Civil War dello sceneggiatore e regista Alex Garland inizia con una sorta di avvertimento: “Business is business”. Gli albergatori avvertono i loro ospiti che le interruzioni di corrente causate da un attentato suicida nell’isolato potrebbero rendere un’opzione più sicura salire 10 piani a piedi che prendere l’ascensore. Nel fermarsi a fare benzina c’è il 50% di probabilità di uscire con il serbatoio pieno o di lasciarci la pelle. I negozi di abbigliamento di piccole città sono aperti normalmente, ma per sicurezza hanno cecchini piazzati sui tetti.

Meglio conosciuto per la fantascienza e un horror non banale, questo non è il film che ci si sarebbe aspettati. Sceneggiatore e regista di Ex MachinaAnnientamento 28 giorni dopo, Garland evita le “grandi visioni” dei suoi lavori precedenti, in favore di una sorta di immediatezza della cronaca: mettere come protagonisti i corrispondenti di guerra al centro di un’apocalisse americana incredibilmente reale. Spaventoso, squilibrato e disumano, Civil War è un film di puntigliosa precisione modellato su un argomento che evidentemente Garland vuol far credere possibile.

Negli ultimi giorni di questa seconda guerra civile americana, Lee (Kirsten Dunst), una disincantata fotoreporter, cerca di arrivare da New York a Washington, per documentare la caduta della capitale della nazione nelle mani delle “forze occidentali”, un’alleanza tra California e Texas impegnati in aperta ribellione contro il governo federale. Allo stesso tempo, si avvicina anche la “Florida Alliance”, che sta tentando di rovesciare altre aree del paese.

In viaggio con Lee ci sono il survoltato collega Joel (Wagner Moura), l’anziano mentore Sammy (Stephen McKinley Henderson) e Jesse (Cailee Spaeny), un’ambiziosa giovane che vorrebbe diventare fotografa di guerra, che si unisce al gruppo nonostante i dinieghi di Lee, che non vuole avere al traino una ragazzina inesperta in situazioni di pericolo. Mentre i quattro si fanno strada attraverso insidiose autostrade e strade secondarie di un paesaggio stranamente deserto degli Stati Uniti orientali, Lee fa del suo meglio per spiegare a Jesse cosa significhi fare il suo mestiere in un paese che è ormai diventato indistinguibile dalle zone di guerra in cui si è trovata. E soprattutto senza una copertura militare che ti protegga.

Garland vorrebbe darci un assaggio di come potrebbe apparire un conflitto armato di questa portata sul suolo americano, presentandolo agli spettatori non come un esercizio concettuale, ma il più vicino possibile a una raccapricciante e sanguinosa realtà. Per farlo usa telecamere portatili all’avanguardia, che praticamente danno la stessa visione della testa in movimento di un essere umano. Inoltre l’attenzione alla precisione tattica attentamente coreografata nelle sequenze più crude del film rendono il caos e lo spargimento di sangue di Civil War fin troppo reali: un’escalation di sgomento (e anche compiacimento, a nostro parere) che rivaleggia con lo stile crudo che Kathryn Bigelow ha inaugurato anni fa. Ma se c’è un messaggio contro la guerra, viene sepolto da spari e sangue: i passaggi al rallentatore e i silenzi che precedono la violenza degli incontri sono prodromi all’eccitazione del cinema d’azione.

La sceneggiatura di Garland trascura del tutto gli eventi che portano al conflitto di Civil War. La realtà apparentemente inverosimile di un’alleanza tra California e Texas (due stati le cui maggioranze in realtà votano in maniera opposta) è una provocazione in un film che presuppone che i motivi del conflitto armato siano secondari, se non irrilevanti, rispetto al bilancio dei morti e alla normalizzazione della violenza.

La Dunst interpreta Lee come se alla fine del suo viaggio verso la capitale non vedesse altro che una morte a cui si è già rassegnata. Lee ha poco da dire, i suoi occhi parlano chiaro come un personaggio che ha visto tutto, incapace di sgomento davanti a un’America che si sgretola davanti ai suoi occhi. La protagonista vive in prima persona lo scenario di un paese che corre verso l’estinzione senza neanche sapere perché. Il suo regista, con la convinzione che qualunque cosa sbatta in faccia allo spettatore non possa mai essere abbastanza.

Beppe Musicco

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