Maschere, corpi nudi e passione: tutto il mondo del Lago dei Cigni a Gorizia • Il Goriziano
Maschere, corpi nudi e passione: tutto il mondo del Lago dei Cigni a Gorizia

Maschere, corpi nudi e passione: tutto il mondo del Lago dei Cigni a Gorizia

la recensione

Maschere, corpi nudi e passione: tutto il mondo del Lago dei Cigni a Gorizia

Di Rossana D'Ambrosio • Pubblicato il 06 Gen 2024
Copertina per Maschere, corpi nudi e passione: tutto il mondo del Lago dei Cigni a Gorizia

L'opera del Balletto di Roma, andata in scena ieri al Verdi, mette a nudo una lunga parabola evolutiva. La favola della passione riscritta con la danza.

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Cigni distesi in un lago immaginario, le braccia dei ballerini innalzate verso il cielo, con le mani che si aprono e chiudono a imitare il becco. È una vecchia compagnia di attori anziani, quella che apre la scena al Teatro Verdi di Gorizia, nella vigilia dell’Epifania che inaugura il nuovo anno. Ispirandosi liberamente al “Lago dei cigni” di Čajkovskij - e all’atto unico “Il canto del cigno” di Anton Čechov - il coreografo e regista Fabrizio Monteverde mette in scena “Il lago dei cigni, ovvero il canto”, con i danzatori del Balletto di Roma.

È la storia di una compagnia scalcagnata ormai in declino, rimasta chiusa dentro un teatro a provare l’unico balletto eseguito in gioventù. Un’operazione magica - quella di Monteverde - che in una sorta di incantesimo invecchia i personaggi mostrandoli sciatti e spettinati, con vesti sdrucite o scialbe braghe da casa. A sorprendere il pubblico sono però le rugose maschere, indossate coraggiosamente fino a conclusione dello spettacolo. Piegate in due dalla fatica e dal dolore, le ballerine stentano a muoversi con scioltezza – salvo poi rifiorire e sbocciare negli antichi corsetti.

Da quest'ultimi palpitano ali di tulle, piume arruffate di buffi cigni dolenti. Il cambio delle vesti ha luogo sul palco, mentre le ballerine a torso nudo voltano le spalle al pubblico. Una scelta artistica inattesa, giustificata dalle prove di allestimento cui la riscrittura del balletto riconduce. Tolte le sottane sbiadite e i calzettoni, una lenta metamorfosi le trasforma in delicati cigni in grado di sollevarsi nell’armoniosa unione di classicità e modernismo. Una sorta di “Promessi sposi alla prova”, in cui i ballerini si cimentano a riscrivere la favola della passione che brucia i due amanti senza però il lieto fine del Manzoni.

Perché Siegfried - Alessio di Traglia - e Odette – Roberta De Simone, classe 1989 - si ameranno ferocemente per poi perdersi in mezzo a cenci colorati. In quella montagna di stracci che si staglia sul fondo, che trae ispirazione dalla “Venere” di Michelangelo Pistoletto – installazione del 1967, la cui replica è andata a fuoco lo scorso anno nel cuore di Napoli. Una contemporanea Venere-Odette a simboleggiare la vita mescolata alla finzione, la perfezione della bellezza classica che dialoga con l’odierno caos variopinto.

A dividere la loro unione, il maleficio del mago Rothbart (Paolo Barbonaglia), il quale trasforma Odette in un cigno bianco, presentandogli invece la figlia Odile (Carola Puddu - che ha partecipato anche alla scuola di “Amici di Maria De Filippi”). Convinto di essere al cospetto dell’amata, Siegfried le giura eterno amore, mentre Odette si abbandonerà alle acque del lago. In questa fiaba contemporanea è però Siegfried, a svanire inghiottito dalla montagna di stracci. Mentre la sua amata si volterà verso il pubblico - sfilandosi finalmente parrucca e maschera di rughe, per rivelare la pelle marmorea del suo volto reale. Una sorta di rinascita della Venere, che perse le sembianze eteree di quella botticelliana diviene una donna forte e virile.

Con sorpresa dello spettatore, De Simone sfilerà il proprio corsetto mostrandosi a seni nudi, in tutta la prorompente giovinezza. Non mancano richiami alle danze spagnole, russe, napoletane, in cui gli anziani giocano a esibirsi con vanità e passione carnale. Perché in questo balletto l’amore non è allusione, ma presenza prepotente e disarmante. Non è soltanto l’eterna lotta fra il Bene e il Male, quella che va in scena. È la danza dell’uomo contrapposto alla donna, mostrata attraverso i finti schiaffi che si scambiano i danzatori, su cui sempre trionfano baci e carezze.

Una contrapposizione orchestrata fin dallo spartiacque simbolico dei costumi di scena, inizialmente gettati alla rinfusa sul palco. Abiti disposti in quel cerchio magico che ricrea il lago, poi ordinati a delineare un confine netto fra uomini e donne. Coralità di una compagnia in declino che è antitesi alla solitudine tragica dei due amanti. Un’opera struggente e delicata che riscrive il classico libretto russo attraverso le coreografie di quattordici ballerini. Dal 1877 - anno della prima rappresentazione al teatro Bol’šoj di Mosca - ai giorni nostri, questo “Lago” mette a nudo una lunga parabola evolutiva. Dove la classicità cede il passo all’arte contemporanea e al genio di Monteverde, che inizia la propria attività nel lontano 1976.

Una densa carriera che lo porterà a perfezionarsi al fianco dei grandi maestri di danza - da Moses Pendleton a Bruno Diezen, Peter Goss, Daniel Lewiss. Al 1989 risale il suo “Giulietta e Romeo”, mentre nel 1994 dirige “Otello”, cimentandosi anche nella regia teatrale con “Le tre sorelle” di Čechov. Fino ad approdare alla riscrittura del “Lago”, che è un viaggio metaforico nella bellezza e nell’amore, in grado di trasformare crisalidi di ballerine in farfalle. Quell’amore struggente simboleggiato dalla forza di Odette contrapposta a Odile, due donne che finiranno per sovrapporsi in un’unica entità.

“Condannata a una perenne metamorfosi, donna a metà tra il bene e il male, Odette/Odile sarà cigno e principessa, buona e crudele, amante fedele e rivale beffarda. Metafora di un’arte che non conosce traguardo, cercherà se stessa in un viaggio tormentato d’amore, tradimento, prigionia e liberazione”, recitano le note di regia. Una fiaba in chiave moderna, con cui Monteverde guarda oltre la tradizione, nell’accezione piena e totale della fruizione estetica. Una messa in scena capace di trascendere la realtà narrativa, in quell’infinita ri-creazione che giace in ogni allestimento.

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