando un emisfero non è competente a “svolgere un particolare compito” l’altro emisfero diviene, appunto “dominante”. Quando leggiamo, scriviamo o dialoghiamo la dominanza è l’emisfero sinistro ad essere dominante, quando invece disegniamo o contempliamo un quadro o un tramonto utilizziamo capacità riservate all’emisfero destro. Ciò non significa che i due emisferi funzionino in maniera separata: in ogni azione, pensiero, progetto i due lavorano “in sinergia” essendo messi in comunicazione da un fascio di fibre nervose posizionato sopra al talamo: il “corpo calloso”, che media e integra continuamente le elaborazioni dei due emisferi. Le diverse funzioni dei due emisferi sono state definite grazie all’osservazione degli effetti di lesioni in uno o l’altro dei due “cervelli”. Una lesione nelle aree dei processi linguistici – emisfero sinistro – provoca una perdita di comunicare verbalmente, per fare un esempio posso utilizzare perfettamente un utensile ma non sono in grado né di descriverlo né di dargli un nome. Nel caso di una lesione dell’emisfero cerebrale destro potrò invece descrivere perfettamente un oggetto e le sue funzioni, ma non riuscirò ad utilizzarlo, per fare un esempio posso riconoscere la tastiera di un computer e leggere i simboli, i numeri e le lettere, ma non sono assolutamente in grado di utilizzarla per scrivere un testo. 99 La descrizione delle differenze tra “cervello poeta” e “cervello ingegnere” non deve tuttavia farci pensare che agiscano separatamente o che, rendendo dominante uno piuttosto che l’altro, io possa sviluppare talenti e capacità che ignoravo di possedere. Se utilizzando le tecniche dello yoga attribuisco volontariamente, per lungo tempo all’emisfero cerebrale sinistro, non mi scoprirò improvvisamente un genio matematico, né diverrò improvvisamente un grande artista “attivando” l’emisfero destro. Ciò è dovuto al fatto che i due emisferi sono costantemente in comunicazione tra loro grazie alle funzioni di mediatore ed equilibratore del corpo calloso, formato in gran parte da materia bianca telencefalica, che gestisce il passaggio delle informazioni trai due emisferi e, in genere, tra essi e le strutture subcorticali (ovvero quelle situate sotto la corteccia cerebrale). Se è vero quindi che naturalmente – in accordo con i ritmi ultradiani, o volontariamente – con le tecniche yogiche – un emisfero è messo in una condizione di dominanza rispetto all’altro, è anche vero che in genere agiscono contemporaneamente: un musicista, per fare un esempio, quando studia un brano lo ascolterà, per così dire, con l’emisfero cerebrale sinistro in modo da apprezzarne la costruzione ritmica e melodica; se invece vorrà abbandonarsi alle sensazioni e alle emozioni generate dal brano, inconsciamente attiverà l’emisfero cerebrale destro. Ad ogni modo non si può negare che una predominanza dell’emisfero destro favorisce il rilassamento e predispone alle pratiche meditative e alle attività creative, mentre una predominanza dell’emisfero sinistro favorisce le attività intellettuali. 100 Può essere interessante a tale proposito notare che le fai del ciclo – ultradiano – del sonno sono legate al ciclo nasale e, di conseguenza all’alternanza del predominio dei due emisferi: la fase REM – Rapid Eyes Movement –corrisponde ad un periodo di maggior attivazione della narice destra – quindi dell’emisfero sinistro – mentre una maggior attivazione della narice sinistra – e quindi dell’emisfero destro, corrisponde alla fase di sonno profondo – o non REM – e al sonnambulismo. In genere possiamo riconoscere nell’emisfero sinistro – collegato alla narice destra e, nello yoga alla principale Nāḍī di destra del corpo tutto ciò che riguarda il linguaggio – linguaggio verbale, pensiero, linguaggio simbolico – e nell’emisfero destro legato alla narice sinistra e, nello yoga, alla Nāḍī sinistra del corpo, tutto ciò che riguarda le sensazioni e le emozioni. In altre parole le scoperte del team di David S. Shannahoff– Khalsa37 sembrerebbero – il condizionale è sempre d’obbligo in questi casi – confermare le intuizioni degli yogin medioevali, o, comunque, mostrano l’esistenza di profonde analogie tra le moderne neuroscienze e l’impianto teorico dello yoga. Come abbiamo visto nel capitolo “Alchimia Interiore”, nello yoga si parla di tre canali principali: Il canale centrale, chiamato avadhūtī, khagamukhā, suṣumṇā o taminī viene identificato con la “Mente” ed è la via attraverso la quale l’anima entrerebbe nel corpo al momento della nascita e ne uscirebbe al momento della morte. Lungo questo canale centrale sono situati dei plessi energetici – in 37 Vedi capitolo precedente, “Il Ciclo Nasale”. 101 numero variabile a seconda delle varie scuole, che vengono definiti cakra; A sinistra del canale centrale troviamo il canale “della Luna” chiamato iḍā o lalanā che viene identificato con il principio “Corpo”; A destra troviamo il canale “del Sole” – detto piṅgalā o rāsanā che viene identificato con il principio “Parola”. La relazione con Sole e Luna potrebbe indicare la conoscenza delle influenze dei cicli circadiani nel corpo e non è difficile interpretare “Corpo” con sensazioni/emozioni, e “Parola” con Linguaggio. I due canali, Corpo e Parola, nello yoga tradizionale indiano si incrociano all’altezza del cakra della fronte – il cosiddetto terzo occhio – chiamato Ājñā cakra, ovvero “ruota dell’ordinatrice”. Ājñā cakra 102 Il plesso della fronte – Ājñā cakra – sembrerebbe mostrare delle affinità con il corpo calloso – è bianco come le fibre del corpo calloso, è posto in mezzo ai due emisferi ed ha la funzione di “ordinatrice” ovvero di coordinamento delle informazioni e delle risposte agli stimoli – ma si tratta ovviamente di un’ipotesi indimostrabile; Più interessante per ciò che ci riguarda è il legame tra i due canali ai cicli di Sole e Luna – ritmo circadiano – il loro essere riferiti a “Parola” – linguaggio – e “Corpo” – sensazioni – ed il loro dipendere dal ciclo della respirazione e, quindi, dal ciclo nasale. Sia per la scienza contemporanea che per lo yoga, a quanto sembra di capire, le funzioni dei due emisferi celebrali – i due petali del cakra della fronte? – possono essere stimolate grazie alla decongestione di una narice o dell’altra. Vediamo adesso cosa dice lo Yoga tradizionale sulle pratiche respiratorie conosciute con il nome di prāṇāyāma. 103 PRĀṆĀYĀMA38 Il prāṇāyāma non è solo una “ginnastica respiratoria”, ma una vera e propria tecnica di “Alchimia interiore”. Per semplificare si insegna spesso che il prāṇāyāma è un metodo per controllare le tre fasi respiratorie, ovvero: - Pūraka inteso come inspirazione; - Recaka, inteso come espirazione; - Kumbhaka, inteso come apnea; Ma basta munirsi di un dizionario di lingua sanscrita per rendersi conto che le cose stanno in maniera diversa; In sanscrito “inspirazione” non si dice si dice pūraka, ma आन āna; “espirazione” non si dice recaka ma पान pāna o एतन etana e “Apnea” non si dice kumbhaka ma श्वासरोध śvāsarodha. Nel capitolo “ALCHIMIA INTERIORE” ci siamo riferiti alla fisiologia sottile descritta nel Kālacakratantra, testo basato sui “Sei Yoga di Nāropā. Adesso ci rifaremo alla fisiologia sottile come viene insegnata nello yoga moderno indiano, che differisce in alcuni dettagli – per esempio la struttura dei cakra - da quella del Kālacakratantra. 38 104 पूरक Pūraka letteralmente indica invece, genericamente, l’atto di “riempire” anche nel senso “completare” o “soddisfare” – e quindi come “inspirazione” ci potrebbe anche stare – ma se cerchiamo il significato, per così dire, in “gergo yogico”, ovvero l’uso che se fa nei testi filosofici e nei manuali pratici, vedremo che significa: 1. Flusso39; 2. Palla di cibo offerta alla fine di particolari cerimonie; Raramente, secondo il dizionario Monier– Williams, pūraka può anche indicare una: 3. Pratica yogica che consiste nel chiudere la narice destra con un dito e quindi aspirare aria attraverso la sinistra, poi nel chiudere la narice sinistra e aspirare attraverso la destra. रे चक Recaka, che letteralmente significa “purga”, “svuotamento”, “spurgo”, “catartico” (quindi ci può anche stare come “espirazione”) si trova nei testi classici con i significati di: 1. “Siringa” (uno strumento simile al “flauto di Pan”)40; 2. “Girare in tondo” (in questo caso è usato sinonimo di bhramaṇa), “rivoluzione”, “orbita (di un pianeta)”41; 3. Un particolare passo di danza o un particolare movimento del piede42; Fonte: Bhāgavata Purāṇa. Fonte: Bhāgavata Purāṇa. 41 Fonte: Mahābhārata 42 Fonte: Viṣṇu Purāṇa. 39 40 105 Infine nell’अमृतबिन्दु उपबनषद् amṛtabindu upaniṣad indica: 4. “Uno dei tre prāṇāyāma eseguiti durante saṃdhyā che consiste nell’emettere il respiro da una sola narice”. Per ciò che riguarda il termine कु म्भक Kumbhaka in genere viene usato nell’accezione di: 1. Pentola; 2. Base della colonna; 3. Parte prominente del cranio dell’elefante; Ma in alcuni testi “tecnici”, come il वेदान्तसार vedāntasāra, kumbhaka è usato nel senso di: 4. “Fermare il respiro chiudendo la bocca e chiudendo le narici con le dita della mano destra”. In definitiva non è sbagliato a priori chiamare la inspirazione pūraka, la espirazione recaka e l’apnea kumbhaka, ma indagando sui vari significati delle tre parole e sull’uso del termine prāṇāyāma come “rito da celebrare durante i saṃdhyā, potremmo accedere, probabilmente ad un livello diverso, più “sottile” della pratica. Prāṇāyāma, evidentemente, non ha nello yoga – solo – il significato generico di “fare esercizi respiratori”, ma si tratta di una parte dei rituali da compiere durante le saṃdhyā – parola che indica sia i “tre momenti di passaggio del giorno”, alba, mezzogiorno e tramonto, sia particolari meditazioni (saṃ – dhyai) che hanno come oggetto i soffi vitali – vāyu –che circolano in due dei principali canali – nāḍī – del 106 corpo chiamati iḍā e piṅgala. Le tecniche di prāṇāyāma riguardano quindi sia la respirazione ordinaria, sia un insieme di processi – che, è bene precisarlo, hanno luogo durante i crepuscoli e sono quindi legati ai ritmi circadiani- in cui si percepiscono e “si fanno agire” le “energie sottili”, spesso definite genericamente prāṇa. In questo senso il termine più corretto da usare per questo genere di tecniche sarebbe non prāṇāyāma, ma प्राणसं यम prāṇasaṃyama43, dove saṃyama per lo yogin è una particolare “abilità” che consiste nel saper indirizzare dei flussi energetici o vibrazioni in varie parti del corpo o, si dice, all’esterno del corpo fisico. L’abilità definita saṃyama viene acquisita dopo l’esperienza del samādhi, inteso sia come condizione temporanea sia come condizione acquisita (o stabilizzata) in cui si sperimenta uno stato di coscienza considerato “non ordinario” collegabile alla cosiddetta “risalita di Kuṇḍalinī” e alla “apertura del Terzo Occhio”. 43 Vedi: “Yājñavalkya Smṛti”. 107 I CINQUE SOFFI VITALI Vediamo adesso cosa si intende per energie sottili facendo riferimento ai testi tradizionali; Nell’Agastya Saṁhitā (अगस्त्य संहिता)44, attribuito al ṛṣi Agastya – lo yogin considerato il creatore delle arti marziali del sud dell’India – troviamo a questo proposito dei brani sorprendenti, come quelle che sembrerebbero indicazioni per produrre idrogeno e far volare palloni aerostatici: सं थाप्य मृण्मये पात्रे ताम्रपत्रम् सुसंस्कृतम् छादयेत हिखिग्नीवे नादाा ह िः काष्ठपां सुह िः saṃsthāpya mṛṇmaye pātre tāmrapatram susaṃskṛtam chādayeta śikhignīvenārdābhiḥ kāṣṭhapāṃsubhiḥ II दस्तालोष्ठो हनघातव्यिः पारदाच्छाहदतस्ततिः संयोगात जायते तेजो हमत्रावरुण संहितम् dastāloṣṭho nighātavyaḥ pāradācchāditastataḥ saṃyogāta jāyate tejo mitrāvaruṇa saṃjñitam II अनेन जल ंगोखस्त प्राणोदानेषु वायुषु एवम् ितानाम् कुं ानाम् संयोगिः कायाकृ मृ तिः Il testo integrale è scaricabile gratuitamente a questo link: https://archive.org/details/AgastyaSamhita 44 108 anena jalabhaṃgosti prāṇodāneṣu vāyuṣu evam śatānām kuṃbhānām saṃyogaḥ kāryakṛtsmṛtaḥ II वायु बंधक व ेण हनबद्धो यं मस्तके l उदान : लघु त्वे हब र्त्ाा काि यानकम ll vāyu baṃdhaka vastreṇa nibaddho yaṃmastake l udāna: svalaghutve bibhartyākāśa yānakama II La traduzione di questo brano fatta da alcuni scienziati indiani45 in italiano suonerebbe pressappoco così: "Prendi un vaso di terracotta, stendici un foglio di rame, e mettici il Solfato di rame. Poi, spalma con segatura bagnata, mercurio e zinco. Quindi, se si uniscono i fili, si produrrà una energia (Tejas) chiamata Mitrāvaruṇa. Questo porterà alla scissione dell'acqua in prāṇa vāyu e udāna vāyu. Una catena di un centinaio di vasi produce una forza molto attiva ed efficace. Udāna Vāyu così prodotto può con la giusta tecnica essere immesso in un panno a tenuta d'aria. Così grazie all'azione antigravitazionale di udāna vāyu, è possibile costruire una struttura in grado di volare in aria " Il riferimento alla scissione dell’acqua per produrre idrogeno può sorprendere, ma bisogna considerare che l’Agastya Saṁhitā è parte integrante del Garuḍa Purāṇa – uno dei 18 Mahāpurāṇ – testo forse sottoposto a parziale riscrittura tra il XIX e il XX secolo, che viene datato tra il X e l’XI secolo della nostra era, un epoca in cui l’uso dei palloni aerostatici 45 Vedi: A K Shukla* and T Prem Kumar, “A SHORT HISTORY OF ELECTROCHEMISTRY IN INDIA”. Indian Journal of History of Science, 49.4 (2014) 424-427. (Received 10 June 2014; revised 12 October, 2014) 109 a scopo militare era assai diffuso46; molto più interessante, secondo me è la possibile identificazione di udāna vāyu e prāṇa vāyu – due dei “soffi vitali definiti genericamente prāṇa – con due realtà fisiche ben definite: idrogeno e ossigeno. Vediamo adesso come vengono definite le “energie sottili” in un altro testo, adesso, il हववेकचूडामहण Vivekacūḍāmaṇi, trattato medioevale attribuito ad आहद िङ्कराआचाया Ādi Śaṅkarācārya (nella versione anglofona “Shankara”)47; Versetto 95: प्राणापानव्यानोदानसमान वर्त्सौ प्राणिः I मेव वृ हि ेदाहवकृहत ेदात्सुवणासहललाहदवत् II prāṇāpānavyānodānasamāna bhavatyasau prāṇaḥ I svameva vṛttibhedāvikṛtibhedātsuvarṇasalilādivat II “Lo stesso prāṇa diviene prāṇa, apāna vyāna, udāna, samāna in accordo alle loro funzioni [o secondo le modificazioni che subisce] come [avviene per] l'oro, per l'acqua.” Se consideriamo il prāṇāyāma –o meglio prāṇasaṃyama – non una serie di esercizi di respirazione, ma una pratica, tra virgolette, “alchemica”, potremmo comprendere più profondamente il suo significato e le sue valenze “operative”. Nella tradizione indiana, cui lo yoga fa riferimento, ci sono in dieci tipi di prāṇa o vāyu (quattordici secondo alcuni), ma in questa breve descrizione parleremo solo dei cinque Vedi l’uso documentato di mongolfiere di carta, lanterne Kongming per segnalazioni militari, nella Cina del III secolo d.C. 47 Il testo integrale è scaricabile a questo link: https://estudantedavedanta.net/VivekaChudamani-of-Sri-Shankaracharya.pdf 46 110 “soffi” principali, analizzandone le funzioni, il ritmo e le direzione: - Prāṇa "domina" la zona che va dal naso al cuore ed è in rapporto con la parola, il cuore ed i polmoni. È caratterizzato da un “ritmo alternato”, e disegna una specie di doppia spirale su un piano orizzontale facilmente sintonizzabile con il ritmo respiratorio; una delle sue funzioni è appunto la respirazione. Lo si collega solitamente al V° cakra (viśuddhi cakra, plesso della gola). - Vyāna è l'energia vitale che pervade tutto l'organismo. È il "tipo" di prāṇa che circola uniformemente nelle nāḍī. Segue i ritmi cosmici di giorno e notte. La sonnolenza e il risveglio possono essere considerati sue funzioni. Si espande e si ritrae. Ed è collegabile al IV° cakra (anāhata cakra, plesso cardiaco). - Samāna domina la parte del corpo che va dal cuore all’ombelico) e riguarda il nutrimento e l'assorbimento del cibo. È collegato allo stomaco e al III° cakra (maṇipūra cakra, plesso dell’ombelico). La secrezione è una delle sue funzioni e si potrebbe visualizzare come un movimento su un piano orizzontale, dall'esterno all'interno e viceversa. - Apāna è il prāṇa dell'intestino. La sua funzione è la escrezione e riguarda la parte del corpo che va dallo stomaco ai piedi, collegabile al II° e al I° cakra (svadhiṣṭhāna cakra e mūlādhāra cakra). È visualizzabile come un movimento verticale discendente, dall'alto verso al basso. 111 - Udāna si trova tra il naso e la fontanella ed è in rapporto con il VI° cakra (ājñā cakra), con il naso, gli occhi e il cervello. È visualizzabile come un movimento verticale verso l'alto. Udāna è l'energia che porta lo sperimentatore “fuori dal corpo” (ovvero oltre la percezione del corpo fisico) durante il samadhi e dopo la morte. È responsabile del movimento degli occhi verso il centro della fronte (Śāmbhavī mudrā) I cinque prāṇa sono in rapporto tra di loro e, secondo lo yoga la consapevolezza del movimento ascendente di udāna avrebbe la possibilità di reindirizzare tutte le aree vitali del corpo. Questo cambiamento di direzione dei soffi vitali – che pare essere in relazione con ciò che nell’Alchimia occidentale veniva definito “rettificazione mercuriale”, una inversione del flusso del mercurio, inteso come energia vitale - viene rappresentato “simbolicamente” dal cambio di direzione, dal basso in alto, dei petali del fiore di loto che rappresenta graficamente il cakra del cuore. Il “loto del cuore”, a differenza degli altri cakra, è infatti rappresentato con i petali verso il basso, a significare la discesa dell’energia vitale – le tre gocce di ojas poste nel cuore al momento della nascita – dall’alto verso il basso. La durata della vita umana sarebbe scandita dal progressivo consumarsi dell’energia vitale – ojas – per cui la “rettificazione mercuriale”, intesa come cambio di ritmo e direzione dei soffi vitali, provocherebbe una inversione, si suppone temporanea, del processo di utilizzazione dell’energia vitale. 112 Secondo lo Yoga tutti i processi psicofisici possono essere considerati come il prodotto dell'azione combinata dei vari prāṇa. Il praticante potrà osservare e analizzare in base alla teoria dei soffi vitali, il processo dell'eccitazione sessuale, o dell'addormentarsi o dello starnutire o dello sbadigliare fino a percepire i diversi ritmi e funzioni dei prāṇa e infine, ad indirizzarli sia all'interno sia –si dice –all’esterno del corpo. Per favorire la percezione dei “cinque venti” estremamente “sottile” ma non immaginaria – nel senso che si tratta di una percezione oggettiva, fisica – nello yoga si utilizzazione tecniche di visualizzazione in cui si chiede al praticante di immaginare i soffi vitali come fluidi densi come il mercurio liquido, con colori e caratteristiche diversi: - Il Prāṇa ad esempio lo si visualizza come un fluido di colore blu zaffiro essenzialmente diretto verso l'interno; - Apāna è scuro (color "nuvola del tramonto") e il suo movimento è discendente; - Udāna è color del fuoco e il suo movimento è ascendente; - Samāna è color bianco latte e la sua azione è quella propria del “solvi et coagula”; - Vyāna è color argento ed è onnipervadente. Tutti i soffi - detti sia genericamente prāṇa sia vāyu - hanno natura "rajasica" in quanto si fanno derivare dalla porzione rajasica di ognuno dei cinque elementi sottili o tanmātra, ovvero: - Suono; Udāna 113 - Tangibilità; Prāṇa Luce/forma; Samāna Sapore; Vyāna Odore; Apāna. Per ciò che riguarda le modalità operative per realizzare la cosiddetta “risalita di kuṇḍalinī” e “apertura del Terzo Occhio”, si può dire che lavorando sulle energie sottili lo yogin, re-indirizzando i cinque vāyu provocherebbe l’attivazione di due altri soffi vitali – considerati una modificazione di apāna vāyu – definiti “portatori di bastone” e percepibili come due “tensioni” parallele all’asse verticale del corpo nella zona dello stomaco e del ventre, Grazie alle modificazioni – biochimiche e posturali – create da questi due “soffi” od “energie”, kuṇḍalinī viene “attratta dall’alto” e dopo aver girato in senso anti– orario nella zona del perineo risale lungo il canale centrale della colonna vertebrale dove, secondo la fisiologia yoga, si celerebbero sūrya svarūpa –la “vera forma del Sole” – e candra svarūpa – la "vera forma della Luna”, Sūrya svarūpa e candra svarūpa rappresentano probabilmente l’insieme delle informazioni celate nel patrimonio genetico del praticante – il “fattore terreno” rappresentato dalle 50 sillabe dell’alfabeto sanscrito inscritte nei petali dei sei cakra tradizionali dello yoga moderno – e nei raggi della creazione “deposti al momento della nascita nei cakra” - il fattore celeste rappresentato dai 360 marīci provenienti dalle 27 case lunari: dette nakṣatra. 114 Trasportate e vitalizzate dall’energia di kuṇḍalinī – che potremmo definire tejas svarūpa o vera forma del fuoco – le due “correnti di informazioni” arrivano alla coscienza con la conseguenza di rendere effettivi tutti i talenti e le abilità dell’essere umano rimaste fino a quel momento allo stato potenziale. Il lavoro preparatorio a questo processo energetico è lo scioglimento dei blocchi – fisici, emotivi e mentali – che normalmente impediscono la risalita di kuṇḍalinī - chiamata altrove “apertura del Terzo Occhio” - uno scioglimento che può avvenire tramite la pratica delle purificazioni e degli āsana, delle mudrā, dei bandha e dei mantra, a patto che questi – āsana, mudrā, bandha e mantra – vengano eseguiti con la consapevolezza della circolazione dei soffi vitali acquisibile solo mediante il prāṇasaṃyama, strumento indispensabile per la vera pratica dello yoga. 115 CONCLUSIONE: Lo Haṭḥayoga Cosa è, quindi il “Terzo Occhio”? La ghiandola Pineale? La Pituitaria? Il “Corpo Calloso”? Il controllo dei “Soffi Vitali”? Probabilmente, al di là delle “sciocchezze blavatskyane e post blavatskyane” cui accennava Agehananda Bharati, non si tratta di un organo fisico – o almeno non solo di un organo fisico – ma di una condizione del corpo umano raggiungibile attraverso la pratica alchemica definita Haṭḥayoga. Lo Haṭḥayoga, così come il Qi Gong Nei dan che probabilmente dallo Haṭḥayoga deriva –è infatti una pratica di Alchimia Interiore finalizzata alla modificazione di processi naturali del corpo e all’utilizzazione di una o più sostanze chiamate “Amṛta” o “Soma”: queste sostanze vengono prima accumulate nel corpo e poi utilizzate per ottenere il ringiovanimento, l’aumento della vitalità e della resistenza alle malattie ed in genere uno stato di costante beatitudine - Ānanda – che allontana l’essere umano dalla sua innata ansia di incompiutezza. La percezione e l’utilizzazione di Amṛta, secondo 116 gli yogin medioevali, è accompagnata dall’insorgere di particolari abilità fisiche e psichiche – siddhi – come l’acquisizione di una forza sovrumana, la capacità di comprendere e parlare tutte le lingue, o il potere di attrarre sessualmente ogni persona dell’altro sesso. Queste “abilità”, che nella nostra epoca vengono considerate suggestioni da film di fantascienza, per gli autori indiani di epoca medioevale e moderna – dall’XI al XVIII secolo - erano i frutti ordinari della pratica dello Haṭḥayoga; si legge ad esempio nel Gorakṣa Paddhati (X-XI secolo): (G.P. 2.48) “Se la lingua [di uno yogin] tocca costantemente l'apice dell'ugola, provocando il flusso di un succo [Amṛta} che [può avere] sapore salato, caldo o acido e (può essere simile al] latte, miele o burro chiarificato [avrà luogo] la scomparsa delle malattie, l'annientamento della vecchiaia, la recitazione [spontanea] degli śāstra e degli agama [ovvero i testi di insegnamento tradizionali], l'immortalità connessa con le otto [siddhi], e si attrarranno irresistibilmente le “donne perfette.”48 Testo in sanscrito: चुम्बन्ती यदि लम्बम्बकाग्रमदिशं दिह्वा रसस्यम्बििी सक्षारं कटु काम्लिु ग्धसदृशं मध्वाज्यतुल्यं तथा | व्याधीिां हरणं िरान्तकरणं शास्त्रागमोद्गीरणं तस्य स्यािमरत्वमष्टगुदणतं दसद्धाङ्गिाकर्ष णम् || ४८ || cumbantī yadi lambikāgram aniśaṃ jihvā rasa-syandinī sa-kṣāraṃ kaṭukāmla-dugdha-sadṛśaṃ madhv-ājya-tulyaṃ tathā | vyādhīnāṃ haraṇaṃ jarānta-karaṇaṃ śāstrāgamodgīraṇaṃ tasya syād amaratvam aṣṭa-guṇitaṃ siddhāṅganākarṣaṇam || 2.48 || 48 Traduzione letterale: cumbantī : toccato, baciato; yadi: se; lambika: palato/ugola; agram: l'estremità, la "punta"; aniśam : costantemente, senza fine; jihvā: la lingua; 117 Il Gorakṣa Paddhati non è un caso isolato: dal IX al XVII secolo vengono scritti e diffusi decine di manuali di Haṭḥayoga,-sia hindu sia buddhisti, in cui si descrivono i processi di produzione e utilizzazione dell’Amṛta e la conseguente acquisizione di poteri psichici quali “normali” conseguenze del percorso yogico. Ciò, ovviamente, non significa che gli eventi straordinari promessi o descritti da quei testi corrispondano alla realtà, e in un’epoca come la nostra affollata da falsi maghi e prestigiatori mascherati da guru, è lecito sospettare che quello del “Terzo Occhio” – e dei poteri che deriverebbero dalla sua “apertura” - sia un mito o una favola da raccontare nelle sere d’inverno, né più né rasa: succo, estratto, elisir; syandinī: Flusso; kṣāram: salato; kaṭukāmla-dugdha-sadṛśam : simile a caldo o acido (gusto o latte paragonabile a…; madhu: miele; ājya: burro chiarificato; tulyam: come; tathā : allo stesso modo; vyādhīnām : (le sue) malattie haraṇam: scomparsa, distruzione; jara: vecchiaia; antakaraṇam: l'annientamento, processo che pone fine; śāstra: scritture tradizionali; agama: manuali tantrici, a volte i veda; udgīraṇam: il racconto, la recitazione; tasya: questo; syāt: è (concesso); amaratvam : immortalità, divinità; aṣṭa: otto; guṇitam: connesso con; siddhāṅgana: donna perfetta, femmina perfetta; akarṣaṇam: l'attrazione irresistibile; 118 meno di certe miracolose guarigioni e trasformazioni che riempivano le cronache dell’Europa medioevale. L’unica possibilità per sciogliere i dubbi, secondo noi, sarebbe quella di verificare personalmente gli effetti delle pratiche descritte negli antichi testi di Haṭḥayoga. Ma cosa è lo Haṭḥayoga? Si tratta di una domanda tutt’altro che futile. Nel corso della mia ormai cinquantennale esperienza di praticante e insegnante, ho assistito ad una progressiva modificazione delle tecniche, della nomenclatura e, addirittura, della maniera stessa di intendere lo Yoga. Quando ho iniziato a praticare ad esempio, difficilmente si parlava di stili o di scuole: facevamo “Yoga”, senza suffissi e prefissi, una disciplina psicofisica basata su un numero limitato di “Tecniche di purificazione” - definite Ṣaṭkriyā, Ṣaṭkarma o semplicemente Kriyā, brevi sequenze, fondate su un numero limitatissimo di āsana, e soprattutto su una intensa pratica che noi definivamo di meditazione, che consisteva in genere nel sedersi a gambe incrociate o in ginocchio, aspettando il vuoto mentale o effetti luminosi mentre venivamo guidati in tecniche di visualizzazione e di controllo della respirazione accompagnate dalla recitazione –mentale o “borbottata”, di mantra e sillaba seme. Rispetto all’incredibile varietà di tecniche e posture e alla complessità delle teorie filosofiche – o sarebbe meglio dire “delle interpretazioni filosofiche” - che vengono proposte oggi, si trattava di una pratica abbastanza elementare. La differenza tra quello yoga, per me, delle origini e lo yoga odierno si nota soprattutto nel numero degli āsana; le posture che studiavamo all’epoca, che chiamavamo quasi sempre con i loro nomi in italiano, erano non più di dieci/quin- 119 dici. A questo nucleo di base alcuni aggiungevano le varianti, ma in genere, dopo una serie di esercizi di scioglimento e di allungamento, si praticavano sempre le medesime posizioni: 1. Posizione del “Loto”, con le sue varianti (“mezzo loto”, Loto legato ecc.); 2. Posizione in ginocchio, simile al seiza giapponese, con le sue varianti (talloni in contatto con gli ischi, piedi ai lati delle cosce, schiena allungata indietro o rilassata in avanti ecc.); 3. Posizione del “Cobra”, con le sue varianti (braccia tese, braccia a 45°, braccia appoggiate sui glutei, punte dei piedi a terra, dorso del piede appoggiato a terra…tutte posizioni che chiamavamo “Cobra”); 4. Posizione della “Locusta”, con le sue varianti; 5. Posizione dell’Arco, con le mani alle caviglie e il dondolio ritmico a ritmo della respirazione; 6. Posizione della Spaccata sia sagittale sia frontale sia in equilibrio sugli ischi, accompagnata dagli allungamenti che oggi chiamiamo Paschimottanāsana e Janu shirshāsana); 7. Posizione del “Ponte”, con le sue varianti (appoggio sulle spalle, sulla testa o sulle braccia); 8. Posizione in “Verticale” – definizione nella quale facevamo rientrare tutte le varianti della verticale sulla testa, la verticale sui gomiti (“Scorpione”) e la verticale sulle braccia – preceduta dall’Aratro e dalla “Candela”; 9. Posizioni in torsione, tra cui “Matsyendrāsana”, che facevamo prima di salire in piedi per “sistemare” la colonna vertebrale; 120 10. Posizione in piedi, che assumevamo passando per “Uttanāsana” e trasformavamo in posizioni di equilibrio, di solito l’Albero”, che consideravamo una specie di test, dato che eravamo convinti che una buona pratica aumentasse l’equilibrio. Dopo la pratica fisica, che riguardava di solito non più di due o tre delle dieci posizioni con le loro varianti e i movimenti preparatori, ci sdraiavamo nella posizione del “Cadavere” e dopo cinque dieci minuti di rilassamento profondo praticavamo “lo Yoga”, ovvero meditavamo cercando di sospendere il respiro e di mantenere la lingua sul palato o, i più esperti, a contatto con il palato molle e aspettavamo l’insorgere di “effetti luminosi” e del “suono interiore”, la cui percezione, secondo i miei istruttori, si sarebbe accompagnata alla discesa nel palato di un liquido dolce: l’Amṛta. Se pensiamo ad esempio alle più di 200 posture insegnate da Iyengar49 o all’assenza, nella mia antica pratica, del Saluto al Sole, ripetuto – nelle sue varianti – fino a 108 volte in alcune scuole, bisogna ammettere che si trattava di un lavoro elementare, tanto è vero che, per colmare le mie lacune, a partire dal 2000, mi sono impegnato per imparare decine e decine di posizioni e sequenze diverse, e centinaia di definizioni in sanscrito. Poi, poco tempo fa mi è capitato di leggere una versione in inglese – credo sia la prima traduzione in una lingua occidentale, o comunque una delle prime, di questo testo - del Gorakṣa Paddhati (गोरक्षपद्धहत), il “Sentiero di Gorakṣa” detto 49 Vedi: B,K,S, Iyengar, “Teoria e Pratica dello Yoga”, Edizioni Mediterranee. 121 anche Gorakṣa Saṃhitā (गोरक्ष संहिता) o “Raccolta di Gorakṣa”, che descrive una pratica ancora più “elementare” di quella che ha caratterizzato gli inizi della mia “carriera” di yogin Il Sentiero di Gorakṣa consiste in una raccolta di versi, divisi in due sezioni chiamate in sanscrito śataka - 100, “un centinaio – e attribuiti allo yogin Gorakṣanāth o Gorakhnāth, considerato il fondatore dello Haṭḥayoga. Si tratta probabilmente del più antico testo di Haṭḥayoga giunto ai nostri giorni, ed i suoi insegnamenti potrebbero essere la base di tutti o quasi i manuali di yoga scritti nelle epoche successive. Cosa insegna Gorakṣa? Poche posizioni di facile esecuzione, descritte dettagliatamente, un numero limitato di bandha, due o tre tecniche di ritenzione del respiro, alcune visualizzazioni e la ripetizione di sette suoni finalizzata all’ascolto del suono interiore e alla discesa dell’Amṛta. A leggere quello che sembra essere il primo manuale di Haṭhayoga che sia stato scritto – e comunque il più antico che sia arrivato fino ai nostri giorni – la mitica “apertura del Terzo Occhio” non pare certo un traguardo irraggiungibile; basterebbe, secondo l’autore, dedicarsi completamente alla pratica dello Haṭhayoga un periodo non lunghissimo della nostra vita; Si parla di infatti di: - Tre mesi per purificare completamente i canali sottili del corpo; - Sei mesi per allontanare per sempre tutte le malattie; - Sei mesi per acquisire la conoscenza assoluta; 122 In un anno e tre mesi di esercizi fisici e di visualizzazioni non di difficilissima esecuzione, secondo Gorakṣa, uno yogin raggiungerebbe la condizione di “Siddha”, in altre parole l’apertura del “Terzo Occhio”. Sarà vero? Basterebbe provare per saperlo, e decidere di dedicare completamente allo yoga, 24 ore al giorno, per quindici mesi della nostra vita. Se pensiamo che grazie alle pratiche, di non eccessiva difficoltà, descritte nel Gorakṣa Paddhati, si potrebbero ottenere la mitica apertura del Terzo Occhio e poteri paragonabili a quelli dei super eroi Marvel si tratterebbe di un ben piccolo sacrificio, ma siamo sicuri di volerlo veramente? Se le istruzioni del Paddhati Gorakṣa non funzionassero cadrebbe una volta per tutte, almeno per noi, il mito del “Terzo Occhio”, e perdere illusioni e speranze non è mai una bella cosa. Se, al contrario, la “Grande Opera” avesse successo, dovremmo dare l’addio a tutto ciò che è stata la nostra vita fino a quel momento – i testi sono chiari in proposito – e ricordi, affetti, speranze, sogni e, soprattutto, quel concetto di individualità che in Occidente è sacro svanirebbero come la nebbia al primo sole. Fare davvero yoga significa tendere alla realizzazione di uno stato di non dualità, uno stato in cui non esiste più differenza tra Io e l’altro da me, tra noi e la Natura. Pensiamoci: una cosa è parlare sui social o alle cene tra amici dello Stato di Flow, dell’abbandono alle leggi della natura e dell’anni- 123 chilimento dell’Ego; un’altra è la perdita della coscienza individuale o – come lo definiva Osho – il “disciogliersi nell’Oceano dell’Esistenza”. Supponiamo che le istruzioni di un testo come quello di Gorakṣa conducano davvero al’ ’Illuminazione”: siamo sicuri di volerla davvero? Un sorriso, P. 124 125 TESTI DI RIFERIMENTO 1. Il Gorakṣa Paddhati (गोरक्षपद्धहत) – “Sentiero di Gorakṣa” – detto anche Gorakṣa Saṃhitā (गोरक्ष संहिता) – “Raccolta di Gorakṣa” – consiste in una raccolta di circa 200 versi divisi in due sezioni chiamate in sanscrito śataka - 100, “un centinaio” – attribuita allo yogin Gorakṣanāth o Gorakhnāth, considerato il fondatore dello Haṭḥayoga50. Dato che i più importanti manuali di Haṭḥayoga conosciuti ai nostri giorni sono sostanzialmente degli estratti del “Sentiero di Gorakṣa" – come le due versioni del गोरक्षितक Gorakṣa Śataka, lo योगमाताण्ड Yoga Mārtaṇḍa, il हववेकमाताण्ड Viveka Mārtaṇḍa, la योगचूडामण्युपहनषद् Yoga Cūḍāmaṇy Upanisad – o ne citano i versi e la descrizione delle tecniche – िठयोगप्रहदहपका Haṭha Yoga Pradīpikā e घेरण्ड संहिता Gheraṇḍa Saṃhitā – si può supporre che il “Gorakṣa Paddhati” sia il più antico testo di Haṭḥayoga giunto ai nostri giorni. Nello Haṭha Yoga Pradīpikā di Svātmārāma, ad esempio, dopo aver citato due volte il nome di Gorakṣa all’inizio del testo – vedi H.Y.P. 1. 4-5) – l’autore cita gli insegnamenti del Gorakṣa Paddhati nel IV capitolo, a proposito della “meditazione sul Suono interiore” o अनाितनाद Anāhata Nāda (H.Y.P. 4. 65): aśakya-tattva-bodhānāṃ mūḍhānām api saṃmatam | proktaṃ gorakṣa-nāthena nādopāsanam ucyate || 4.65 || 50 La versione cui facciamo riferimento è quella di Swami Vishnuswaroop pubblicata da “Divine Yoga Institute, Kathmandu 2017” (https://www.amazon.it/Goraksha-Samhita-Known-Paddhati-Englishebook/dp/B00QTCGI7W), Revisionata secondo l'edizione di Laxmi-Venkateshwar Press, Bombay 126 “Adesso viene spiegato il metodo di meditazione sul suono interiore (nādopāsamna) insegnato da Gorakṣa Nāth che è stimato (saṃmatam) anche (api) dagli ignoranti (mūḍhā) per i quali la conoscenza della Realtà (tattva) è impossibile (aśakya)” 2. Amṛtasiddhi (https://en.wikipedia.org/wiki/Amṛtasiddhi) 3. Il Dattātreyayogaśāstra testo vaisnava probabilmente composto nel XIII secolo d.C., descrive un ottuplice yoga identico agli “Otto Passi” di Patañjali, che l’autore attribuisce a Yajñāvalkya e ad altri, nonché otto mudrā che si dice siano state ideate dal rishi Kapila e da altri ṛishi. Il Dattātreyayogaśāstra descrive: mahāmudrā, mahā-bandha, khecarīmudrā , jālandharabandha , uḍḍiyāṇabandha, mūlabandha , viparītakaraṇī, vajrolī, amarolī e sahajolī; 4. Il Vivekamārtaṇḍa contemporaneo al Dattātreyayogaśāstra, descrive nabhomudrā (cioè khecarīmudrā), mahāmudrā, viparīta-karaṇī e i tre bandha. Descrive anche sei Cakra e il risveglio di Kuṇḍalinī per mezzo dello "yoga del fuoco" (vahniyogena). 5. Goraksaśatakạ, un testo Nāth dello stesso periodo, insegna śakticālanīmudrā (definita “stimolazione di Sarasvatī”) insieme ai tre bandha. La "stimolazione di Sarasvatī" viene eseguita avvolgendo la lingua in un panno e tirandola, stimolando la dea Kuṇḍalinī che si dice dimori all'altra estremità del canale centrale. 6. Śārṅgad ̄ har̄ apaddhati, un'antologia di versi compilata nel 1363, descrive l'Haṭha yoga, inclusi gli insegnamenti di Dattātreyayogaśāstra sulle cinque mudrā. 7. Khecarīvidyā descrive solo il metodo di khecarīmudrā, che ha lo scopo di dare accesso alle riserve di amrta nel corpo e di elevare Kuṇḍalinī tramite “la penetrazione dei sei cakra”. 8. Yogabīja descrive tre bandha e śakticālanīmudrā allo scopo di risvegliare Kuṇḍalinī. 127 9. Amaraughaprabodha descrive tre bandha come l'Amṛtasiddhi e lo Yogabīja; 10. Śivasamhitā. Insegna tutte e dieci le mudrā insegnate nelle opere precedenti così come le pratiche Śākta come la ripetizione dello Śrīvidyā mantrarāja e l'adozione della posizione yonimudrā; il suo scopo è il risveglio di Kuṇḍalinī in modo che perfori vari fiori di loto e nodi mentre sale verso l'alto attraverso il canale centrale. 11. Haṭhayogapradīpikā è uno dei testi più influenti dell'Haṭha yoga. Fu compilato da Svātmārāma nel XV secolo d.C. Il testo elenca 35 grandi siddha a partire da Adi Natha, trai quali Matsyendranath e Gorakshanath. Include informazioni sugli Ṣatkarma (sei purificazioni), 15 Āsana pranayama (respirazione) e kumbhaka (ritenzione del respiro), mudrā (pratiche energetiche interiorizzate), meditazione, cakra (centri di energia), nadanusandhana e tecniche sessuali. 12. Amaraughasāsana è un manoscritto di Sharada che viene citato e copiato nel 1525 d.C. Frammenti di questo manoscritto sono stati trovati anche vicino a Kuqa nello Xinjiang (Cina). Il testo discute khecarimudrā, ma lo chiama saranas . Collega la posizione accovacciata utkatāsana, piuttosto che l'uso delle mudrā e con il risveglio di Kuṇḍalinī. 13. Haṭha Ratnavali è un testo del XVII secolo che afferma che l'Haṭha yoga consiste di dieci mudrā, otto metodi di pulizia, nove kumbhaka e 84 Āsana. 14. Haṭhapradip ̄ ikā Siddhantamuktavali è un testo dell'inizio del XVIII secolo che amplia lo Haṭhayogapradipikạ aggiungendo istruzioni pratiche e citazioni di altri testi. 15. Gheraṇḍa samhitā è un testo del XVII o XVIII secolo che presenta l'Haṭha yoga come "ghatastha yoga". Descrive sei metodi di purificazione, trentadue āsana, 25/26 mudrā e dieci pranayama. 128 16. Jogapradīpikā un testo in lingua Braj del XVIII secolo di Ramanandi Jayatarama che presenta l'Haṭha yoga semplicemente come "yoga". Descrive sei tecniche di purificazione, 84 āsana, 24 mudrā e otto kumbhaka. LO YOGA DEI NATH िठ haṭhayoga letteralmente “yoga della forza”, “yoga della potenza” o “yoga dello stupro” si intende un sistema di tecniche fisiche51 finalizzate: 1. Al raggiungimento e al mantenimento della salute; 2. Al ringiovanimento e alla longevità; 3. All’ottenimento di poteri psichici denominati “siddhi”; 4. All’illuminazione – o “apertura del Terzo Occhio” - intesa come realizzazione dello “stato naturale” – “Sahaja” - definito talvolta come “liberazione dalla catena delle rinascite” o identificazione con un Principio Assoluto o una divinità. In genere lo Haṭhayoga si pone come insieme di tecniche che hanno il fine di “risvegliare “Kuṇḍalinī” intesa come energia primaria della manifestazione o –vedi Gopi Krishna – “intelligenza della manifestazione”. Le tecniche per risvegliare Kuṇḍalinī si basano principalmente sull’utilizzazione dell’Amṛita – detto anche Soma - parola che si può tradurre con “nettare”, “Ambrosia” od “Elisir” e che indica il principio, o meglio, l’essenza della vita dell’essere umano. L’ Amṛita esprime la sua azione attraverso l’energia maschile, Bindu che si può intendere anche come “seme” - e l’energia femminile – Raja- inteso come sangue mestruale. 51 Vedi: Mallinson, James (2011). Knut A. Jacobsen ed altri autori; “Haṭha Yoga” in Brill Encyclopedia of Hinduism, Vol. 3. Brill Academic.ISBN 978-90-0427128-9. 129 Bindu e Raja, quando si parla di fisiologia sottile, sono presenti sia nel corpo della donna sia nel corpo dell’uomo: lo sperma e i fluidi genitali femminili emessi durante il rapporto sessuale, ad esempio sono definiti entrambi Śukra – “sperma” e vengono prodotti da “Bindu”; Raja –inteso anche come sangue mestruale – è invece la “fonte” della pelle (tvac) e del sangue (rakta). Secondo lo Haṭhayoga - semplificando - durante la vita dell’essere umano il “seme” discende dalla “Luna” - posta a seconda delle diverse scuole nel plesso della fronte, sopra il palato o in corrispondenza della fontanella superiore –e discende nel sole –posto nel plesso dell’ombelico o sotto di esso – dove viene utilizzato - e quindi consumatocome “carburante” dei processi vitali. Questa discesa è scandita dal ritmo del sole e della Luna, ovvero dalla circolazione delle energie nei due canali - Nāḍī - di destra e di sinistra del corpo, chiamati Piṅgalā e Iḍā. Questi due canali sono soggetti a consunzione per cui quando, a causa del deterioramento dei canali, le energie cominciano a circolare troppo velocemente o troppo lentamente in uno dei due, sopraggiungono la malattia, la vecchiaia e la morte. Per accedere all’energia illimitata di Amṛita ed “ingannare la morte” lo Haṭḥayogin deve “invertire il processo naturale, ovvero impedire al “seme lunare” di “discendere fino al sole”; in altre parole deve arrestare la circolazione ordinaria delle energie chiudendo i due canali laterali - Piṅgalā e Iḍā - ed attivare la circolazione “Non ordinaria” nel canale centrale detto Avadhūtī o Suṣumṇā - identificato con la colonna vertebrale, asse centrale del corpo. Il percorso per ottenere l’inversione del processo naturale – detto a volte “inversione dell’acqua e del fuoco” – si articola in genere in “sei passi o membra” - Ṣaḍaṅgayoga – preceduti da pratiche di purificazione sia interne definite le “sei azioni”, Ṣatkarma o Ṣaṭkriyā. 130 ṢAṬKRIYĀ 1. Netī - Lavaggio delle narici con acqua salata. 2. Dhautī - pulizia-con aria, acqua e vari strumenti, degli intestini, dei denti, del palato, della lingua, degli intestini, dell’esofago; 3. Naulī - automassaggio degli organi interni grazie all’utilizzazione dei muscoli addominali; 4. Basti – lavaggio del colon mediante un tubo o grazie al controllo dei muscoli dello sfintere anale. 5. Kapālabhātī - purificazione del cranio, letteralmente “luce nel cranio” o “lucidatura del cranio” che consiste in una serie di espirazioni forzate, energiche e veloci, seguite da inspirazioni involontarie; 6. Trāṭaka – Purificazione degli occhi che consiste nel fissare lo sguardo su un punto fisso, un oggetto o la fiamma di una candela. ṢAḌAṄGA 1. Āsana – una serie di posture, per lo più sedute, -accompagnate da gesti e movimenti di vario genere, fissate in un numero totale di 84, che hanno lo scopo principale di allontanare le malattie e mantenere il corpo giovane. La pratica degli Āsana collegata a quello delle Mudrā e dei Bandha, parole che in alcuni testi possono essere usate con lo stesso significato; 2. Prāṇasaṃrodha (Prāṇāyāma) – letteralmente “bloccare il Prāṇa”, generalmente tradotto con “controllare il Prāṇā”. Esercizi di ritenzione del respiro collegati a particolari visualizzazioni e alla recitazione mentale di mantra e Bīja Mantra (lettere seme); 3. Pratyāhāra – Nello Haṭḥayoga significa “ritiro dei sensi dagli oggetti di senso”, ma può essere inteso come “trattenere il nettare interiore”; 131 4. Dhāraṇā – Concentrazione, intesa come visualizzazione della circolazione del “seme”, in vari punti del corpo; 5. Dhyāna – Meditazione, evoluzione di Dhāraṇā con la visualizzazione dei simboli degli elementi – quadrato, mezzaluna, triangolo, sfera o esagono, e uovo – di vari colori e sillabe dell’alfabeto sanscrito. 6. Samādhi – Assorbimento, fase finale della pratica. Per intraprendere i “sei passi dello Yoga” - Ṣaḍaṅgayoga – il praticante deve conoscere: I Cakra – talvolta in numero di sei e talvolta in numero di nove; 2. Gli Ṣoḍaśādhāra (16 ādhāra) - punti o pilastri di meditazione di cui fanno parte anche i cakra; 3. I Trilakṣya – ovvero le “tre modalità di visualizzazione; 4. I Vyoma kam – Le “cinque stanze” o “cinque vuoti”. 1. NOVE CAKRA DEI NATH 1. Brahmā Cakra - corrisponde al Mūlādhāra Cakra; 2. Svādhiṣṭāna Cakra " – “centro di supporto del sé", “la sua propria dimora”; 3. Nābhi Cakra "centro dell'ombelico"; 4. Hṝdayādhāra "centro del cuore"; 5. Kaṇṭha Cakra "centro della gola"; 6. Tālu Cakra "Centro del palato"; 7. Bhrū Cakra – “Centro tra le sopracciglia" corrisponde ad Ajñā Cakra; 8. Nirvāṇa Cakra corrisponde al Brahmārandhra; 9. Ākāṣa Cakra "centro dello spazio". 132 SEDICI ĀDHĀRA I sedici ādhāra ("supporti" o punti di concentrazione) sono elencati nel Siddha Siddhanta Paddhati nel seguente ordine (2.10-25): 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. Pādāṅguṣṭhādhāra - "centro dell'alluce”; Mūlādhāra - "radice, centro base"; Gudādhāra -"sopra il centro base" Medhrādhāra - "centro del pene", corrisponde per alcuni al Svādhiṣṭāna Cakra; Odyanādhāra – in relazione con Uddiyana Bandha (sotto l’ombelico); Nabhyādhāra "centro dell'ombelico" - corrisponde al Manipura Cakra; Hṝdayādhāra - "centro del cuore", corrisponde ad Anahata Cakra; Kaṇṭhādhāra - "centro della gola", corrisponde al Vishuddha Cakra; Ghantikādhāra - "centro dell'ugola”; Talvādhāra - "Centro del palato”; Jihvādhāra - "centro della lingua"; Bhrūmadhyādhāra -"centro delle sopracciglia", corrisponde ad Ajñā Cakra Nasādhāra - "centro della punta del naso"; Kavatādhāra - letteralmente "centro dell'ala della porta", cioè "centro della radice del naso" (Nasamula); Lalatādhāra - "centro della fronte" o “centro del palato”; Ākāṣa Cakra - "centro spaziale" (corrispon-de a Brahmārandhra (Fontanelle) o a Sahasrara Cakra. 133 TRILAKṢYA Tre modalità di visualizzazione 1. Antarlakṣya: "dentro", dentro il corpo, ovvero organi interni ecc. 2. Bahirlakṣya: "fuori", fuori dal corpo ovvero sia oggetti esterni – statue, grafici ecc. – sia la punta del naso, le mani, ecc.; 3. Madhyama Lakṣya: "neutro, medio", cioè né interiormente né esternamente: si visualizzano un certo colore o una forma geometrica o un simbolo grafico senza localizzarlo né nel corpo né all’esterno. LE CINQUE STANZE (VYOMA PAÑCAKA) Nel Siddha Siddhanta Paddhati 2.30 sono cinque (Pañcaka) stanze (Vyoman): 1. 2. 3. 4. 5. Ākāṣa, "spazio"; Parākāṣa, "spazio supremo"; Mahākāṣa, "grande spazio"; Tattvākāṣa, "spazio della realtà” o “spazio del principio”; Suryākāṣa "spazio del sole". Il Siddha Siddhanta Paddhati fornisce la seguente breve descrizione della visualizzazione delle cinque stanze: "Si visualizza all'esterno (Bahya) e all'interno (Abhyantara) uno spazio (Ākāṣa) completamente immacolato (Nirmala), senza forma (Nirakara). Oppure si visualizza all'esterno e all'interno di uno Spazio Supremo (ParĀkāṣa) che è uguale all'oscurità perfetta (Andhakara). (O) si visualizza all'esterno e all'interno di una grande stanza (MahĀkāṣa) simile al fuoco della morte (Kalanala) . (O) si visualizza all'esterno e all'interno di uno spazio di realtà (TattvĀkāṣa), la sua essenza (Svarupa) come la propria realtà. Oppure si visualizza uno spazio del sole (SuryĀkāṣa) simile a dieci milioni (Koti) di soli 134 (Surya) all'esterno e all'interno . In questo modo, visualizzando ("guardando", Avalokana dei cinque spazi) si diventa uguali allo spazio ". 135 136 BIBLIOGRAFIA - - Anathomia Mondini, Locatellus, 1507. Bagchi, Prabodh Chandra; Magee, Michael (1986). Kaulajñānanirnaya of the school of Matsyendranatha. Prachya PrĀkāṣan. Banerjea, Akshaya Kumar (1983). Philosophy of Gorakhnath with Goraksha-Vacana-Sangraha. Motilal Banarsidass. ISBN 978-81208-0534-7. Beck, Guy L. (2012). 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