Visto e imprevisto: perché gli economisti non “predicono” le crisi

Il fallimento di Silicon Valley Bank e i guai di Credit Suisse risvegliano i timori di una crisi finanziaria. Ma in passato gli esperti non hanno sempre centrato le previsioni
New York Stock Exchange
New York Stock ExchangeSpencer Platt/Getty Images

Il fallimento di Silicon Valley Bank segna l’inizio di una nuova crisi finanziaria? È la domanda che in questi giorni anima i dibattiti di economisti e investitori. La scossa che ha abbattuto l’istituto californiano ha raggiunto in un baleno altre banche regionali statunitensi e ha attraversato l’Atlantico fino ai confini elvetici, seminando il panico nel settore bancario europeo. Panico che sul momento è stato sedato: la First Republic Bank, l’altra a rischio di collasso dopo Svb, è stata salvata da un consorzio di undici banche americane. Mentre la banca centrale svizzera ha spento il rogo scoppiato in Credit Suisse con un prestito di 50 miliardi di franchi, dopo che il titolo in un solo giorno aveva perso il 30% del suo valore. 

I mercati tuttavia restano nervosi, quasi fossero in attesa della prossima scossa. Che arrivi sul serio o sia solo un presagio è troppo presto per dirlo, ma alcuni iniziano a intravedere segni di instabilità. Del resto le crisi finanziarie non arrivano mai in un colpo solo. Il filosofo e matematico Nassim Taleb, divenuto popolare con il suo libro Il cigno nero, nelle ultime ore ha scritto in un tweet che assomigliano più alle “cattive relazioni: dramma, tristezza, ripresa, ottimismo, poi un altro dramma, altra tristezza, un enorme rimbalzo, poi…”. Ma il quadro generale non è sempre così evidente, e gli economisti hanno ben poche vincite da assegnarsi. 

Silicon Valley Bank
La fine dei tassi di interesse a zero ha messo sottosopra i bilanci della banca californiana, cresciuta rapidamente grazie al boom del settore tecnologico. E ora si attendono le prossime mosse della Federal Reserve

Chi indovinò la Grande recessione

È balzata agli onori della cronaca l’inaugurazione dell’anno accademico alla London School of Economics il 13 novembre 2008, quando la Grande recessione era solo agli albori. L’ospite di riguardo era nientemeno che Elisabetta II. Fu osservando il disastroso andamento dei mercati finanziari rappresentato in un grafico che la regina chiese: “Ma come è possibile che nessuno si sia accorto che stava arrivandoci addosso questa crisi spaventosa?”. Di certo la platea non era preparata a rispondere, né la maggioranza degli accademici aveva previsto che la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti avrebbe innescato un tale sfascio. 

In quegli anni il sentimento prevalente era un moderato ottimismo. L’influente economista Olivier Blanchard, a lungo responsabile economico del Fondo monetario internazionale, scriveva nel 2008 che lo stato della macroeconomia è buono”. Dello stesso tenore era stato qualche anno prima il premio Nobel Robert Lucas: “Il problema centrale della prevenzione della depressione è stato risoltoaffermava nella più importante rivista accademica di economia – e lo sarà per molti decenni”. Lo stesso Ben Bernanke, governatore della Federal Reserve dal 2006 al 2014, dichiarava che gli Stati Uniti si trovavano nel bel mezzo della “grande moderazione”, un’epoca d’oro caratterizzata da bassa volatilità economica. Da “grande moderazione” a “grande recessione” il passo fu breve. 

A onor del vero più di una voce si alzò dal coro. La più nota è quella di Nouriel Roubini: l’economista americano si guadagnò l’appellativo di “Mr Doom” (Signor Sventura), per aver tentato di avvisare l’opinione pubblica che c’era poco da essere ottimisti sulle prospettive dell’economia. Più curiosa la storia di Michael Burry, il guru di Wall Street famoso per aver ispirato il film The Big Short: Burry riuscì a guadagnare centinaia di milioni di dollari scommettendo che la bolla immobiliare dei mutui subprime sarebbe scoppiata nel 2007. Ma le voci dissonanti furono accolte con scetticismo e il sisma arrivò senza che nessuno fosse davvero preparato. 

effetto domino
Il crollo dell'istituto non è solo un problema del settore tecnologico e le sue ripercussioni potrebbero andare ben oltre i confini della California

Cosa prevedono gli economisti

Oggi l’umore è ben diverso dall’ubriacatura di ottimismo che dilagava prima del 2007. Dalla crisi dei debiti sovrani del 2012 alla pandemia, fino all’invasione dell’Ucraina, tanto l’alta finanza quanto gli economisti sono consapevoli che non si è mai al riparo dalle scosse: il fallimento di Silicon Valley Bank (Svb), una banca piccola con attività geograficamente circoscritte, ne è l'esempio lampante. 

Già in tempi non sospetti, ancora prima della comparsa del Covid, molti economisti avevano profetizzato un rallentamento dell’economia globale. E le principali istituzioni internazionali, dall’Ocse al Fondo monetario, andavano via via confermando che l’espansione aveva superato il picco. 

Ma nell’ultimo anno i pronostici di crisi si sono fatti più insistenti: l’economista Larry Summers, professore di Harvard ed ex ministro del Tesoro americano, ha dichiarato lo scorso giugno che “una recessione è probabile, entro uno o due anni” a causa dell’inflazione elevata. A fargli eco gli economisti del World Economic Forum a gennaio: due terzi di loro prevedono una recessione globale nel 2023. Sotto accusa anche le politiche monetarie della Fed e della Banca centrale europea per contrastare l’aumento dei prezzi: il premio Nobel Joseph Stiglitz negli ultimi giorni ha criticato con durezza i rialzi dei tassi di interesse, secondo lui “la strada più diretta e sicura per la recessione”. Del resto la fine dei tassi a zero è anche all’origine del collasso di Svb. Non si può dire con sicurezza se le turbolenze nel settore bancario siano l’inizio di una crisi più vasta. Ma se così fosse, di certo stavolta nessuno potrà sostenere che gli economisti non avevano avvisato.