Prevedere = conoscere in anticipo o annunciare quanto accadrà in futuro sulla base di presunte doti divinatorie; predire: p. il futuro; Questo è il verbo che più si addice al tipo di Cinema presente nella seguente analisi, capace di predire un qualcosa che avverrà ma che forse già è presente. I titoli di film presentati sono diretti da registi profondamente diversi, di opposte provenienze e di divergenti epoche ma tutti accomunabili sotto lo stesso desiderio, la stessa volontà di credere, in modo razionale, che il futuro dimostri in modo esplicito ciò che affigge il presente, a livello sociologico e politico. Di fantapolitica, appunto stiamo parlando, cioè quel sottogenere emissario della fantascienza che più qualsiasi altro nei decenni ha saputo dimostrare l’inghippo che costituisce una nazione la differenza tra uno stato unitario ed un singolo individuo ed il rapporto tra di loro.
Il 18 Aprile uscirà nei cinema italiani: Civil War, il nuovo film di Alex Garland, il quale dimostra la fragilità di un paese così imperante e dominante come l’America attraverso gli occhi di una guerra civile, il cui scopo è necessario, ancora una volta, a determinare quanto l’indole dell’uomo sia bestiale e se mossa solo da ragioni, quali avidità e tornaconto personale, non guarda in faccia nessuno.
Ecco 10 film simili a Civil War, che ricordano la portata sia in termini cinematografici, sia in termini sociali, la nuova opera di Garland.
10. Todo Modo – Elio Petri (1976)
Quando, nel 1976, uscì la trasposizione cinematografica del romanzo Todo Modo di Sciascia, ad opera di Elio Petri, di tutto si poté parlare tranne che di «riduzione», visto che la pellicola dilata il contenuto del soggetto ben oltre le intenzioni dello scrittore siciliano: proprio quest’ultimo dichiarerà che la sua opera voleva essere una critica alla Chiesa, mentre il lungometraggio di Elio Petri era divenuto un attacco frontale all’intera classe dirigente, oltre ad un film sulla e contro la Democrazia Cristiana. Il film di Petri, quasi contemporaneo al Salò Pasoliniano ne presenta molte analogie, tuttavia anche numerose differenze sia estetiche che simboliche, non subì una vera censura ma un certo ostracismo culturale e un’evidente penuria distributiva, per non parlare dell’effetto profetico determinato dalla previsione sulla morte di Aldo Moro, che avvenne appena due anni dopo la sua uscita.
Nel lavoro di Petri l’io narrante è la macchina da presa che racconta tre giorni di esercizi spirituali da parte di un’accolita di potenti: un ministro, svariati politici, direttori di giornali, tutti all’interno di un albergo, gestito dal prete gesuita Don Gaetano.
Per via delle caricature di Gian Maria Volonté e Michel Piccoli ai limiti del grottesco, l’opera fu riparata da censure e possibili querele e in più le permisero di non esaurire la propria carica provocatoria alla sola Dc, divenendo un’universale metafora della consunzione politica e dell’ambiguità del potere. La pellicola è teatrale in tutto: dal parodistico mimetismo di Volonté alle statue stranianti di Ferretti, dai movimenti scenici alla crudeltà di Mastroianni, la cui ferocia diviene il contraltare espiatorio della finta bonomia del Presidente. L’incredibile prova di Ciccio Ingrassia, dirigente minore dall’oscuro passato e pronto all’auto-martirio e alla flagellazione pur di rientrare nelle grazie del Presidente.
Un finale espressionista che ricorda proprio il girone del sangue pasoliniano in Salò, e in questa parabola autodistruttiva, immortala il canto del cigno di una casta vicina al compromesso storico e non più capace di intercettare la fiducia del popolo, né a livello elettorale né sul piano morale. La religione in questo film è così intrecciata alla politica che Gian Maria Volonté finirà col vestirsi da prete incoraggiato da un luciferino Mastroianni: «Hai mai provato a vestirti da domma? Provaci almeno una volta, è un po’ come sentirsi donna». Todo Modo rinnova, consacra ed esaurisce il sodalizio fra Petri e Volonté ma a differenza di Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, nel quale il potere doveva reprimere e la legge si voleva immutabile e scolpita nella pietra, il potere è qui tutto nel linguaggio, nell’abuso di avverbi altisonanti e nelle perifrasi prive ormai di ogni significato.
Con Todo Modo si avvalora ulteriormente una cinematografia politica che proprio con Petri, Rosi, Bellocchio, Montaldo, Bertolucci e ovviamente Pasolini, ha saputo cogliere la fine di narrazioni collettive più che trentennali, misurando la tempra al laicismo crescente. La pellicola di Petri spinge la metafora sulla collusione del potere fino al monito universale rappresentato dai cumuli di cadaveri giustiziati da un’invisibile nemesi, col rosario in bocca e su un tappeto di dossier insanguinati. Il confessionale e l’urna si sovrappongono, il votivo e il votante s’intrecciano nell’allucinazione collettiva di un partito in grado di abbindolare un popolo intero.
9. Alba Rossa – John Milius (1984)
Alba rossa, realizzato da John Milius esce nel 1984. Nonostante siamo nel pieno del primo mandato di Ronald Reagan, Hollywood non ha ancora capito appieno dove tiri il vento. La grande ondata di titoli reazionari a stelle e strisce deve ancora arrivare: Rocky IV, Rambo II, Top Gun e Cobra. Alba rossa esce prima di tutti questi titoli, anticipando lo spirito del tempo che sta per venire. È reazionario, è violento, è retorico, è sgradevole. Non sorprende quindi che venga accolto malissimo dalla critica americana democratica e liberal, la quale lo l’etichetta come “peggior film mai girato”.
Mai ci fu sentenza più antimorale e sbagliata: Alba rossa può anche nascondersi sotto la scorza del film reazionario, violento, retorico e sgradevole, ma è anche un film straordinario, il quale narra di un gruppo di ragazzini costretti a diventare partigiani per combattere un nemico che ha invaso il loro Paese. La genesi della pellicola è interessante quanto il film stesso. Nonostante la MGM gli offra un ingaggio stratosferico. Il regista detta le sue condizioni: vuole la libertà di riscrivere il copione da capo. Ottiene tutto quello che desidera e quello che inizialmente era un piccolo film su come la guerra trasformi tutti in mostri, diventa l’Alba Rossa di Milius, un film enorme.
John Milus si immerge nei selvaggi e ben poco politicamente corretti anni Ottanta, trovandoci un parco giochi dove tutto è permesso a uno come lui. E Alba rossa diventa la sua personale montagna russa. Al suo interno ci inserisce l’evocazione di una dimensione mitologica, l’esaltazione dell’individualità e dello spirito libero, il dolente lirismo, la seducente violenza. Il risultato è una pellicola bellissima e terribile, animata dal contrasto tra coscienze traballanti e becere retoriche, da una forza vitale insopprimibile ma anche schiava delle più oscure pulsioni ataviche. Un orribile visione manichea del mondo e del cieco nazionalismo, del tutto unico nel suo genere.
8. 1984 – Michael Radford (1984)
Favola nera che traduce, le più cupe profezie di George Orwell, secondo il quale nel 1984, un regime totalitario avrebbe già instaurato il Terrore, e il resto del mondo, sconfitto in guerra, si sarebbe apprestato a reggergli umilmente lo strascico. Lo scrittore inglese pubblicò il suo romanzo nel 1949, quando il ricordo del nazismo e la minaccia dello stalinismo potevano giustificare il suo pessimismo. Michael Radford con Orwell 1984 ne raccoglie soprattutto il messaggio umanitario, senza dubbio opportuno in un mondo, il quale, sebbene non avesse raggiunto le vette dell’orrore, teneva tutti in stato di preallarme per le nefandezze compiute dai governanti in certi Paesi, facendo temere che alcuni valori stessero per annebbiarsi. Si parla naturalmente dell’amore, della libertà di pensiero, della giustizia sociale, ma anche della libertà di peccare, di scegliersi il cibo, e di parlare come si vuole.
Tutte cose vietatissime dal Partito, il quale puntualmente s’identifica con uno Stato oppressivo che ha diviso i cittadini in iscritti al partito esterno e al partito interno, manipola le volontà e le coscienze con le armi della propaganda di massa esaltando la guerra.
Orwell 1984 non è il grande film che può sembrare a un pubblico ancora fortemente condizionato dalla sfida ideologica fra democrazia e dittatura, ma è un esorcismo che mette in scena il futuro quale lo si immaginava sulla fine degli anni Quaranta, ma che vale come monito permanente di pericolo per l’avviarsi di ogni politica assolutista. È un film di fantapolitica dettato dalla tradizione liberale inglese, buono come antidoto di ogni progetto collettivista che annulli la persona.
Michael Radford, conscio che l’avvenire dell’umanità non sarebbe stato così nero, o almeno non lo sarebbe stato sotto questa forma, sapeva, tuttavia, quanto fosse necessario, al fine di reggere il presente, pensare che il peggio potesse ancora venire. Perciò in Orwell 1984 contrappone alle infamie del teleschermo gigante, dominatore sulla vita d’ognuno, alla soavità dei paesaggi naturali, sogno e promessa di quei relitti. Le case fatiscenti, le atroci prigioni, la cornice proto-naziste in cui si consumano i riti di massa, soprattutto l’idea felice di far convivere i vecchi arnesi della comunicazione con le più avanzate conquiste della tecnologia, quali appunto i teleschermi domestici utilizzati come spie. In quegli anni, la fonte maggiore di pericolo era stata decentrata: esso non veniva più dal Partito o da qualsiasi Chiesa, ma dalla mente collettiva che inglobava Partito, Chiesa, TV e Pubblicità, trasformando in reale l’apparenza.
7. Brazil – Terry Gilliam (1985)
Terry Gilliam nel 1985 realizzò Brazil, il quale ci traghetta in un futuro distopico, un mondo freddo, industriale, preda di una tecnologia tentacolare, una società inquinata da una burocrazia repressiva e incompetente. Il protagonista è Sam, un tecnico del Ministero dell’Informazione che sogna una vita nella quale possa volare via e passare l’eternità con la donna dei suoi sogni. Il mondo che lo circonda però è innaturale e ostacolato dalle macchine e dall’architettura opprimente, un mondo occupato da tragici attentati terroristici, sudicio e scuro in cui la fantasia viene in tutti i modi disincentivata.
La realtà di Brazil è soggiogata da un’autorità e da un sistema ossessionati dai documenti, i quali rendono insignificanti le libertà e prosciugano l’umanità. Tutto è progettato per l’efficienza ma è completamente inefficiente. Un mondo claustrofobico in una stanza che lo restringe. Nel dipingere una realtà ossessionata dalla formalità e dalla burocrazia, Gilliam non poteva fare a meno di inserire l’elemento propagandistico: i manifesti trasmettono indottrinamenti che inducono paura e terrore contro il pensiero indipendente, come “Information is the key to prosperity” – l’informazione è la chiave della prosperità; o “Be safe, be suspicious” – sii prudente, sii sospettoso; o ancora “The Truth Shall Make You Free” – la verità vi renderà liberi.
Brazil possiede in sé molto della contemporaneità, sempre più figlia di futili distrazioni, forze dell’ordine sospettose e invasive, preda di tragici attentati terroristici. Ma ciò che riflette il mondo di oggi non è solo il loro modo di perturbare le vite, ma le reazioni dei cittadini: infatti, la stragrande maggioranza delle persone è insensibile a tutto ciò che la circonda, ormai assuefatta alla violenza e al terrore, si dimostra priva di ogni empatia. Ciò che Brazil mostra con cinica analisi è come il consumismo e la normalizzazione della morte siano diventati degli oppiacei, l’ultima seduzione di un uomo schiavo del sistema la quale attenzione viene unicamente rivolta agli spot pubblicitari, all’acquisto di nuovi prodotti e alla chirurgia estetica.
In Brazil gli abitanti delle città sono gelidi e insensibili a ciò che accade perché si fidano del loro governo; una fiducia mal posta poiché nel film non si vedono mai gli agitatori dietro questi attacchi e in genere la colpa ricade sempre su persone innocenti.
Oggi ci stiamo abituando a essere sorvegliati e l’idea della sicurezza diventa una necessità primaria che mette in secondo piano la nostra riservatezza. Tracciamento, telecamere di sorveglianza diventano così un compromesso necessario tra il nostro bisogno di sicurezza e il diritto alla privacy. Ma Brazil ha anche sottolineato come l’autorità sia ossessionata dalla burocrazia, che rispecchia il disagio dello stato, una complessità che si riflette perfettamente nella nostra realtà, serrata da procedure formalistiche e da congetture intricate che impediscono di semplificare le amministrazioni e le procedure fiscali.
Il film critica aspramente la forma obsoleta delle gerarchie governative, abitate da persone che si passano l’un l’altro la responsabilità, mentre ai vertici delle classi dirigenti, coloro che detengono il potere sono persone mediocri, nullafacenti, ignoranti e servili che sfruttano i loro sottoposti per far fronte alla loro totale inadeguatezza. Brazil mette in scena una realtà in cui siamo solo ingranaggi in una macchina e in cui la nostra individualità non ha valore. Il protagonista del film fugge attraverso l’unico mezzo a sua disposizione: i suoi sogni, nei quali si immagina di essere un cavaliere alato che cerca di salvare una damigella in difficoltà: la fantasia e la distrazione sono la sua unica fuga.
Il finale riconosce la vittoria dell’istituzione dispotica sull’individuo: Sam preferisce rifiutare la realtà e rassegnarsi a una passività irreversibile. Brazil suggerisce quanto l’immaginazione sia uno dei pochi rifugi dalla realtà. La lotta dell’individuo contro il sistema attraverso alla fantasia; anche se sussiste solo come un sintomo del suo desiderio, il sogno è intrinsecamente ribelle, è l’unico atto di ribellione e il rifiuto totale di conformarsi.
6. Essi Vivono – John Carpenter (1988)
In quel 1988, il film del grande Carpenter è stato infine ampiamente e giustamente rivalutato per ciò che fu: un perfetto esempio di contro-cultura, nonché simbolo dell’opposizione al conformismo e consumismo di quegli anni. Essi Vivono è un mix tra fantascienza, action, horror e commedia grottesca, attraverso il quale, il regista parlò senza mezzi termini di tutto ciò che egli non sopportava dell’America in cui viveva. Nessun altro film di quel periodo infatti è stato capace di porsi come critica dell’America reaganiana, che dominava anche mediaticamente la società di quegli anni. Nel film, il regista vuole parlarci di un orrore nascosto, di una mostruosità. Quella mostruosità prende vita lentamente, fino a convogliare in una sorta di epifania complottista, con cui distruggere il mito dell’America ottimista, e individualista di quel decennio contraddittorio.
Reagan divenuto presidente, si mette a servizio di un’ideologia neo-liberista che fa a pezzi diritti, minoranze, persegue l’inasprimento della Guerra Fredda, elogia eroismo, militarismo e soprattutto il mito del successo. Basta un oggetto per aprire gli occhi, o forse per non mostragli; un paio di occhiali speciali sono il mezzo attraverso il quale John vede ciò che gli altri non vedono, neppure il suo amico, il quale si rifiuta di indossarli. La lotta che scoppia tra i due, sul fatto di indossarli o meno, è forse il momento semiologicamente più interessante di Essi Vivono. Carpenter crea il simbolo della negazione di una verità che ci fa paura, di vedere ciò che vi è oltre la superficie: il rifiuto è la più prevedibile delle reazioni umane.
John è il tipico perdente dell’America di Reagan: operaio, umile, povero, emarginato, estraneo alla cultura del successo e del consumismo, diventa per una serie di casualità motore di una ribellione che cerca come può di mostrare alle masse l’inganno in cui vivono. John e Frank decidono di porre fine a questa dittatura. Carpenter crea un crescendo straordinario, predisponendo un viaggio dentro i luoghi simbolo dell’America consumista e allineata, quella che crede al nuovo “American Dream”. Era un sogno di fatto composto da egotismo, intolleranza verso il diverso, l’oppressione del dissenso che in quella parte di paese che non doveva aver alcuna voce.
In un’America dove film di prima liena riportano all’ordine del giorno il tema dell’infiltrazione comunista ed il terrore per l’attacco nucleare, Carpenter ribalta tali sentenze: il nemico è interno, è un nemico di classe. A guardarlo oggi, dopo tanto tempo, Essi Vivono appare sinistramente attuale, terrificante nella sua natura di profezia di ciò che il mondo è diventato nel XXI secolo: una tecnocrazia, la dittatura dell’algoritmo, dei social, i quali conducono l’esistenza umana. La nostra è una società dove la volontà viene etichettata, registrata, analizzata e infine indirizzata lì dove al potere conviene, si tratti di film, di cibo, musica o del voto politico.
5. Gattaca: Le Porte dell’universo – Andrew Niccol (1997)
In questo film del 1997 ci s’interroga sulle ripercussioni che potrebbe avere l’eugenetica sulla sfera privata e sui rapporti sociali di un individuo. «Si diceva che un figlio concepito nell’Amore avesse maggiori probabilità di essere felice, oggi non lo dicono più». Con queste parole il protagonista del film ci introduce alla società in cui vive. Una società futuristica in cui la pratica dell’eugenetica segna sin dalla nascita i destini degli individui. Il frutto di un concepimento libero, dell’incontro casuale tra di due persone che si amano, rende l’esistenza di un individuo “non valido”. In questo futuro immaginario è possibile ricorrere alla fecondazione in vitro e scegliere in laboratorio quale tra i vari embrioni portare avanti: secondo pratiche di eugenetica è possibile scartare gli embrioni che presentano mutazioni genetiche associate a malattie, deficit fisici, cognitivi o emotivi e selezionare l’embrione geneticamente migliore, che darà quindi vita a un «valido».
Niccol descrive un futuro prossimo contraddistinto da lotte di classe. Vincent, è nato con un DNA non modificato ed ha ereditato lo stesso problema cardiaco del padre. Secondo l’esame del sangue la sua aspettativa di vita è di soli trent’anni. Ma Vincent ha un sogno: diventare astronauta e lavorare a Gattaca, l’ente aerospaziale responsabile delle missioni interplanetarie. Riesce ad entrare, ma solo come addetto alle pulizie, fino a quando un uomo gli propone di comprare l’identità di Jerome, un ex atleta valido divenuto paraplegico dopo un incidente. Grazie a una vaga somiglianza, finte urine, sangue e impronte digitali, Vincent riesce a superare l’analisi genetica diventando un membro di Gattaca dove incontra e si innamora della collega Irene.
Oggi la bioinformatica, l’ingegneria genetica, le nanotecnologie si avvalgono di DNA modificati utilizzati in campo medico, come lo screening genetico per diminuire il rischio di malattie. Ma Niccol in Gattaca si domanda quale sia il limite oltre il quale la scienza non dovrebbe andare. Scegliere aspetto e tratti caratteriali di bambini perfetti destinati a un futuro glorioso è giusto o sbagliato? Dividere la società in due classi destinate a non poter interagire. La saliva di un bacio può essere analizzata per scoprire se il partner ha i requisiti genetici corretti?
Vincent ha un destino già scritto nella mappa genetica ma non lo accetta e, esattamente come un genetista in laboratorio, riscrive il suo futuro mostrando la sua validità ad una società che voleva relegarlo ai margini. Il futuro immaginato da Andrew Niccol, è caratterizzato da un’atmosfera tetra che dona al film una dimensione sospesa, senza tempo. Un’opera visivamente ammaliante. Un’inno all’autoaffermazione, all’unicità dello spirito umano, all’imperfezione e contro ogni forma di discriminazione. Un film dedicato ai sogni di un uomo con la testa rivolta verso le stelle, pronto a tornare a casa.
4. V per Vendetta – James McTeigue (2005)
Una figura alta e snella, con un cappello a punta ed un mantello nero, il volto celato da una maschera che raffigurava un uomo pallido, con due baffetti ed un sorriso beffardo ed inquietante. Così nel 2005, apparve al grande pubblico V, il giustiziere mascherato protagonista di V for Vendetta, film tratto da una serie a fumetti di culto del grande Alan Moore. L’ambientazione ci trasporta in un’Inghilterra del futuro stretta nella morsa di un regime dittatoriale, il quale semina terrore e morte tra la popolazione. V for Vendetta diventò in pochissimo tempo un film manifesto, un simbolo fortissimo di una volontà di cambiamento radicale, dell’insofferenza verso quello che veniva definito “il potere assoluto”. Inevitabilmente, per comprendere il film occorre tornare all’inizio del XXI secolo, scosso dagli attentati dell’11 settembre.
Quel giorno aveva cambiato completamente la realtà geo-politica e sociale, creando quell’allucinante inferno che erano le guerre in Medio Oriente, nonché un’ondata di terrore in tutto il mondo. L’amministrazione Bush per prima aveva impresso una svolta autoritaria sul fronte interno. Ovunque, in Occidente, si percepiva un clima di terrore, di chiusura, di intolleranza e sospetto verso il diverso. Non fu quindi un caso che V for Vendetta sviluppasse il tema della paura come strumento di controllo, citando anche i regimi totalirari del XX secolo. Tuttavia, bisogna anche tener conto di un altro, importantissimo aspetto di quegli anni, cioè l’antagonismo verso la globalizzazione.
La globalizzazione fin dalla fine degli anni ’90, era indicata come il nemico numero uno da una forte componente dell’opinione pubblica. Movente attraverso il quale si manifestava il dissenso verso una politica, che era sempre più strumento di conservazione.
In V for Vendetta giace un forte messaggio di ribellione, con la contrapposizione tra popolo e governo, in cui il primo era spesso vittima del secondo. V, con la sua crociata contro il crudele Alto Cancelliere Adam Sutler, la sua vendetta verso chi l’aveva reso un mostro e creato un regno di terrore, diviene agli occhi del pubblico l’alfiere di quel dissenso che nel mondo reale era soffocato con la violenza.
In una realtà così conflittuale, internet sembrò l’unica ancora di salvezza, l’arma con cui cambiare le cose. Di lì a poco la maschera di V sarebbe emersa agli onori della cronaca, la quale indossava quella maschera di Guy Fawkes.
Oggi però, il film risulterebbe quasi ottimista, soprattutto sulla visione del web internet, il quale, ora, invece di risvegliare le masse, si è tramutato in un luogo fatto di falsità e ignoranza. Sembra passato un secolo da quando la maschera di V era il manifesto di chi combatteva una battaglia fortemente politicizzata, ideologica, contro le diseguaglianze e per un mondo più giusto. Non vi è più il sogno di una rinnovata umanità ed empatia, non si odono le note dell’Overture 1812 di Tchaikovsky, mentre esplode il parlamento inglese reso vuoto e vano. Nel finale di V for Vendetta, il pubblico vedeva la marcia compatta di un popolo che in comune non aveva solo la maschera, bensì il desiderio di mondo in cui vi fosse posto per tutti.
3. I Figli degli Uomini – Alfonso Cuarón (2006)
Alfonso Cuarón idealizza una realtà post-apocalittica e post-industriale ricoperto strato di lercio e violenza spontanea, in ogni angolo, attraversata da protagonisti rassegnati, che la vivono con una strana normalità. Questa è l’esistenza, con poco significato, di Theo, vista attraverso gli occhi azzurri di Clive Owen, il quale cerca di sopravvive nella zona franca. Una Londra non troppo distante dal futuro e dal tessuto urbano contemporaneo, la quale però ha qualcosa di diverso. Distopia più cinica, che ci mostra mondi terrificanti non così distanti dal nostro vissuto quotidiano. Un prospettiva abbastanza prossima da poterla quasi toccare, un vicolo dell’esistenza in cui ci potremmo tranquillamente infilare. Architettura dell’angoscia.
Il fulcro tematico ruota attorno al tema dell’infertilità che ha colpito il genere umano. Una vita senza figli è una vita che vale ancora la pena vivere? Poiché se morisse la conservazione della specie, il nostro programma genetico originario, noi tutti non avremmo più di che vivere. Nel 2027, ormai da diciotto anni non nascono più bambini. Un’umanità in bilico fra una parvenza di normalità e un degrado dilagante ai suoi margini, con uno Stato eclissato che per una volta non richiama il clichè distopico del totalitarismo. A Theo viene affidato il compito più importante, la salvaguardia di tutta la razza umana. Che ha il peso di una ragazzina nera incinta, senza passato e senza affetti.
Per compiere la sua missione, il protagonista si troverà invischiato fra i ribelli politicizzati, dei quali fa parte anche la ex moglie Julian e costretto a fingersi immigrato clandestino con la ragazza e una non ben descritta ostetrica, provando anche le vessazioni dei campi profughi. L’immersione avviene attraverso uno scenario di guerriglia, nel quale tutti sparano a tutti e con l’aiuto improbabile più vario, che va dal mentore ritiratosi nella foresta a una zingara sfruttatrice, che si riscopre di buon animo. In finale apre la strada ad una nuova forma speranza attraverso il sentimento di ottimismo che tiene saldamente la pellicola nel campo della fantascienza post-apocalittica senza cinicamente azzardare andando verso una forma di abbandono all’utopia.
2. Hunger Games – Gary Ross (2012)
Nel 2012 il Cinema distopico riaccende la miccia, grazie all’arrivo sugli schermi di Katniss Everdeen, il quale volto ha fatto il giro del mondo e del quale, anche a distanza di diversi anni, è difficile scordarsene. Hunger Games: il primo di una serie di film, divenuti ormai franchise e tratti dall’omonima serie di libri di Suzanne Collins. La storia si snoda in un futuro distopico post-apocalittico, a Panem. A seguito di una guerra civile il Paese è stato diviso in dodici distretti governati da Capitol City, dove ha sede il governo del Presidente Snow, un dittatore che detiene il potere su tutta la nazione. Per evitare il rischio di un’altra guerra e quindi, per alimentare la paura all’interno dei distretti, il regime ha ideato gli Hunger Games, dei giochi mortali dove ventiquattro ragazzi si sfidano finché soltanto un concorrente rimane in vita.
La scrittrice, per la stesura di Hunger Games ha trovato ispirazione da varie fonti. Prima di tutto nella sua passione per la mitologia greca: la trama si rifà alla storia di Teseo e del Minotauro. Il Presidente Snow non è così distante dal re Minosse. È chiaro il riferimento ad un altro importante prodotto audiovisivo, al quale la Collins si è chiaramente ispirata, cioè Battle Royale. Questi esempi evidenziano come il genere distopico, nel cinema e nella letteratura, si rifaccia al passato pur rigenerandosi continuamente. Interessante anche la resa del genere anche alla portata degli young adults, attraverso una violenza più velata. Per quanto sia ambientato nel futuro, Hunger Games esplora problemi inquietanti del nostro tempo. La scelta di utilizzare il progresso dei media come parte centrale della narrazione e del suo sviluppo, infatti gli Hunger Games vengono trasmessi in tv e gli abitanti dei distretti sono costretti ad assistervi.
Tutto, o quasi tutto, è ormai alla mercé dei media: sono sempre maggiori le opportunità per osservare le guerre mentre si svolgono. Con gli anni questo processo sta portando ad una desensibilizzazione della violenza. Inoltre risulta sempre più difficile credere a tutto ciò che ci viene proposto e, a distinguere cosa di quello che vediamo e sentiamo sia manipolato dai media e cosa invece no. Hunger Games indaga anche il problema alla base del classismo. C’è una grande città che governa e consuma ciò che viene prodotto dai dodici distretti. L’identità dei cittadini risiede in questo: nel lavoro che sono chiamati a svolgere per tutta la vita per far funzionare questa grande macchina produttiva che alimenta Capitol City.
Solo all’interno di questo spazio assegnato si costruisce l’identità del cittadino, in maniera rigida e difficile da modificabile. È una forma di oppressione che produce una continua conflittualità. Katniss, Peeta e tutti gli altri protagonisti sono delle pedine politiche in mano ad un governo predominante che si regge sul potere decisionale di pochi. Il testo Hunger Games funge, così, da avvertimento o commento sulle tendenze della società contemporanea. Un film che affronta efficacemente degli argomenti e delle paure realistiche. Alcuni la chiamano fantascienza, altri una realtà possibile. Alcuni pensano che sia una storia per adolescenti, altri come una storia che possa coinvolgere tutti, nessuno escluso.
1. La Notte del Giudizio – James DeMonaco (2013)
Tra qualche anno gli Stati Uniti saranno sfiancati da una rovinosa serie di crisi economiche che porteranno il Paese sull’orlo del disastro sociale. Per mettere fine al declino e portare l’America a una rinascita, l’associazione dei Nuovi Padri Fondatori prende le redini del governo e modifica la Costituzione. Consapevoli che il male è una parte non controllabile dell’animo umano, stabiliscono che una volta l’anno per dodici ore, dalle 7 di sera alle 7 del mattino del 7 luglio, ogni cittadino può dare sfogo ai propri istinti più violenti e compiere ogni sorta di reato senza temere alcuna punizione da parte della legge: è possibile quindi utilizzare armi e uccidere persone così dette ai margini per la società in nome dell’Epurazione, un bagno di sangue catartico che dovrebbe portare alla rinascita non solo economica ma anche morale della Nazione.
La peculiarità di La notte del giudizio è il suo insolito viaggio a cavallo di una storia prettamente di tensione inserita in un contesto di fantascienza distopica e pieno di risvolti morali interessanti. Da una parte c’è un ambiente casalingo, unità di luogo di quasi tutto il film è palcoscenico della classica quotidianità alto-borghese che si trasforma improvvisamente in un ambiente cupo e sconosciuto, abitato da pericoli in ogni angolo, nascosti da un buio onnipresente. Questa parte della storia si concentra maggiormente sulle classiche dinamiche interne a un assedio, che ogni appassionato del genere già conosce anche senza andare troppo lontano. L’aspetto più importante de La notte del giudizio è probabilmente il contesto socio-politico in cui è immersa la vicenda: si calca la mano su un mondo distopico in un futuro abbastanza prossimo, nel quale ogni regola morale viene meno una volta l’anno dando la possibilità di commettere ogni tipo di reato per poter seguire un percorso di espiazione, purificazione e rinascita della razza e della nazione.
La necessità di affrancare la parte più bestiale dell’uomo da ogni restrizione sociale e la conseguente rottura dai vincoli della legge sembra comportare, all’interno del film, soltanto una spiccata tendenza dell’animo umano all’aggressione verso il prossimo e all’omicidio.
una tendenza che viene inizialmente trasfigurata e disumanizzata dalle maschere che gli aggressori portano, quasi a voler tranquillizzare il pubblico rendendo meno familiari e più distaccate figure così violente, per poi assumere in maniera scioccante, nel finale, fattezze molto più familiari. Proprio nell’epilogo si gioca maggiormente sul tema etico dell’impunità concessa dall’autorità e dallo scontro con la morale. Uno spunto, il quale più che riflettere su questioni filosofiche che poco interessano al pubblico del genere, viene utilizzato per fare una satira superficiale sull’uso anti razionale ed anti ragionevole della forza, tramite le armi, vera piaga di una società, come quella americana, dove la violenza è lo strumento per piegare il volere dei più deboli ed emarginati alla volontà della classe dirigente.
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