Drive-Away Dolls: recensione del film diretto da Ethan Coen
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    Drive-Away Dolls: recensione del film di Ethan Coen

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    Un burlesco road movie queer, un racconto di (ri)formazione sentimentale e sessuale, un appassionato omaggio ai B-Movie, un ceffone all’America più bigotta e reazionaria. È questo e molto altro Drive-Away Dolls, primo film di finzione diretto in solitario da Ethan Coen (che aveva già diretto il documentario Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind), che insieme al fratello Joel ha firmato capolavori come Barton Fink – È successo a Hollywood, Fargo, Il grande Lebowski, L’uomo che non c’era e Non è un paese per vecchi. Un’opera che nasce però da un altro sodalizio artistico e personale, cioè quello con la moglie Tricia Cooke, montatrice di diversi film dei fratelli e co-sceneggiatrice di Drive-Away Dolls.

    Siamo nel 1999 e al centro della vicenda c’è una misteriosa valigetta, uno dei McGuffin per eccellenza, come ci ricorda Pulp Fiction. Il contenitore e il suo delicato contenuto finiscono accidentalmente nelle mani di due amiche molto legate fra loro ma caratterialmente agli antipodi: Jamie (Margaret Qualley) è una ragazza lesbica dallo spirito libero e dalla parlata spigliata e sfrontata; Marian (Geraldine Viswanathan) invece è molto più timida e impacciata, nonché alla ricerca di un proprio posto nel mondo. Le due si dirigono verso Tallahassee, dove risiede la zia di Marian, a bordo di una macchina a noleggio, inconsapevoli che nel bagagliaio c’è proprio la valigetta, desiderata dagli scagnozzi di personaggi molto potenti. Per le due ragazze inizia così un folle e spericolato viaggio fra bar lesbici e personaggi bizzarri, alla riscoperta di se stesse e del loro rapporto.

    Drive-Away Dolls: il bizzarro road movie queer di Ethan Coen

    In Drive-Away Dolls c’è molto di Tricia Cooke e del suo rapporto con Ethan Coen. In una recente intervista, i due hanno fatto luce sul loro trentennale matrimonio, fatto di amore e due figli, nonostante Tricia Cooke sia dichiaratamente lesbica e a dispetto di altre relazioni sentimentali portate avanti da entrambi. Un amore fuori dagli schemi che riverbera soprattutto nella travolgente personalità di Jamie, interpretata con carisma e costantemente sopra le righe dalla sempre più brava Margaret Qualley. È Jamie il cuore di un racconto clownesco, goliardico e derivativo, che fra bar lesbici (vissuti in prima persona proprio da Tricia Cooke), falli di plastica e visioni oniriche (non sempre a fuoco) mette in scena un inno alla liberazione, sessuale e non.

    Un’opera a trazione queer, giocata sul contrasto fra le personalità delle protagoniste e su situazioni paradossali, come Marian intenta a leggere Henry James mentre Jamie si lascia andare alla più gioiosa promiscuità. Su questa dinamica si innestano suggestioni pulp, figlie di Quentin Tarantino ma anche del cinema più compiaciuto e giocoso degli stessi Coen, nello specifico Arizona Junior e Burn After Reading – A prova di spia. Fra brevi e autoironiche apparizioni (quelle di Matt Damon e Pedro Pascal su tutte, ma anche altre che non sveliamo), improbabili macchinazioni e l’irresistibile inettitudine dei nemici delle protagoniste, gli appassionati del cinema dei fratelli sentiranno aria di casa, pur in un contesto che rivendica in ogni scena libertà sessuale e sentimentale.

    Una critica alla bigotta società americana

    Sotto la divertita superficie di Drive-Away Dolls c’è una disincantata critica alla componente più bacchettona della società statunitense (non è un caso che la meta del viaggio sia nella Florida a trazione repubblicana, nonché sede del quartier generale di Donald Trump), rappresentata da personaggi marci e corrotti, mediocri anche nell’esercizio della violenza e della sopraffazione. Emblematico inoltre il ruolo del pene alla base dell’intrigo, spunto per innumerevoli gag ma anche evidente simbolo della fallocrazia ancora oggi imperante nella società americana.

    In queste novelle Thelma & Louise non c’è paura, ma solo rabbia nei confronti di una società arretrata e asfittica, di intralcio a una realtà che l’ha superata da tempo. Fra scene di sesso saffico, spassosi equivoci, rocambolesche fughe e toccanti epifanie, non possiamo che fare il tifo per queste due ragazze solo apparentemente agli antipodi, dirette verso un futuro incerto ma più consapevole.

    Drive-Away Dolls: il primo capitolo di una trilogia?

    Drive-Away Dolls è il primo capitolo di quella che nei piani degli autori dovrebbe diventare una trilogia di B-movie lesbici. Anche se non siamo di fronte al cinema più raffinato, ambizioso e riuscito partorito dai Coen, non possiamo che guardare con curiosità e simpatia a questo progetto, moderno e allo stesso tempo con un occhio al passato, nello specifico ai B-Movie di cui si richiama l’estetica e a una sintetica narrazione circolare (solo 84 minuti di durata), decisamente fuori moda in un’epoca di prolissa serialità sul grande schermo.

    Drive-Away Dolls è disponibile nelle sale italiane dal 7 marzo, distribuito da Universal Pictures solo in versione originale sottotitolata.

    Overall
    7/10

    Valutazione

    Al debutto nella regia solitaria di un film di finzione, Ethan Coen firma insieme alla moglie Tricia Cooke uno scanzonato e divertito inno alla libertà sessuale e sentimentale, meno calibrato e riuscito rispetto ai capolavori firmati insieme al fratello ma comunque godibile.

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    E la festa continua!: recensione del film di Robert Guédiguian

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    E la festa continua!

    «Niente è finito, tutto comincia». Una frase chiave di E la festa continua!, che sintetizza perfettamente il senso del nuovo film di Robert Guédiguian e del suo cinema sociale. Il regista francese torna nella sua amata Marsiglia per un racconto di sconfitti e sconfitte ma paradossalmente intriso di speranza, che muove i propri passi dalla tragedia di Rue d’Aubagne del 5 novembre 2018, quando 8 persone morirono a causa del crollo di due palazzi. Un evento evocato dall’eloquente didascalia «Improvvisamente, un fracasso terribile», che ha dato vita a una vera e propria mobilitazione popolare, all’insegna della solidarietà e del senso di appartenenza a una comunità ferita ma mai doma.

    La moglie e musa del regista Ariane Ascaride (Coppa Volpi a Venezia nel 2019 per Gloria Mundi dello stesso Robert Guédiguian) interpreta la vedova Rosa, anima del suo quartiere popolare, per il quale si divide fra impegno politico e il lavoro come infermiera, nonché della sua numerosa e coesa famiglia. Una famiglia di origini armene (come del resto Guédiguian) e di grande impegno civico, esplicitato dai nomi della protagonista (omaggio a Rosa Luxemburg) e di suo fratello Tonio (Gérard Meylan), chiamato così in onore di Antonio Gramsci. Quando il figlio Sarkis (Robinson Stévenin) inizia una nuova relazione con l’attrice e attivista Alice (Lola Naymark), Rosa fa la conoscenza del padre di lei Henri (Jean-Pierre Darroussin), con cui inizia a sua volta una relazione, in grado di cambiare il suo punto di vista sulla vita e sul futuro.

    E la festa continua!: l’umanità fragile ma mai arrendevole di Robert Guédiguian

    Robert Guédiguian ha definito E la festa continua! un film Agit-Prop, termine che nella Russia rivoluzionaria e successivamente in Germania indicava forme di teatro particolarmente dinamiche e creative, in grado di indagare lo spirito del tempo e i repentini mutamenti sociali. In questa storia in cui la modernità e il passato vanno a braccetto, entrambi sconfitti ma mai arrendevoli, si respira in effetti una vitalità anomala per il sempre più cupo cinema europeo contemporaneo, basata su un’umanità ancora in grado di unirsi di fronte alle difficoltà, pur nella consapevolezza della dimensione utopica di determinati valori e ideali.

    E la festa continua! non è un film politico in senso stretto, nonostante la protagonista Rosa sia la leader carismatica e ideologica del suo quartiere, quasi costretta a furor di popolo a candidarsi per le imminenti elezioni. Ciò che interessa a Robert Guédiguian non è tanto la lotta di classe mista a critica sociale di Ken Loach, quanto la fotografia disincantata di un’umanità fragile ben rappresentata da Marsiglia, città antica e sul mare, crocevia di popoli e di speranze. Un luogo in cui convivono idee e desideri contrastanti, come nel nucleo familiare di Rosa, animato al tempo stesso da ideali politici, suggestioni sentimentali, desideri di costruire una nuova famiglia e sostegno alla causa armena. Temi su cui il regista vola con leggerezza, fra un rimando a Marcel Proust e una citazione a Il disprezzo di Jean-Luc Godard.

    La solita formidabile Ariane Ascaride

    Si ha più volte la sensazione che E la festa continua! stia andando in molte direzioni e al contempo da nessuna parte, ma Robert Guédiguian riesce comunque a tratteggiare momenti struggenti, come la tenerezza ironica e trattenuta di Rosa e Henri. Grazie anche alla solita formidabile Ariane Ascaride, capace di tratteggiare un mondo intero con un gesto o uno sguardo, ci si affeziona a questo microcosmo di contraddizioni, tragedie e personaggi imperfetti, capaci di sperare e di innamorarsi ancora, anche mentre il mondo va a rotoli. Un cinema in controtendenza rispetto ai racconti cupi e sofferti del cinema europea contemporaneo, che non vuole né scuotere né travolgere ma riesce ad accarezzare lo spettatore, ricordandoci che la gioia più intima e inaspettata spesso si nasconde dove meno ce lo aspettiamo.

    E la festa continua! è disponibile nelle sale italiane dall’11 aprile, distribuito da Lucky Red.

    Overall
    6.5/10

    Valutazione

    Robert Guédiguian firma un’opera intima e leggera, che non travolge ma accarezza lo spettatore con il ritratto di un’umanità disillusa ma ancora piena di speranza.

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    Back to Black: recensione del film su Amy Winehouse

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    Back to Black

    A proposito dello splendido biopic a lui dedicato Rocketman, Elton John ha dichiarato: «Gli studios volevano ridurre le scene di sesso e droga, così che il film non fosse vietato ai minori di 13 anni. Ma io non ho vissuto una vita adatta ai minori di 13 anni». Parole che tornano alla mente di fronte a Back to Black, film diretto da Sam Taylor-Johnson basato sulla vita e sulla carriera della compianta Amy Winehouse, morta a soli 27 anni per un’intossicazione da alcol. Un’esistenza baciata dal talento vocale e musicale, ma allo stesso tempo afflitta da droga, alcol, disturbi alimentari e dal rapporto tossico con Blake Fielder-Civil, il più grande amore della cantautrice.

    Dopo Amy, documentario di Asif Kapadia premiato con l’Oscar ma pesantemente criticato dalla famiglia della cantautrice, Sam Taylor-Johnson e lo sceneggiatore Matt Greenhalgh scelgono la via della semplificazione e dell’edulcorazione, smussando i tanti spigoli dell’esistenza della protagonista, interpretata da Marisa Abela. Il risultato è un racconto frammentario e abbozzato, che ha indubbiamente il merito di non spettacolarizzare i momenti più dolorosi e pubblicamente esposti della vita di Amy Winehouse, ma al contempo si ferma alla superficie dei suoi disagi e delle sue fragilità, con uno sguardo decisamente indulgente nei confronti della famiglia. Famiglia che – è giusto ricordarlo – ha ereditato il patrimonio artistico ed economico della cantautrice e ha autorizzato Back to Black.

    Back to Black: la vita di Amy Winehouse in un biopic timido ed edulcorato

    Credit : Courtesy of Ollie Upton/Focus Features

    Back to Black mette in scena la repentina ascesa di Amy Winehouse, che nel giro di pochi anni la porta dai locali di Camden Town ai prestigiosi Grammy Awards, che nel 2008 la premiano con ben 5 riconoscimenti per il suo album più celebre, omonimo della sua canzone più amata e dello stesso racconto di Sam Taylor-Johnson. Una carriera costellata da successi ma anche da forti delusioni, come la separazione dei genitori, la morte dell’amata nonna Cynthia (Lesley Manville) e soprattutto il rapporto traballante e traumatico con Blake Fielder-Civil (Jack O’Connell), ampiamente raccontato nei brani di Amy Winehouse. Il tutto sotto lo sguardo vigile ma impotente del padre Mitch Winehouse, interpretato da Eddie Marsan.

    Il rapporto di Sam Taylor-Johnson con la musica è forte e longevo, grazie alla regia di videoclip per Elton John, R.E.M. e The Weeknd, alla sua opera prima Nowhere Boy (basata sull’adolescenza di John Lennon) e al suo personale contributo per diversi brani dei Pet Shop Boys. Non sorprende che questo cammino abbia condotto la regista verso questo progetto, mentre spiazza il suo approccio alla protagonista e alla sua arte. Durante Back to Black si ha costantemente la sensazione che il film nasca e si sviluppi per spiegare le canzoni di Amy Winehouse.

    Una dinamica per certi versi opposta a quella della cantautrice, che invece per tutta la sua breve carriera ha riversato nella sua musica tutta la sua vita, elaborando sofferenze sentimentali, traumi ed esperienze personali in brani come Rehab, You Know I’m No Good, Love Is a Losing Game e la stessa Back to Black. Così facendo, da una parte la regista nobilita il percorso artistico della protagonista, ma dall’altra limita fortemente un racconto potenzialmente esplosivo.

    Una vita vietata ai minori

    Back to Black
    Credit : Courtesy of Ollie Upton/Focus Features

    La vita vietata ai minori di Amy Winehouse si trasforma in un’opera timida e ovattata, sorretta solo dalla buona prova di Marisa Abela e dalle note di una delle migliori voci degli ultimi decenni, strappata troppo presto a tutti gli amanti della musica. Fin dalla prima apparizione di un canarino, metafora urlata, ridondante e francamente insopportabile della fragilità e del talento musicale di Amy Winehouse, si intuisce lo spirito dell’intero progetto, improntato alla maggiore pulizia possibile dell’immagine della protagonista e allo scarico della responsabilità delle sue disgrazie su Blake Fielder-Civil.

    La biografia torbida di quest’ultimo è ben nota, come la sua influenza negativa su Amy Winehouse, ma Back to Black compie puro revisionismo, riducendo la dipendenza dalla droga e la bulimia della protagonista a poche goffe e contraddittorie allusioni, escludendo dal racconto l’evidente crollo fisico e psichico degli ultimi mesi della sua vita e trasformando la controversa figura del padre in silenziosa e rassicurante spalla su cui piangere. Nonostante la prevedibile onnipresenza dei brani più celebri di Amy Winehouse, a passare paradossalmente in secondo piano è proprio il suo amore per la musica e il suo insopprimibile talento. «La musica è il mio centro di recupero», le sentiamo dire. Ma è solo un cenno dialogico, annacquato in quella che è fondamentalmente la storia di due diversi amori di Amy: l’amore dannoso per Blake e il rapporto materno e amicale con l’adorata nonna Cynthia.

    I limiti e i pregi di Back to Black

    Back to Black
    Credit : Courtesy of Dean Rogers/Focus Features

    Siamo quindi di fronte all’ennesimo racconto per tutti (quindi per nessuno) di una vita fra musica ed eccessi. Una tendenza inaugurata dal mediocre (ma premiato dal botteghino) Bohemian Rhapsody e proseguita con altre opere incolori come Elvis e Bob Marley – One Love, nobilitata solamente dal già citato Rocketman. In attesa delle prossime uscite di Michael (dedicato a Michael Jackson) e A Complete Unkown (incentrato su Bob Dylan), è inevitabile interrogarsi sulla direzione di queste operazioni, spesso profittevoli e capaci di riportare in auge leggende della musica, ma altrettanto frequentemente del tutto fini a loro stesse.

    Ad accentuare la sensazione di rimpianto è l’operato di Sam Taylor-Johnson, che pur in un contesto moralmente e produttivamente discutibile regala momenti di buon cinema con la ricostruzione della scena musicale londinese e con le numerose performance musicali di Marisa Abela, che omaggia Amy Winehouse senza degenerare nella pura imitazione, con un ottimo lavoro sul timbro vocale e sulla gestualità. Ma il segmento più prezioso è paradossalmente quello dell’incontro fra la protagonista e l’amato/odiato Blake Fielder-Civil, l’unico in grado di trasformare un attimo in una vita intera, con un pregevole lavoro sulla musica e sugli sguardi.

    «Io non sono rock, sono jazz», dice Amy Winehouse in Back to Black, ribadendo il concetto con «Non sono una cazzo di Spice Girl». Peccato che il film faccia tutt’altro, trasformando un’anima ribelle e fuori dagli schemi in una figura passiva, sempre vittima o estensione di qualcun altro e mai padrona della propria vita.

    Back to Black è disponibile nelle sale italiane dal 18 aprile, distribuito da Universal Pictures.

    Overall
    4.5/10

    Valutazione

    Un biopic moralmente e produttivamente discutibile, che smussa i tanti spigoli della vita di Amy Winehouse finendo per dare vita a un racconto troppo timido ed edulcorato.

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    Cento domeniche: recensione del film di Antonio Albanese

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    Cento domeniche

    Non è una storia vera quella di Cento domeniche, ma è un’esperienza in cui si possono riconoscere molte persone, che nel corso degli anni hanno perso i propri risparmi a causa dei crac bancari e delle pratiche scorrette attuate da diversi istituti per caricare sulle spalle dei clienti il peso delle loro gestioni scellerate. Una storia particolarmente cara ad Antonio Albanese, che torna alla regia a 5 anni di distanza da Contromano per dare vita a una dolorosa parabola umana, interpretando il neopensionato Antonio, con il quale condivide non solo il nome, ma anche un passato da metalmeccanico e la profonda conoscenza del territorio fra Lecco e Olginate, ambientazione del film in cui l’attore e regista ha vissuto per molti anni.

    Dopo una vita da tornitore, seguita dal prepensionamento e da una collaborazione con la sua ex azienda per integrare lo scarso assegno mensile, Antonio ha ancora un sogno da realizzare, cioè accompagnare all’altare la figlia Emilia (Liliana Bottone) e provvedere personalmente alle spese del matrimonio con i suoi risparmi. La sua vita apparentemente tranquilla, in bilico fra la cura dell’amata madre (Giulia Lazzarini), le partite a bocce con gli amici e la passionale relazione con Adele (Sandra Toffolatti), di cui è amante, si incrina nel momento in cui scopre che il suo capitale, che credeva investito in obbligazioni, è invece stato convertito in azioni, con il suo incauto e non sufficientemente informato assenso. Nonostante le rassicurazioni della sua banca, in città si intensificano le voci su un imminente crac dell’istituto, con conseguenze devastanti sulla psiche di Antonio.

    Cento domeniche: la discesa nell’abisso di un uomo perbene

    Negli ultimi anni, Antonio Albanese ha messo in secondo piano la sua comicità fatta di personaggi paradossali, concentrandosi prima su una commedia più garbata e misurata, poi su racconti dal chiaro sottotesto sociale. Nel giro di pochi mesi, lo abbiamo infatti visto interprete di un regista intento a mettere in scena uno spettacolo teatrale di detenuti in Grazie ragazzi e di un maestro elementare deciso a salvare la scuola di un piccolo paesino abruzzese in Un mondo a parte. Cento domeniche, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023 e uscito in sala lo scorso novembre, si inserisce perfettamente su questo solco, con un tono ancora più cupo e con punte di vera e propria disperazione.

    Quella che inizia come una commedia dal retrogusto amaro vira infatti progressivamente verso la tragedia umana e sociale, addentrandosi addirittura nei territori dell’intramontabile Un giorno di ordinaria follia di Joel Schumacher. Una discesa nell’abisso persino troppo repentina, che si distacca con una forza inattesa dal panorama delle commedie italiane contemporanee, sempre inclini a essere fintamente rassicuranti. In Cento domeniche invece non c’è davvero niente da ridere o da cui essere rassicurati, perché, come ricordano i titoli di coda, vicende come queste sono realmente accadute a centinaia di migliaia di persone, spinte con l’inganno a trasformare il loro capitale in azioni ben presto diventate carta straccia.

    Sulle orme di Ken Loach

    Mentre alla regia Antonio Albanese guarda chiaramente al cinema di impegno civile di Ken Loach, davanti alla macchina da presa dà ancora una volta prova delle sue notevoli abilità drammatiche, tratteggiando in maniera pregevole l’evoluzione di un personaggio inizialmente animato dall’amore e dalla speranza, poi afflitto dalla paura e dal rimorso e infine totalmente in balìa degli eventi e del tormento interiore. Caratteristi come Elio De Capitani, Bebo Storti e Maurizio Donadoni sono solide ed efficaci spalle, contribuendo a delineare una storia fatta di fragile e imperfetta umanità, ma anche delle sfumature kafkiane di un sistema che riesce sempre a salvaguardarsi ai danni delle persone più oneste e ingenue.

    Certo, le sterzate della storia non sono sempre ben calibrate e il climax conclusivo richiede qualche sforzo in termini di sospensione dell’incredulità, ma questo è il cinema italiano che dobbiamo difendere con le unghie, capace finalmente di distaccarsi da storie borghesi e ovattate per raccontare gli ultimi e soprattutto i penultimi, spesso separati solo da una giornata storta o da una decisione sbagliata.

    Cento domeniche: a tutta velocità verso un finale raggelante

    Cento domeniche corre a tutta velocità verso un finale raggelante, che ricorda la mestizia di alcuni epiloghi della grande commedia all’italiana. Una soggettiva emblematica e un ultimo richiamo al sogno della felicità chiudono un cammino angosciante, che ci lascia disillusi e sconfitti, ma anche più consapevoli dei rischi a cui andiamo incontro quando decidiamo di affidare a qualcuno il frutto dei sacrifici di un’intera esistenza.

    Cento domeniche al momento è disponibile su Prime Video e Now.

    Overall
    8/10

    Valutazione

    Antonio Albanese firma un’opera dolorosa e angosciante, che parte dalla commedia per poi virare decisamente verso la tragedia.

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