Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte 1: la nostra recensione del film
Dal reality alle macerie della guerra, in attesa del gran finale.
Non si gioca più ne Il canto della rivolta – Parte 1
: via l’arena del film numero uno e la sua versione larger and
better del film numero due, addio alla rigogliosa foresta con le sue bacche
velenose e le nebbie letali, ciao ciao parrucche, porporina e abiti che prendono fuoco e
arrivederci Peeta, forse amico forse amante prigioniero a Capitol
City.
E’ la guerra, bellezza e nessuno può tirarsi indietro,
né l’eterogenea e afflitta Panem né Francis
Lawrence, chiamato a trasformare in immagini la metà di un libro
più complesso e più farraginoso degli altri, esitante a prendere una
direzione proprio come la sua Katniss Everdeen, malata di tristezza,
rancorosa per essere stata manipolata dai ribelli, struccata e spettinata, mortificata nelle
sue forme longilinee da una grigia tuta da operaio.
La desolazione di città rase al suolo e gli scenari post-apocalittici sono realtà che il regista de La ragazza di fuoco conosce già, visto che le ha raccontate in I Am Legend. Quindi, oltre ad essere una prosecuzione della saga, il suo nuovo Hunger Games continua l’esplorazione delle dinamiche di sopravvivenza dell’eroe solitario, del soldato per caso che osserva sbigottito le conseguenze di un’irrazionale malvagità.
Come aveva fatto Suzanne Collins con l’Impero Romano,
eletto a riferimento dell’ambientazione dei primi due libri,
Lawrence guarda indietro, forse inconsapevolmente e senza lasciarsi
andare a evocazioni trionfalistiche. E allora ecco che, contemplando i cadaveri del Distretto
12, ci tornano in mente i cumuli di ossa delle vittime dell’Olocausto. Ed ecco che si
fa strada, nelle marce e nelle canzoni, la Comune di Parigi con le sue bandiere.
C’è perfino la guerra in Afghanistan e la cattura di Bin
Laden in una missione al buio per recuperare Peeta e
Annie. E siccome l’aggancio con l’attualità
è una delle prerogative della saga, non manca certo il discorso sulla mistificazione
del reale attraverso i media, tema forte dei romanzi che qui si identifica solo con la
propaganda bellica.
Cesar Flickerman rimane allora in sordina
e, insieme alle sue interviste e al popolo bue che lo ascolta rapito, se ne va ogni rischio di
cedere a uno stile da videogame, videoclip o da reality show. E’ un bene, non
c’è dubbio.
Rende invece perplessi, in un continuum che ha comunque una sua compattezza,
l’assenza delle giuste pause, di quei momenti leggeri che aiutano a conoscere
meglio i personaggi.
Così qualcuno si perde: non
Katniss, lei no, lei è sempre magnifica, e nemmeno il
Plutarch di Philip Seymour Hoffman (che
emozione ritrovarlo!) o la new entry Alma Coin, che Julianne
Moore interpreta in maniera sublime. Ma che ne è di quel
Finnick annichilito dal dolore o del nostro caro
Peeta? E di Gale che sposa gli ideali e la filosofia
della ribellione? E perché non possiamo goderci un po’ di più la
cattiveria di Coriolanus Snow? Perché lo esige la logica dei
mega franchise, che elegge l’incompiutezza a strategia vincente. Come per
Harry Potter e I doni della morte
– Parte 1 e per il primo Breaking Dawn, bisogna aspettare, con
una punta di insoddisfazione, l’ultima puntata.
Lasciamo dunque Katniss alla sua disperazione dopo
un’ennesima delusione, lasciamo Gale ad anelare
l’amore della sua bella (noi facciamo il tifo per lui!) e, in attesa di scoprire se la
ghiandaia imitatrice avrà trionfato sui cattivi, gridiamo in coro: “Se noi
bruciamo, voi bruciate con noi!".
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali