'Ripley', la serie su Netflix: la recensione di Alberto Crespi - la Repubblica

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‘Ripley’, quel ragazzo ha 70 anni ma nella serie dà il meglio di sé. La recensione di Alberto Crespi

‘Ripley’, quel ragazzo ha 70 anni ma nella serie dà il meglio di sé. La recensione di Alberto Crespi

Su Netflix la nuova trasposizione dal romanzo di Patricia Highsmith. Andrew Scott è il miglior Ripley possibile: la metamorfosi di un travet pronto ai crimini peggiori

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Il bello delle piattaforme è che si può sempre ricominciare. La libertà dei formati e delle durate (da un videoclip di tre minuti a una serie di giorni e giorni) è qualcosa che gli autori benedicono. Storie che un tempo erano “costrette” in film oscillanti intorno alle due ore di proiezione ora possono rinascere nei formati più diversi. Così le piattaforme diventano la nuova casa di Tolkien, di Elena Ferrante, di Edgar Allan Poe, di Conan Doyle, del Gattopardo e di tanti altri classici, e prima o poi toccherà anche a Manzoni, a Tolstoj, a tutti quanti. I problemi nascono quando Netflix, Apple, Sky o chi per loro impongono dei paletti, delle tempistiche, i famosi momenti “what the fuck” ogni dieci minuti (si veda, sempre, Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti). Poi, evidentemente, c’è chi ha potere contrattuale e chi non ce l’ha. Nello scrivere e girare Ripley, ennesimo ritorno sul personaggio creato dalla scrittrice Patricia Highsmith (su Netflix), Steven Zaillian – regista e sceneggiatore – ha potuto fare un po’ come voleva: il primo momento “what the fuck” arriva nel terzo capitolo, o episodio o puntata, scegliete voi la parola. Ma è veramente un momento pazzesco, tanto che siamo indecisi se raccontarvelo o meno.

Tom Ripley è stato interpretato al cinema da Alain Delon (Delitto in pieno sole, René Clément, 1960), Dennis Hopper (L’amico americano, Wim Wenders, 1977), Matt Damon (Il talento di Mr. Ripley, Anthony Minghella, 1999), John Malkovich (Il gioco di Ripley, Liliana Cavani, 2002), Barry Pepper (Il ritorno di Mr. Ripley, Roger Spottiswoode, 2005). Ora tocca all’irlandese Andrew Scott, che in questi giorni potete vedere al cinema in Estranei, e secondo molti è il Ripley migliore. È possibile: Delon era fin troppo bello, Hopper nel film di Wenders non era in realtà il protagonista, Damon era un po’ fanciullesco e il film di Minghella non era davvero granché, Malkovich era forse l’unico ad avere la giusta dose di sinistra ambiguità.

Ma Scott è straordinario perché nei primi due episodi sembra un travet. Certo, si capisce che sotto quell’apparenza impiegatizia e un po’ sfigata si nasconde un truffatore pronto a tutto, ma i primi due episodi scorrono abbastanza prolissi. Il terzo, però, intitolato Sommerso ci è sembrato un piccolo capolavoro. La scena in barca tra Ripley e il suo “amico” Dickie, con tutto ciò che ne consegue, è girata e montata in modo magistrale. Non è facile reggere la suspense con due personaggi su una scialuppa, e per altro chiunque abbia sentito Roman Polanski parlare di Il coltello nell’acqua (capolavoro) e di Pirati (non un capolavoro, ma film molto divertente) sa quanto sia difficile girare a bordo di una barca mantenendo la continuità. Certo, oggi la postproduzione digitale semplifica molte cose (se le nuvole cambiano da inquadratura a inquadratura, le modifichi) ma la tensione che Zaillian riesce a mantenere lungo tutto l’episodio è veramente impressionante.

Zaillian è uno strano sceneggiatore. Ha scritto Schindler’s List di Spielberg (Oscar alla sceneggiatura) e The Irishman di Scorsese, e questo lo pone nel paradiso degli scrittori di cinema. Ma ha scritto anche Hannibal di Ridley Scott, tentando vanamente di migliorare un copione già delirante di David Mamet, e questo lo pone nel più profondo girone dell’inferno. Come regista è al suo quinto lavoro fra cinema e tv, e il suo primo film In cerca di Bobby Fischer era curioso assai, anche se l’aveva messo nei guai dopo che il famoso e stravagante scacchista americano l’aveva denunciato per “appropriazione indebita” del suo nome.

© 2024 Netflix, Inc.
© 2024 Netflix, Inc. 

Si può dire che con Ripley, a 70 anni suonati, ha dato il meglio di sé. La regia è insinuante, attenta ai dettagli, ricca di trovate. Ci permettiamo invece dei dubbi (absit iniuria) sulla fotografia in bianco e nero di Robert Elswit, premio Oscar per Il petroliere di Paul Thomas Anderson: è semplicemente stupefacente negli esterni, è invece di tanto in tanto sorprendentemente piatta in alcuni interni. È il problema, difficilmente risolvibile, del bianco e nero digitale: vale per Roma di Cuarón, per Mank di Fincher, anche per il film di Paola Cortellesi. Il bianco e nero digitale non riesce ancora ad avere la profondità e la densità dei “neri” della pellicola. Zaillian ed Elswit hanno dichiaratamente cercato di riprodurre le atmosfere dei film noir degli anni 40, ma la differenza rimane abissale.

Detto questo, la scelta del bianco e nero per una serie ambientata nei luoghi più pittoreschi dell’Italia degli anni 60 è coraggiosa, e fa bene agli occhi vedere la costiera amalfitana fotografata così. E l’altro grande pregio di Ripley è proprio il modo in cui è raccontata l’Italia: non si cade mai nel folklore, cosa che invece il film di Minghella faceva a ogni piè sospinto. Anche le canzoni d’epoca hanno un senso e gli attori italiani impegnati nel cast (Maurizio Lombardi, Margherita Buy e Vittorio Viviani su tutti) sembrano rinascere a nuova vita, impegnati in una produzione internazionale di tale respiro. Ripley è una serie molto “arty”, parola americana un po’ pericolosa (una volta avremmo detto “d’essai”), ma per come procede spedita fregandosene dei momenti “what the fuck” è una sorta di vacanza per la mente e per gli occhi.

© 2023 Netflix, Inc.
© 2023 Netflix, Inc. 

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