Tra i miei diciannove lettori, qualcuno potrebbe anche chiedersi come mai le mie recensioni siano così rade. So che ci sono collaboratori di ALIBI, i quali, in pochi giorni, riescono a scrivere di tutto e di più, mentre io – quando mi va bene – pubblico ogni due o tre settimane. Non voglio certo prendere a scusante impegni (che forse non ho): l’unica vera spiegazione è che sono alquanto pignolo. Prima di chiudere un testo, lo rileggo diverse volte, cerco su internet qualcosa che mi è sfuggita e taglio, taglio.
Qualcosa di simile mi è accaduta con “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante” di Peter Greenaway (1989). Avevo in mente come impostare il lavoro e l’avevo iniziato, quando ho trovato in rete aspetti cui non avevo pensato. E così, una volta ancora, ho ricominciato tutto daccapo.
Il film nasce da un soggetto dello stesso Greenaway, che ne è anche regista e sceneggiatore.
Peter Greenaway
Peter Greenaway è veramente un regista sui generis. Ha chiaro in testa come debba essere il suo cinema e non tiene in troppa considerazione né la critica né il pubblico. Anzi, sembra quasi si diverta a provocare reazioni forti in chi vede i suoi lavori.
Spiego meglio. Si è autodefinito un pittore su celluloide e nella sua opera confluiscono molte forme di sperimentazione, frutto dei suoi molteplici interessi. Sarebbe lungo elencare le allusioni. Cito a caso: Borges, Calvino, Carroll, Vermeer, Arcimboldo, Cage, Purcell, Darwin, Newton o i Tableaux Vivants o la Body art. E senza contare la mitologia, i testi religiosi o persino autori immaginari.
Non finisce qui: volutamente si spinge verso l’eccesso, pur se condito di una buona dose di ironia.
“Il cinema è troppo importante per lasciarlo fare ai narratori di storie”, ha detto una volta.
Ma, visto che mi ci trovo, prima di passare all’analisi del film, concludo il discorso sull’autore.
Peter Greenaway è inglese: nasce a Newport nel 1942 e studia a Londra alla Walthamstow School of Art. Oltre a fare cinema, espone in mostre personali di pittura, presenta istallazioni, cura la regia di spettacoli teatrali, scrive parecchi libri, tra cui diverse pubblicazioni d’arte.
E all’arte, bisogna fare riferimento anche quando si tratta dei suoi lungometraggi, come ne “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante”.
Il film
Parto dalla location. La storia (girata interamente in studio) si sviluppa in un solo luogo: un ristorante molto raffinato. Per ognuno degli ambienti che si susseguono prevale una colorazione. Grazie alla fotografia del vecchio (classe 1919) Sacha Vierny, passiamo dal parcheggio (blu/viola: il mondo esterno freddo e livido), alle cucine (verde: rassicurante come la natura), alla sala da pranzo (rossa: il sangue, la violenza) al bagno (bianco accecante: il Paradiso, secondo lo stesso Greenaway).
Anche gli abiti dei personaggi – firmati Jean-Paul Gaultier – si adeguano, restando a metà strada fra un omaggio al Seicento e il fascino punk del periodo in cui vive.
La macchina da presa si sposta lentamente da sinistra verso destra e, con un gioco raffinato di movimenti e composizioni, porta lo spettatore a scoprire ambienti scenografici ricchi di riferimenti eruditi alla storia dell’arte.
Sul tutto aleggia la voce da castrato del ragazzo Pup e la musica di Nyman. Riguardo a Nyman, va detto che, come in altre occasioni, Greenaway preferisce operare sulla base di partiture preesistenti alle immagini, adattando così le sequenze alla musica. Interessante il fatto che ricorra come main theme a un brano (“Memorial”) composto per commemorare le vittime dello stadio Heysel.
E poi c’è da parlare della pesante allegoria politica. Siamo in piena era thatcheriana e non è difficile comprendere come il ladro impersoni il capitalismo “affamato”, dedito alle più efferate angherie, al quale si contrappone l’amante, uomo di libri, simbolo della cultura e della ragione.
Per restare poi nell’ambito metaforico, come non pensare a Freud e a tutti i complessi intrecci psicologici tra cibo, sesso e morte.
“La gente in genere ama ricordarsi della morte. Mangiare pietanze nere è come consumare la morte, è come dirle: “Morte, ti sto mangiando”. Il tartufo nero è la cosa più cara, insieme al caviale nero: morte e nascita, la fine e il principio…”, dice il cuoco al ladro.
In definitiva, “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante” è il tentativo di portare la rappresentazione cinematografica ai suoi limiti. Questo, sia dal punto di vista culturale, legando il film a riferimenti pittorici e a simbolismi vari, sia dal punto di vista della rappresentazione tout court, non tralasciando mai i momenti più raccapriccianti o le immagini più ripugnanti. [Non per niente, questo film è stato avvicinato per molti aspetti a “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini].
Il film fa il suo debutto alla Mostra del Cinema di Venezia: il direttore di allora (Guglielmo Biraghi), immaginando il polverone di critiche che avrebbe generato, preferisce metterlo fuori concorso. Infatti le accoglienze sono piuttosto discordanti, anche se, a tutt’oggi, resta il film di Greenaway che ha più incassato al botteghino.
Note
Rifacendomi al discorso sull’arte, cito almeno il dipinto che campeggia attorno ai tavoli dei commensali: è il “Banchetto degli ufficiali della milizia di san Giorgio” di Frans Hals.
E, come non pensare, guardando solo da semplici spettatori, a “L’ultima cena” di Leonardo?
La struttura entro la quale si muove il lavoro di Greenaway è chiaramente teatrale (nella versione home video, inizia con un sipario che viene aperto sul cortile del ristorante). Si è parlato tra i critici di commedia drammatica farcita da humour nero, di tragedia post scespiriana o di melodramma ironico e grottesco. Sempre comunque tentativi di portare all’estremo il cinema.
Chiudo con un aneddoto grazioso. Greenaway utilizza il colore come in alcune tendenze dell’arte contemporanea: cioè separandolo dal realismo. A questo proposito, a chi gliene chiedesse il motivo, il regista inglese raccontava della risposta di Picasso a chi gli domandava perché avesse dipinto il cielo in verde: “Perché avevo finito il blu”.
L S D
Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante
- Regia: Peter Greenaway
- Soggetto: Peter Greenaway
- Sceneggiatura: Peter Greenaway
- Interpreti: Richard Bohringer, Michael Gambon, Helen Mirren, Alan Howard, Tim Roth