Fëdor Dostoevskij, «Il giocatore» ovvero della passione - iMalpensanti
Edvard Munch, Al tavolo della roulette di Montecarlo, 1892

Fëdor Dostoevskij, «Il giocatore» ovvero della passione

«Che cosa sono adesso? Uno zéro. Che cosa potrei essere domani? Domani potrei risorgere dal mondo dei morti e ricominciare a vivere! Potrei ritrovare l’essere umano che è in me, almeno finché non svanisce».

Completamente assorbito dalla scrittura del primo dei suoi quattro maggiori romanzi, Delitto e castigo (gli altri sono, in ordine cronologico, L’idiota, I demoni e I fratelli Karamazov [1]), Dostoevskij non ha che un mese, un solo mese a disposizione, l’ottobre del 1866, per creare un racconto di almeno dodici fogli a stampa da consegnare all’editore Stellovskij, pena la perdita di ogni diritto sulle future opere. Con l’acqua alla gola, in una situazione oramai disperata, Dostoevskij, su consiglio di un amico, assume una stenografa, Anna Grigor’evna Snitkina, vent’anni appena, per accelerare il lavoro e tentare l’impresa, evitando quella che sarebbe una vera e propria catastrofe dalle conseguenze disastrose. Anche grazie al prezioso contributo della giovane donna, Dostoevskij riesce a consegnare il racconto entro il 31 ottobre, termine ultimo fissato dal contratto capestro. Non solo, tra l’affermato scrittore, già vedovo, e la giovanissima stenografa, sua grande ammiratrice, scoppia l’amore: i due si sposano il 15 febbraio dell’anno successivo, sancendo un’unione che, nonostante l’ampia differenza d’età e gli iniziali tormenti di Anna Grigor’evna, catapultata nel giro di poche settimane in una situazione materialmente tutt’altro che idilliaca, nella quale la miseria incombe e aleggia in continuazione come uno spettro sinistro, durerà fino alla morte dello scrittore. È questa la rocambolesca e romantica genesi del Giocatore.

Vasilij Grigor’evič Perov, Ritratto di Dostoevskij, 1872

Al centro di questo romanzo breve, o racconto lungo, che dir si voglia, costituendone di fatto la forza motrice, sta la passione. Essa scuote e agita, domina, come sottolinea Gianlorenzo Pacini [2], tutti i personaggi russi del Giocatore, scaraventandoli ariostescamente qua e là per l’Europa (di tutti i libri di Dostoevskij questo è quello, geograficamente parlando, meno russo, anzi, russo non lo è affatto, concentrandosi l’azione nella fantomatica località tedesca di Roulettenburg e dilatandosi, nei due capitoli conclusivi, a Parigi e Homburg). Principale vittima della passione è, naturalmente, il protagonista del racconto, nonché narratore in prima persona, Aleksej Ivanovič, outchitel, ovvero precettore, venticinquenne al servizio di un vecchio generale plautoniano ridotto in miseria dalla ridicola infatuazione per la giovane M.lle Blanche, avvenente parassita francese (i francesi sono il principale bersaglio polemico di Dostoevskij nel Giocatore, che non lesina sferzate neppure ai tedeschi, imputando ai primi una nociva spregiudicatezza morale, soprattutto, ai secondi la vocazione capitalistica [3]; tra gli europei lo scrittore salva solo gli inglesi, dei quali apprezza la saldezza morale e la capacità di indagine dell’essere umano e dei suoi sentimenti; non a caso il più negativo dei personaggi del racconto è il sedicente conte francese De Grieux, il più positivo il facoltoso inglese mister Astley, calcolatore, cinico e interessato il primo, onesto e generoso il secondo). La passione di Aleksej si sviluppa lungo due direttrici, comunque indissolubilmente legate tra di loro: l’amore per Polina Aleksandrovna, figliastra del generale, e l’ossessione del gioco d’azzardo, della roulette, nella quale ripone ogni speranza di riscatto e di elevazione, soprattutto agli occhi della donna amata. Parente diretto del sognatore protagonista delle Notti bianche [4] e, soprattutto, dell’uomo-topo protagonista delle Memorie dal sottosuolo [5], Aleksej è una natura esasperata ed esasperante, intimamente contraddittoria e lacerata, malata; il suo sentimento nei confronti di Polina è tutt’altro che pacifico e lineare, limpido e sereno, ma estremamente violento e contraddittorio, contaminato, avvelenato dall’odio, in una sorta di preludio di quella passione malsana e infine mortale che, nell’Idiota, Rogožin proverà per Nastas’ja Filippovna (tra colei che nell’umanità dostoevskiana si impone come il supremo emblema della bellezza femminile e la Polina del Giocatore esistono numerosi punti di contatto, tra i quali spicca il coraggio, un coraggio così ardente, fiero e noncurante da sconfinare nell’autodistruzione):

«Strano affare: avevo di che riflettere e invece sprofondai completamente nell’analisi dei sentimenti che provavo per Polina. Era vero, mi ero sentito a più a mio agio in quelle due settimane di assenza che in quel momento, nel giorno del mio ritorno, benché in viaggio fossi impazzito dalla nostalgia, avessi corso come un ossesso e fossi arrivato al punto di vederla davanti a me ogni minuto. Una volta (questo era successo in Svizzera), dopo essermi addormentato in treno, mi ero messo, a quanto pare, a parlare a voce alta con Polina, facendo divertire tutti i viaggiatori che sedevano accanto a me. E adesso mi ponevo per l’ennesima volta la domanda: ma io l’amo? E per l’ennesima volta non sapevo rispondere, cioè, per meglio dire, nuovamente, per la centesima volta, mi risposi che l’odiavo. Sì, mi era odiosa. Vi erano dei momenti (e per l’esattezza sempre alla fine delle nostre conversazioni) in cui avrei dato metà della mia vita per strangolarla! Lo giuro, se fosse stato possibile affondare lentamente nel suo seno un coltello acuminato [proprio come farà Rogožin con Nastas’ja Filippovna, uccidendola, secondo la funesta profezia del principe Myškin], credo che l’avrei afferrato col massimo piacere. E intanto, lo giuro su tutto quello che vi è di più sacro, se sullo Schlangenberg, sulla vetta alla moda, lei mi avesse effettivamente detto: “Buttatevi giù”, io mi sarei buttato immediatamente, e perfino con piacere. Lo sapevo. In un modo o nell’altro si doveva trovare una soluzione. Tutto questo lo si capisce a meraviglia, e l’idea che io sia pienamente consapevole, in maniera esatta e distinta, di tutta la sua inaccessibilità per me, di tutta l’impossibilità che si realizzassero le mie fantasie, quest’idea, ne sono convinto, le procura una straordinaria voluttà, altrimenti potrebbe lei, così prudente e intelligente, avere con me rapporti così stretti e confidenziali? Mi sembra che finora abbia guardato a me al pari di quell’antica imperatrice, che aveva cominciato a spogliarsi in presenza di un suo schiavo, non considerandolo alla stregua di un essere umano. Sì, molte volte non mi ha considerato alla stregua di un essere umano…» [6].

Il rapporto esistente tra Aleksej, precettore dei suoi due fratelli, e Polina riproduce, almeno dal punto di vista esacerbato del protagonista, la logica schiavo-padrone. Aleksej approfitta di questo suo presunto stato di subalternità, di servilismo per essere franco, brutalmente franco con la donna, la quale, da parte sua, proprio permettendo al protagonista di sproloquiare liberamente, di confessare, denudare senza ritegno alcuno tutto il suo amore e tutto il suo odio per lei, manifesta il proprio presunto disprezzo:

«Non ho in testa un pensiero umano che sia uno. Da lungo tempo non so più quel che succede nel mondo, né in Russia né qui. Ecco, sono passato per Dresda e non ricordo come sia fatta questa Dresda. Voi sapete che cosa mi ha assorbito completamente. Siccome non ho nessuna speranza e ai vostri occhi sono una nullità, ve lo dico a chiare lettere: io dappertutto vedo soltanto voi, e del resto non me ne importa nulla. Perché e come io vi ami, non lo so. Sapete che forse voi non siete affatto bella? Figuratevi che io non so nemmeno se siete bella o no, neanche di viso. Avete sicuramente un cuore cattivo; e un intelletto assai poco nobile, questo è molto probabile.
[…] Sapete che un giorno o l’altro vi ucciderò? Non vi ucciderò perché mi sarò disamorato o per gelosia nei vostri confronti, no, vi ucciderò così, semplicemente, perché certe volte sono tentato di mangiarvi. […]
Queste passeggiate, noi due da soli, sono pericolose: molte volte mi è venuta l’irresistibile tentazione di picchiarvi, sfigurarvi, strangolarvi. Pensate che non arriverò a tanto? Voi mi portate al delirio. Pensate che abbia paura di uno scandalo? O della vostra ira? Ma che me ne importa della vostra ira? Vi amo senza speranza e so che, dopo una cosa del genere, vi amerò mille volte di più. Se una volta o l’altra vi ucciderò, allora sarò costretto a uccidere anche me stesso; ma in tal caso la tirerò più in lungo possibile prima di farlo, per provare l’intollerabile dolore della vostra mancanza. Sappiate una cosa incredibile: io vi amo ogni giorno di più, sebbene questo sia impossibile. E con tutto ciò non dovrei essere fatalista? Ricordate, l’altro giorno, sullo Schlangenberg, vi ho sussurrato, provocato da voi: “Dite una parola, e io salterò nell’abisso”. Se aveste detto quella parola, sarei saltato» (492).

Polina non fa niente per frenare l’impeto di Aleksej, non getta acqua, ma benzina sul fuoco, lo tiranneggia, lo provoca, si serve di lui come di un buffone, di un clown, lo costringe a ridicolizzarsi, a rendersi tragicomico protagonista di imprese scandalose. Al termine del colloquio sopra riportato, ad esempio, Polina ordina ad Aleksej di offendere, del tutto gratuitamente, solo per il suo divertimento, una baronessa e suo marito. Il precettore esegue l’ordine e ne nasce uno scandalo, che il generale tenta in tutti i modi di soffocare, allontanando Aleksej dalla sua famiglia. Nel Giocatore la ragione, almeno per quanto riguarda la nutrita componente russa, è abolita, e oltre alla passione folle del generale per M.lle Blanche, oltre alle bestialità di Aleksej, una delle manifestazioni più esilaranti di febbrile irrazionalità è senza dubbio rappresentata dalla comparsa della zia settantacinquenne a Roulettenburg, creduta agonizzante e invece viva e vegeta. Non solo il generale, all’apparizione improvvisa della donna, vede andare in fumo tutti i suoi piani, legati alla sua morte imminente e alla riscossione dell’eredità (perché il vecchio plautoniano ha impegnato tutto il proprio patrimonio a De Grieux per poter coltivare il suo assurdo e ridicolo sogno d’amore), ma la baldanzosa settantacinquenne, nel giro di poche ore, perde alla roulette più di centomila rubli! La passione, la passione domina tutti i personaggi russi del Giocatore, inclusa la gelida e accorta Polina, che finisce persino per subire il fascino del losco affarista De Grieux, il quale rivela tutta la sua natura spregevole lasciando Roulettenburg e decidendo di liquidare i beni avuti in pegno dal generale (la decisione arriva dopo le folli imprese della vecchia zia), condonandogli però cinquantamila franchi, e restituendogli dunque una parte delle ipoteche sulle sue proprietà corrispondente a questo valore, con lo scopo di permettere a Polina di riavere ciò che le appartiene e che il vecchio innamorato ha scialacquato senza ritegno. De Grieux tenta così di acquistare la giovane, che reagisce però con fiero sdegno e si rivolge ad Aleksej, gettandosi, di fatto, tra le sue braccia. Perché per Polina il precettore è molto più che uno schiavo! Preoccupato dalla necessità impellente di riscattare Polina, di vendicare l’offesa di De Grieux sbattendogli il denaro in faccia, Aleksej pensa a come poter mettere insieme una tale somma; suggerisce alla donna di rivolgersi all’onesto e pacato mister Astley, facoltoso inglese amico del protagonista ed evidentemente innamorato anch’egli di Polina. Ma lei rifiuta e, rifiutando, per la prima volta dà del tu ad Aleksej.

«Mi sembrava di essere stato colpito da un fulmine; stavo immobile e non credevo ai miei occhi, non credevo alle mie orecchie! Mi amava dunque! Era venuta da me, e non era andata da mister Astley! Lei, una ragazza, era venuta sola nella mia stanza, in albergo, voleva dire che si era pubblicamente compromessa, e io, io stavo di fronte a lei e ancora stentavo a capire!» (550).

Un’idea trafigge allora Aleksej, lo scuote, lo eccita: giocare alla roulette per riscattare Polina. Si precipita al casinò ed è in questo momento, proprio in questo momento che diviene un giocatore. Dalla passione nasce la passione, dall’amore per Polina scaturisce l’ossessione per il gioco d’azzardo e l’una esclude l’altra. In poche ore Aleksej, baciato dalla fortuna, mette insieme ben duecentomila franchi, torna da Polina in trionfo, non più schiavo ma uomo, finalmente, uomo ricco e amato. Dopo le iniziali rimostranze della donna («L’amante di De Grieux non vale cinquantamila franchi»; «Mi vuoi comprare per cinquantamila franchi, come De Grieux?», esclama e domanda Polina ritrovando il suo consueto tono caustico e sprezzante), i due passano insieme una notte di baci e di risate, entrambi preda di un entusiasmo febbrile, talvolta persino delirante. Ma nel Giocatore niente è scontato, può accadere di tutto, da un momento all’altro, e al risveglio Polina getta i cinquantamila franchi in faccia ad Aleksej, correndo da mister Astley, che la prende con sé. Il protagonista reagisce in modo tutt’altro che lucido e razionale – ovviamente, verrebbe da dire -. Ha in mano una fortuna, grazie alla quale potrebbe iniziare una nuova vita, ma vorrebbe dire avere troppo buonsenso, quel buonsenso che ad Aleksej e ad ogni giocatore d’azzardo manca completamente, altrimenti, di fatto, non sarebbe più tale. Così l’outchitel parte per Parigi con M.lle Blanche, sperperando in meno di un mese tutto il suo denaro. Nel Giocatore la ragione è abolita, non c’è spazio che per la passione.

Nell’ultimo capitolo del racconto ritroviamo Aleksej un anno e otto mesi dopo la partenza da Parigi. Ossessionato dal gioco, vittima del suo demone, in questo frattempo, come scrive egli stesso nei suoi appunti, si è «semplicemente distrutto»; ha fatto il lacchè, è stato in prigione per debiti, insomma, si è ridotto ad una nullità:

«Che cosa sono adesso? Uno zéro. Che cosa potrei essere domani? Domani potrei risorgere dal mondo dei morti e ricominciare nuovamente a vivere! Potrei ritrovare l’essere umano che è in me, almeno finché non svanisce» (569).

Uno slancio di vitalità, un proposito di rinascita, di resurrezione inquinato però alla fonte, perché legato al gioco d’azzardo e non ad un saldo e onesto desiderio di redenzione. Il giocatore si conclude con un fondamentale colloquio tra Aleksej e mister Astley, a Homburg. In poche parole l’inglese compendia la condizione miserevole del protagonista, lo denuda:

«Voi vegetate […], voi non soltanto avete rinunciato alla vita, ai vostri interessi personali e a quelli sociali, al vostro dovere di cittadino e di uomo, ai vostri amici (eppure ne avevate), non soltanto avete rinunciato a ogni scopo, eccezion fatta per la vincita al gioco, ma avete rinunciato addirittura ai vostri ricordi. Ho memoria di voi in un momento ardente e forte della vostra vita; ma sono convinto che avete dimenticato le vostre migliori aspirazioni di quel tempo; i vostri sogni di adesso, i vostri bisogni più urgenti non vanno al di là del pair e dell’impair, del rouge, del noir, dei dodici intermedi, eccetera, eccetera, ne sono persuaso!» (571).

La roulette ha completamente assorbito Aleksej, ne ha fagocitato totalmente l’esistenza, rendendolo un miserabile, un uomo finito drammaticamente in anticipo, un parassita che demanda al capriccio della fortuna la propria sopravvivenza, che non vive ma si lascia vivere. Ma non è finita qui, c’è ancora spazio per un colpo di scena, per un’ultima frustata passionale. Mister Astley confessa ad Aleksej di essere stato inviato da Polina, che lo amava davvero, nonostante il denaro scaraventatogli sul grugno e la fuga, e lo ama tuttora:

«Sì, uomo sventurato, lei vi amava, e posso svelarvelo, perché ormai siete un uomo perduto! Non solo, se vi dicessi addirittura che lei via ama ancora, ebbene voi restereste qui lo stesso! Sì, vi siete rovinato da solo. Avevate alcune qualità, uno spirito vivace ed eravate una persona nient’affatto stupida; avreste potuto perfino essere utile alla vostra patria, che tanto bisogno ha di uomini, ma rimarrete qui, e la vostra vita è finita. Non ve ne faccio una colpa. A mio parere, tutti i russi sono così, o propendono a essere così. Se non è la roulette, sarà un’altra cosa simile. Le eccezioni sono troppo rare. Non siete certo voi il primo a non capire che cos’è il lavoro (non parlo del vostro popolo). La roulette è un gioco eminentemente russo. Finora siete stato onesto e avete preferito fare il lacchè piuttosto che rubare… Ma mi fa paura solo pensare che cosa può essere di voi in futuro. Adesso basta, addio! Voi, naturalmente, avrete bisogno di denaro. Eccovi dieci luigi d’oro, di più non ve ne do, perché tanto li perdereste comunque al gioco. Prendeteli, addio!» (574).

Le parole di mister Astley risuonano implacabili come una sentenza. La certezza dell’amore di Polina potrebbe essere davvero per il protagonista la molla verso un processo di rigenerazione, di redenzione, di resurrezione, come l’amore di Sonja lo è per Raskol’nikov, ma le sue ultime parole, le parole che concludono il racconto, vanno ancora al gioco. La sua vita sembra ormai davvero finita, non sembrano proprio esserci soluzioni all’ossessione della roulette, possibilità alternative al suo terribile demone.

«Adesso quel che conta è la Svizzera! Domani, oh, se fosse possibile partire domani stesso! Rinascere, risorgere. Bisogna dimostrare loro… Che anche Polina sappia che io posso essere un uomo. Basta soltanto… D’altro canto, adesso è tardi, ma domani… Oh, me lo sento, e non può andare altrimenti! Ora ho quindici luigi d’oro, e ho iniziato con quindici gulden! Se solo cominciassi con cautela… possibile, possibile che io sia un ragazzino! Possibile non capisca che sono un uomo perduto. Ma perché mai non potrei risorgere? Sì! Basterebbe soltanto, per una volta almeno nella vita, essere calcolatore e paziente e il gioco sarebbe fatto! Basterebbe soltanto, per un’unica volta, esser fermo di carattere, e in un colpo solo potrei cambiare tutta la mia sorte! L’importante è la fermezza di carattere. Dovrei solo ricordare che una cosa del genere mi è successa sette mesi fa a Roulettenburg, prima della mia rovina definitiva. Oh, quello è stato un notevole caso di risolutezza: quella volta avevo perso tutto, tutto… Uscii dal casinò, mi frugai e dal taschino del panciotto spuntò ancora un gulden: “Ah, dunque ci sarà di che pranzare!”, pensai tra me e me, ma, fatto un centinaio di passi, ci ripensai e tornai indietro. Puntai quel gulden sul manque (quel giorno mi ero incaponito sul manque), e, davvero, c’è un che di particolare nella sensazione che provi, quando, solo, in un paese straniero, lontano dalla patria e dagli amici, senza sapere che cosa mangerai a cena, punti l’ultimo gulden, l’ultimo, l’ultimissimo! Vinsi e in capo a una ventina di minuti uscii dal casinò, con centosettanta gulden in tasca. È un fatto! Ecco quel che in certe occasioni può significare l’ultimo gulden! E che cosa sarebbe successo, se quella volta mi fossi perso d’animo, se non avessi avuto il coraggio di decidermi?… Domani, domani finirà tutto!» (574-575).

In queste righe, le righe che concludono Il giocatore, emerge chiaramente la componente principale della passione/ossessione per il gioco, e non solo di Aleksej, ma di Dostoevskij stesso, giocatore accanito, a tal punto da costringere Anna Grigor’evna ad impegnare gli abiti: il rischio. A proposito di questo argomento, interessante l’interpretazione di Freud, attento lettore e studioso del grande scrittore russo, che individua nel gioco l’impulso ad autopunirsi e ad autodistruggersi, impulso presente in tutti i personaggi russi del racconto e indissolubilmente legato alle loro passioni. Rifiutando con sommo disprezzo il protagonista, scaraventandogli in faccia il denaro dopo essersi pubblicamente compromessa, per poi fuggire con mister Astley e disonorare la famiglia, Polina punisce se stessa, sorta di versione femminile del terenziano Heautontimorumenos, mentre Aleksej, nell’ebbrezza e nel rischio della roulette trova un surrogato del suicidio, frutto evidentemente di un profondo sentimento di insoddisfazione nei confronti di se stesso, di vergogna nei confronti della sua natura poetica, romantica, che non trova riscontri positivi prima della sua rovina, e quando questi si manifestano, nella confessione di mister Astley, oramai è troppo tardi e tutto è perduto [7].

NOTE

[1] Per un approfondimento sui quattro maggiori romanzi di Dostoevskij rimando agli articoli Delitto e castigo, dalla dialettica alla vitaL’idiota, il fallimento della bellezza, Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Seconda parte, Aleksèj Niljč Kirillov, l’Uomo-Dio, I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Prima parteI fratelli Karamazov, il «libro sacro». Seconda parte, Fëdor Dostoevskij, Il Grande Inquisitore.

[2] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 119.

[3] Questa l’infiammata invettiva di Aleksej contro l’«idolo tedesco»: «Il metodo tedesco di accumulare ricchezze. Non è molto tempo che sono qui, eppure tutto quello che sono riuscito ad annotare e a riscontrare fa ribollire il mio sangue tartaro. Santo Dio, mi si risparmino certe virtù! Proprio ieri ho avuto modo di fare qui intorno un giro di una decina di verste. Ebbene, è tutto perfettamente identico a quel che si trova in quei libretti tedeschi di edificazione morale con le illustrazioni: ovunque, in ogni casa, hanno il loro Vater, terribilmente virtuoso e insolitamente onesto. Onesto a tal punto che il solo avvicinarlo mette paura. Non riesco a sopportare le persone oneste, quelle che metton paura se solo le si vuole avvicinare. Ognuno di questi Vater ha la sua famiglia, e la sera tutti loro leggono ad alta voce libri istruttivi. Sulla casetta stormiscono olmi e castagni. Il tramonto del sole, la cicogna sul tetto, tutto è così straordinariamente poetico e commovente… Non adiratevi, generale, consentitemi di raccontarvi una cosa ancor più commovente. Io stesso ricordo che la buonanima di mio padre, di sera, sotto i tigli nel giardinetto davanti casa, leggeva a sua volta ad alta voce a me e a mia madre libri del genere… Di conseguenza sono in grado di esprimere in proposito un giudizio conveniente. Bene, ogni famiglia di questo tipo qui è tenuta dal Vater in stato di schiavitù e di sottomissione. Tutti lavorano come buoi e tutti accumulano quattrini come giudei. Supponiamo che il Vater abbia già messo insieme un bel gruzzolo di gulden e faccia conto sul figlio maggiore per lasciargli l’attività o il pezzetto di terra; per questo motivo non daranno la dote alla figlia e questa resterà zitella. Per lo stesso motivo venderanno il figlio minore come servo o come soldato e aggiungeranno il ricavato al capitale domestico. È tutto vero, qui si fa così; mi sono informato. E tutto questo lo si fa soltanto in nome dell’onestà, di un’onestà esasperata, al punto che lo stesso figlio minore crederà di essere stato venduto solo ed esclusivamente in nome dell’onestà: e la situazione è veramente ideale, quando è la stessa vittima a rallegrarsi del fatto che la stiano trascinando all’olocausto. Volete saperne un’altra? C’è che anche per il figlio maggiore le cose non vanno meglio: ha una certa Amalchen, con la quale si è sentimentalmente unito, ma i due non possono sposarsi, perché non sono stati ancora accumulati gulden a sufficienza. E così anche loro aspettano con sincera morigeratezza e vanno all’olocausto con un sorriso sulle labbra. Intanto le gote di Amalchen si sono avvizzite; la ragazza sfiorisce. Finalmente, vent’anni più tardi, il patrimonio si è moltiplicato; i gulden sono stati accumulati onestamente e virtuosamente. Il Vater concede la sua benedizione al quarantenne primogenito e alla trentacinquenne Amalchen, dal petto avvizzito e dal naso rosso… Intanto piange, legge i suoi libri di morale e muore. Il primogenito si trasforma a sua volta in un virtuoso Vater, e ricomincia la medesima storia. E così in capo a cinquanta o sessant’anni il nipote del primo Vater avrà sicuramente messo insieme un capitale considerevole e lo lascerà a suo figlio, questi lo lascerà al suo e questi ancora al suo, infine, dopo cinque o sei generazioni, spunterà il barone Rothschild in persona oppure la ditta Hoppe e soci o il diavolo sa chi. Allora, non è forse un magnifico spettacolo? Un lavoro ereditario di cento o duecento anni, pazienza, intelligenza, onestà, carattere, fermezza, una cicogna sul tetto! Che cosa volete di più? Mom c’è nulla di più elevato e così essi cominciano a giudicare il mondo dal loro punto di vista e a giustiziare immediatamente i colpevoli, vale a dire coloro che non sono simili a loro sia pure per un dettaglio. Bene, le cose stanno così: preferisco allora debosciarmi alla russa oppure far fortuna alla roulette. Non voglio diventare la ditta Hoppe e soci tra cinque generazioni. I quattrini mi sono necessari per me stesso e non considero tutta la mia persona come un indispensabile attributo del capitale» (Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, traduzione di Mauro Martini, in Id., Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, pp. 487-488). Aleksej non risparmia neppure i francesi: «De Grieux era come tutti i francesi, vale a dire allegro e amabile quando era necessario e vantaggioso, e intollerabilmente noioso quando veniva a mancare la necessità di essere allegro e amabile. Un francese è raramente amabile di natura; è sempre amabile su ordinazione o per calcolo. Se, per esempio, vede la necessità di essere capriccioso, originale, un po’ fuori del comune, allora il suo capriccio più sciocco e innaturale assume forme precedentemente accettate e ormai da tempo divenute volgari. Il francese “naturale” è l’essenza del più borghese, meschino, comune spirito positivo, insomma è l’essere più noioso del mondo. A mio parere, soltanto dei pivelli, e in particolar modo le signorine russe, si lasciano attrarre dai francesi. A ogni persona perbene risulta subito evidente e intollerabile il burocraticismo di quelle forme di amabilità, disinvoltura e allegria da salotto, determinate una volta per tutte» (Ivi, pp. 500-501).

[4] Per un approfondimento sul celebre racconto di Dostoevskij rimando all’articolo Le notti bianche, il dramma del sognatore.

[5] Per un approfondimento sul romanzo rimando agli articoli Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parteDostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Seconda parte.

[6] Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, cit., p. 477. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[7] Della natura poetica di Aleksej parla Dostoevskij stesso: «ha concentrato tutta la sua vitalità, la sua forza, il suo slancio e il suo ardire nella roulette. […] Nel suo genere è un poeta, ma il fatto è che lui si vergogna di questa sua natura poetica perché ne sente profondamente tutta la bassezza, sebbene l’amore del rischio lo nobiliti ai suoi stessi occhi» (Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, cit., p. 119).