Hereditary – Le radici del male

Hereditary – Le radici del male

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Hereditary da un lato guarda a Rosemary’s Baby, ma dall’altro sembra affascinato anche dal neo-paganesimo rurale già intravisto in The Witch di Robert Eggers; un racconto di streghe, ma anche di crisi della borghesia e dei rapporti tra genitori e figli. Un horror d’autore.

Tale madre, tale figlia

Quando l’anziana Ellen muore, i suoi familiari cominciano lentamente a scoprire una serie di segreti oscuri e terrificanti sulla loro famiglia che li obbligherà ad affrontare il tragico destino che sembrano aver ereditato… [sinossi]

Hereditary, che nel sottotitolo italiano si vede aggiungere un Le radici del male che suona un po’ pleonastico, appartiene a quella schiatta di film dell’orrore dalle ambizioni non solo notevoli, ma anche ribadite a ogni pie’ sospinto al proprio pubblico. Se si considera che con questo titolo Ari Aster esordisce alla regia di un lungometraggio, appare davvero impossibile non concentrare la propria attenzione sul finire di luglio sulla storia della famiglia Graham, sull’elaborazione del lutto per la perdita della nonna Ellen, e sull’eredità che la bislacca e anziana donna lascia ai suoi discendenti… Guardando indietro negli ultimi anni appare evidente come l’horror sia tornato a essere, in modo sempre più evidente, lo specchietto deformante attraverso il quale leggere, e tentare di dare intepretazione, al mondo contemporaneo, alle sue strutture sociali, alle sue infinite ramificazioni. Si muovono in quella direzione due tra i titoli più originali, come It Follows di David Robert Mitchell e The VVitch (o The Witch che dir si voglia) di Robert Eggers, che pure tornava indietro nel tempo fino all’epoca dei primi coloni del Nuovo Mondo. Proprio al film di Eggers in qualche modo sembra riallacciarsi Hereditary, che con compassata ma metronomica precisione si insinua nello sguardo dello spettatore quasi fosse pronto a trafiggerlo con piccoli aghi: il tema, la credulità nei confronti di forze oscure superiori all’uomo e con le quali è impossibile entrare in contatto senza accettare la sconfitta, non è poi così dissimile. Se Eggers immergeva la sua narrazione nell’epicentro culturale del puritanesimo, vergando in qualche misura una rilettura quasi lovecraftiana dei romanzi di Nathaniel Hawthorne, Aster suggerisce che un neo-paganesimo possa vivere e respirare oggi, nella cuore pulsante dell’alta borghesia statunitense.

I Graham sono ricchi, hanno una splendida casa su due piani fuori città, si sono isolati da un mondo per il quale rappresentano in ogni caso un’alterità – Annie costruisce plastici curati nei minimi dettagli, e ne sta preparando alcuni per una mostra che dovrà essere allestita nell’arco di qualche mese. Proprio sul concetto di miniatura, microscopica e disumanizzata copia carbone del reale, gioca Aster nella sua messa in scena, a partire da un elegante incipit in cui l’occhio dello spettatore entra ed esce da un modellino che è finto e allo stesso tempo completamente vero, suggerendo un superamento di schemi usurati. Al di là del tema demoniaco, con l’invocazione del Re Paimon che è occhio puntato in maniera diretta sull’orrore, Hereditary si muove interamente alla ricerca di un senso nella costruzione di sé, e della propria “verità”, in una società che non permette divagazioni da uno schema preordinato, in cui tutto è anestetizzato e ricondotto a una percezione accettabile, innocua, mai davvero conflittuale. È anestetizzata Annie, e ancor più il suo placido e trattenuto marito; è anestetizzato anche il figlio maggiore. La “pecora nera” è la più piccola di casa, la tredicenne Charlie (impressionante la performance della sedicenne Milly Shapiro, al suo esordio sul grande schermo ma già a suo agio nel mondo dello show business), che possiede un’anima dark e trasandata che non ha alcuna intenzione di celare al mondo esterno, emette uno schiocco fastidioso con la bocca, non si pettina, si veste in maniera trasandata, decapita gli uccelli che trova morti. È lei il motore oscuro e inatteso di quest’horror che si muove sottopelle, preferendo lavorare su una costruzione d’ambiente prima di accettare in forma compiuta il delirio, il soprannaturale.

Ari Aster architetta una messa in scena elegante, che non ha timore di apparire snervante e gioca in maniera diretta con il riferimento cinefilo più evidente, l’inarrivabile Rosemary’s Baby di Roman Polanski, che proprio nel 2018 ha compiuto cinquant’anni. Lo fa muovendosi su un duplice registro: da un lato il dramma borghese e l’elaborazione del lutto – che in film dell’orrore diventa inevitabilmente l’elaborazione di più lutti, in un processo quasi impossibile da interrompere – e dall’altro l’horror demoniaco, con tanto di pentacoli, insospettabili seguaci e paranoie visionarie. Da questo punto di vista l’ultima parte di Hereditary, che sceglie in modo netto su quale lato della barricata (tra delirio schizoide e verità occulta) prendere posizione, potrebbe creare qualche malumore soprattutto in quella parte di pubblico meno avvezza al genere: si tratta in realtà della dimostrazione di un potere incubale non comune, e non semplice da rintracciare in un panorama contemporaneo – lui sì – affascinato da un nuovo puritanesimo, dove nulla deve essere mostrato, e nulla deve arrivare a perturbare lo spettatore. Ari Aster ha il coraggio di farsi beffe di questa discutibile prassi odierna e firma un’opera altera, non sempre equilibrata nella gestione dei tempi ma carica di fascino e in grado di angosciare lo spettatore, costringerlo a uno sguardo disallineato, mai prono, che riporta il concetto di “demone” alla sua etimologia greca: essere divino, estraneo alle miniature immobili e perfette solo all’apparenza che sono gli esseri umani.

Info
Il trailer di Hereditary.
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