Giuliano Amato: “Una grande alleanza europea per il clima” - la Repubblica

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Giuliano Amato: “Una grande alleanza europea per il clima”

Giuliano Amato (ansa)

Giuliano Amato (ansa)

 
Intervista al presidente emerito della Consulta: l’emergenza ambientale, il voto spagnolo e le sue ripercussioni in Italia e nell’Ue, il progetto dell’autonomia differenziata
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“La battaglia contro le palle da tennis che ci piovono in testa, e che sono in realtà palle di grandine mai viste, non è né di destra né di sinistra, ma una comune lotta per la sopravvivenza. Davanti al terrorismo del clima serve una voce politica concorde, così come solo nella concordia riuscimmo a sconfiggere il terrorismo politico cinquant’anni fa». Appena tornato da Cascais, dove presiede la commissione internazionale sulla Global Rule of Law, Giuliano Amato affronta quello che ritiene sia il tema del futuro, «ossia come fare in modo che la politica si adoperi a convincere le persone che è meglio rinunciare a qualche produzione agricola piuttosto che perdere completamente la terra». In un Paese esposto al cambiamento climatico come il nostro, «non c’è più tempo per una transizione ecologica graduale». E dall’esito del voto spagnolo arriva un monito per i futuri assetti in Europa e anche per l’Italia, dove in autunno potrebbe essere approvata una autonomia differenziata che da sola e senza una cornice nazionale «spacca il paese ed è incostituzionale».

Partiamo dal voto spagnolo, con il tonfo di Vox e il deludente esito dei popolari di Feijóo, frenati dall’alleanza con la destra radicale. Un monito per l’Europa?

«Sì, un messaggio chiaro per quella parte dei popolari europei che vuole allearsi con la destra estrema. Del risultato elettorale colpisce soprattutto la combine che non ha vinto, punita dagli elettori nelle sue due componenti. Vox sembrava all’ultimo chilometro di un gran premio trionfante e ha perso un terzo dei suoi seggi. E i popolari non hanno avuto quell’esplosione dei consensi che pure s’aspettavano. L’accordo con gli estremisti di Vox ha spaventato una buona parte dell’elettorato moderato».

In Spagna una forza politica postfranchista spaventa l’elettorato moderato che infatti la boccia mentre in Italia una forza politica postfascista viene mandata al governo della Repubblica. Abbiamo meno anticorpi di loro?

«Il legame di Fratelli d’Italia con le radici fasciste è anche più diretto rispetto a quello tra Vox e il regime di Franco. Ma da Fratelli d’Italia non ho mai sentito i messaggi deliranti che arrivano dai loro alleati spagnoli. E dal confronto tra i due Paesi non ricaverei il dato di una nostra minore coscienza democratica. Giorgia Meloni è stata votata dal 26 per cento di un ristretto bacino elettorale, poco più del sessanta per cento di chi aveva diritto di voto: il nostro astensionismo è molto più alto di quello spagnolo. E la sfiducia nella politica non è il segno della forza della destra postfascista ma della debolezza della sinistra e della sua scarsa empatia, identificata com’è più nei palazzi del potere che nelle borgate. In Spagna il partito socialista ha un radicamento ben più esteso».

Si aspettava la tenuta di Pedro Sánchez?

«Sì, nonostante i pessimi pronostici. Conosco i socialisti spagnoli dai tempi della mia amicizia con Felipe González e ho potuto osservarne una capacità di resistenza superiore a quella dei fratelli europei rispetto all’erosione dell’elettorato tradizionale. Il loro bacino è socialmente più vario, attraversa ceti diversi accomunati da un sentimento laico-progressista trasversale che scaturisce dall’opposizione a Franco e a una Chiesa cattolica a lui alleata. Ovviamente in questi anni hanno perso pezzi anche loro, indeboliti dai populisti e dagli autonomismi, ma sono stati capaci di tessere legami. La sinistra italiana ha solo ragioni di invidia per la situazione spagnola».

Ora Sánchez potrebbe formare un nuovo governo?

«Sì, a Feijoo spetta l’incarico, però Pedro può già contare su numeri molto vicini grazie alla sola alleanza con Sumar. A meno che non decida, come suggerisce González, di sostenere un governo dei popolari, sottraendo la Spagna all’influenza di Vox. Saggio, ma difficile. Mentre un suo nuovo governo come l’attuale potrà risultare un vestito di Arlecchino. Un po’ lo era anche il nostro Ulivo, nel quale tuttavia c’erano sufficienti fili comuni per fare più cose insieme. Ora invece prevale da noi l’elogio delle differenze: “Qualche battaglia comune la possiamo anche fare», è il massimo delle concessioni che si fanno, ciascuno arroccato dietro la propria diversità. Mi viene da dire: che Dio vi benedica se volete che la presidente Meloni continui a governare….».

Il crollo di Vox parla anche a Giorgia Meloni?

«Sono convinto che la premier abbia un futuro per sé e per la sua forza politica solo se riesce a traghettarla in quello che ho definito il mainstream europeo, che certo non è di sinistra – avendo come forza principale il partito popolare – ma pur nelle scelte moderate e conservatrici rivendica una distanza non colmabile con l’estrema destra. Meloni ha avuto l’accortezza di evitare i raggruppamenti più estremi ai quali cede sorprendentemente la Lega: Bossi non si sarebbe mai alleato con Le Pen e con i nazisti tedeschi. Un accordo incompatibile con il nerbo morale che tuttora resiste dentro quel partito».

La buona tenuta di Sánchez rafforza l’alleanza tra popolari e socialisti in Europa?

«Sì, certo. In verità non ho mai pensato che le prossime elezioni europee possano consentire una sostituzione dei socialisti con i conservatori nell’alleanza con i popolari: mancano i numeri. Il risultato spagnolo corrobora questa mia aspettativa sulla vittoria della cosiddetta maggioranza Ursula. Naturalmente ci sarà un accordo più largo. E se arrivassero i conservatori non sarebbe male».

Meloni dovrebbe allargare la maggioranza Ursula?

«È questo il nodo politico centrale: come presidente dei conservatori, dovrebbe aderire all’alleanza di popolari e socialisti, ovviamente alle condizioni di Ursula, non ad altre condizioni. È un pensiero che alberga nel retrobottega della mia testa».

Perché sente questa necessità?

«Perché il terrorismo del clima non si sconfigge senza un voce politica uniforme. Cinquant’anni fa abbiamo battuto il terrorismo solo con la concordia tra forze politiche diverse, legate da una comune matrice democratica. E questa non è una situazione diversa, anzi per certi aspetti anche peggiore perché il terrorismo del clima è indiscriminato. Ridurre le palle da tennis che ci piovono in testa e che sono in realtà palle di grandine mai viste non è né di destra né di sinistra, ma una comune battaglia per la sopravvivenza».

Ma sulla transizione ecologica la destra italiana non si è mostrata molto diversa dalle altre destre europee: hanno sposato negazionismo e rimozione.

«Nel programma di Vox è scritto che la transizione ecologica è un’invenzione delle élites per portare via i soldi ai ceti popolari. Mi sembra che in Italia queste posizioni estremiste siano confinate ai titoli del giornale La Verità. Più del negazionismo mi preoccupa la rimozione dovuta a opportunismo politico. La transizione ecologica comporta un cambiamento radicale nelle abitudini, nelle case che abitiamo, nelle automobili con cui ci muoviamo, nelle pratiche agricole, nei metodi di allevamento e pesca. Questo suscita la protesta immediata di chi vede lesi i propri interessi. E la destra tende a farsene istintivamente paladina. Basta seguire con attenzione i telegiornali d’area, con le costanti proteste contro le misure europee della Coldiretti e dei pescatori a strascico. Ma per evitare di perdere del tutto la tua terra, non ti conviene cambiare qualcosa di quello che oggi ci fai? O la politica è in grado non di echeggiare, ma di convincere chi resiste, oppure ci avviamo verso un autentico disastro».

La soluzione non può essere nei risarcimenti continui.

«No, al contrario. Specie noi italiani, col debito che abbiamo, battendo solo questa strada rischiamo presto di non essere neppure in grado di risarcire, senza avere più fondi per costruire un’alternativa possibile».

Tra accelerazioni e frenate, a settembre arriverà in Parlamento il disegno di legge di Calderoli sull’autonomia differenziata. Lei, insieme ad altri tre insigni giuristi – Bassanini, Gallo e Pajno - si è dimesso dalla commissione presieduta da Cassese. Perché?

«Abbiamo valutato che non c’è materialmente il tempo per fare quello che ritenevamo necessario – e lo ritenevano necessario pure Cassese e Calderoli - ossia evitare che il conferimento di funzioni aggiuntive alle Regioni e il relativo finanziamento vadano a carico di quei diritti civili e sociali che devono essere garantiti in eguale misura in tutto il territorio nazionale. Al di fuori di questa cornice, la riforma rischia di spaccare l’Italia, ed è pure incostituzionale».

Perché dice che manca il tempo?

«Sappiamo tutti che per evitare sperequazioni occorre prima definire la cornice dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili di ogni singola regione. Ma questo è un lavoro molto complesso, incompatibile con il poco tempo che è stato dato alla commissione e all’iter della riforma. Il ministro Calderoli ha un vincolo temporale di natura politica: portare lo scalpo dell’autonomia differenziata nella campagna delle elezioni europee, la prossima primavera».

Calderoli ha reagito alle vostre dimissioni accusandovi di prendere ordini da Elly Schlein.

«Una reazione non all’altezza della sua persona, a cui riconosco competenza. Lui sa meglio di me che la causa del dissenso non è un nostro vincolo politico – mai parlato con la signora Schlein - ma un vincolo politico che ha solo lui. Ovviamente Fratelli d’Italia si adopera per impedire che la Lega possa trarre vantaggio elettorale dall’autonomia differenziata. Vediamo che succede».

Hanno tutti a cuore le sorti del paese, insomma. Per i giochi elettorali della Lega rischiamo di avere un’Italia ancora più diseguale?

«Sì, il rischio reale è di un minore finanziamento delle funzioni essenziali nelle regioni povere e un accresciuto finanziamento di funzioni aggiuntive nelle regioni ricche. Potrebbe esserci un’eccellenza nella scuola e nella sanità di alcune regioni che economicamente ricade su altre meno fortunate che non hanno raggiunto livelli essenziali negli stessi campi. Una spaccatura inaccettabile in un’Italia sempre più lontana da quella disegnata dai nostri padri costituenti».

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