Post punk: molto più di un genere musicale
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Post punk: molto più di un genere musicale

Nell'arco di pochissimo tempo, tra il 1978 e il 1980, le ceneri del punk generano l'incredibile
Di Alberto Campo
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Siouxsie & The Banshees

Siouxsie & The Banshees

© [unknown]

Non è affatto un “genere musicale”. La definizione allude tutt’al più a una posizione cronologica: ciò che avviene dopo il punk. Senza specificare con maggiore precisione l’identità del soggetto. Da noi, agli albori degli anni Ottanta, era più comune che si parlasse di “new wave”: espressione formalizzata da Seymour Stein, boss dell’etichetta discografica statunitense Sire, per rendere commercialmente appetibili certe band affiliate al punk per ragioni generazionali e geografiche – dai Talking Heads a Blondie, per intendersi: ambedue cresciute al CBGB, fucina newyorkese del magma originario – che tuttavia da esso si distinguevano in termini di attitudine ed espressione. “Don’t call it punk!” era appunto lo slogan della campagna che provò ad affermare quel concetto. Dunque non più punk in senso stretto. Che altro, però? Un’“onda nuova” – come la nouvelle vague del cinema francese negli anni Sessanta, per citare un precedente illustre – che aveva sulla cresta personaggi approdati alla musica sulla scia del messaggio liberatorio del punk, immortalato nel primo numero della fanzine inglese Sideburns: “Questo è un accordo, questo un altro e questo il terzo, adesso forma una band”.
Dovendo stabilire quando comincia il suo “post”, è utile localizzare una fine per il punk. Suggeriamo il 14 gennaio 1978, data dell’ultimo show dei Sex Pistols (alla fin fine, piaccia o non piaccia, giusto o sbagliato che sia, simbolo del fenomeno). E di lì seguiamo le tracce di Johnny Rotten, che ridiventa Lydon e una volta rientrato a Londra dà vita ai Public Image Ltd.
Lo smarcamento dalla band di provenienza è via via sempre più netto: se al debutto "First Issue" (1978) dichiara ancora qualche vago legame, il successivo "Metal Box" (1979) mira davvero altrove, trafficando con il dub, l’avanguardia, il kraut rock e addirittura la disco music, mentre il distacco definitivo avviene con l’enigmatico The "Flowers of Romance" (1981).
Altra figura chiave nella transizione da un prima a un dopo in area londinese è Susan Janet Ballion, che dopo essere stata parte del Bromley Contingent, il “cerchio magico” di fan intorno ai Sex Pistols, salta dall’altro lato della barricata, salendo sul palco del festival punk organizzato da Malcolm McLaren al 100 Club nel settembre 1976 con una band mai rodata prima. E’ l’atto di nascita di Siouxsie and the Banshees, il cui album d’esordio "The Scream" (1979) è di evidente derivazione punk – l’asprezza delle melodie, l’elettricità nervosa che lo pervade, la cupezza metropolitana dell’ambientazione – ma formalmente si colloca altrove, nella zona d’ombra tracciata dal rock più scuro della generazione precedente, in primo luogo dai Velvet Underground.
Siouxsie Sioux è una presenza fondamentale anche perché diviene modello per le giovani donne che si avventurano nella scena musicale del tempo, da Poly Styrene, punto focale degli X-Ray Spex, a band al femminile quali The Slits e Raincoats, che esplorano quella che davvero possiamo considerare l’altra metà del (post) punk.
Entità non meno determinante in quel contesto sono gli Wire, che pur avviando la propria carriera nel pieno del big bang londinese del punk, tendono a discostarsene quasi immediatamente sul piano stilistico: canzoni concise, veloci e abrasive, sì, ma dotate di una complessità insolita. Il quartetto inietta fosforo nelle schematiche strutture del genere fin dal primo disco, "Pink Flag" (1977), a cui fa seguito l’ancora più ambizioso "Chairs Missing" (1978), fino al capolavoro datato 1979: "154".
In aree limitrofe troviamo altri esponenti della deriva “intellettuale” del punk londinese: Vic Godard, dandy dalla vaga ispirazione surrealista, testimoniata dalle bizzarre imprese della band chiamata Subway Sect, e Mark Perry, fondatore dell’influentissima fanzine Sniffin’ Glue e poi a capo degli Alternative TV, eversori dell’ortodossia punk fra dub e avant-garde.
Batterista nella primissima versione di questi ultimi è Genesis P-Orridge, che li ospita nel quartier generale dell’Industrial Records: etichetta indipendente creata dal collettivo di cui fa parte, i Throbbing Gristle, derivazione del gruppo performativo COUM Transmissions. In questo caso l’associazione al punk vale essenzialmente sul piano dell’attitudine scandalosa e sovversiva, più che in termini musicali, visto che – per quanto violento e scontroso – il suono è di natura completamente elettronica. Gli album editi all’epoca, da "The Second Annual Report" (1977) a "20 Jazz Funk Greats" (1979), pongono le basi della cosiddetta industrial music.
Affini a loro per spregiudicatezza sperimentale e audacia esplorativa sono altre band della capitale come This Heat e 23 Skidoo, divenute col tempo oggetti di culto in virtù della forza visionaria delle proprie intuizioni di allora.
Al confronto sembrano quasi “conservatori” certi gruppi nati col punk o subito a ridosso, che dismessane ben presto l’istintiva vocazione nichilista, se non proprio rivoluzionaria, finiscono per riaffermare i cliché del rock preesistente, che si tratti di pose maschiliste (The Stranglers), prepotenza sonora (Killing Joke) o affettazione decadente (The Psychedelic Furs), mentre altri ancora – gli Ultravox dell’era John Foxx o i Tubeaway Army di Gary Numan, entrambi alle prese con varianti elettroniche sul canovaccio iniziale - attraversano quell’epopea più per caso che per convinzione, come dimostreranno i passi seguenti delle rispettive carriere. Il fatto è che il carattere eterogeneo della “nuova onda” che monta oltremanica a fine anni Settanta tende a incorporare codici espressivi sovente collocati agli antipodi. Allargando il raggio della ricognizione verso i dintorni di Londra, ad esempio, ci s’imbatte tanto nel neogotico dei Bauhaus (da Northampton) quanto nel pop raffinatissimo degli XTC (Swindon). Oppure ancora nel glam aristocratico dei primi Japan di David Sylvian (Catford), antitetico all’esistenzialismo naif degli esordienti Cure (Crawley), che a lungo andare saranno i più abili a riposizionare il proprio estro nel decennio seguente.
Attraversando l’isola fra il 1976 e il 1977, le turbolente tournée dei Sex Pistols avevano diffuso in modo epidemico il contagio del punk. E dunque, a fine decennio, ogni città britannica è animata da una scena musicale giovane e vivace. E’ il caso di Manchester, dove sulla scia tracciata dai Buzzcocks, il cui ex cantante Howard Devoto diviene forza motrice dei Magazine, molti prendono coraggio e si mettono in gioco: fra i tanti, Mark E. Smith, deus ex machina dei Fall, destinati a diventare la band più longeva di quella generazione. Alla prima apparizione in città di Rotten e soci, organizzata dallo stesso Devoto presso la Lesser Free Trade Hall, avevano assistito molti futuri protagonisti delle cronache musicali: il giornalista televisivo Tony Wilson, in seguito fondatore dell’etichetta discografica Factory Records e dell’Haçienda, prototipo del club di nuova specie, e i futuri membri di un gruppo che debutta come Warsaw e cambia poi nome in Joy Division.
La leggenda che circonda tuttora il quartetto, artefice di appena due album, "Unknown Pleasures" (1979) e "Closer" (1980), ambientati in paesaggi metropolitani desolati e inquietanti, ha a che fare ovviamente con la tragica fine del cantante Ian Curtis, morto suicida il 18 maggio 1980 e assurto così al rango di icona dello spleen.
Fulcri dell’attività a Liverpool sono l’Eric’s, locale prospiciente il Cavern dei Beatles e tradizionale punto d’approdo per gli artisti punk e post in tournée nel Regno Unito, e l’etichetta discografica Zoo Records, da cui transitano tutti o quasi i personaggi di spicco della scena cittadina. A cominciare dai precursori Big In Japan, in cui svetta la figura eccentrica di Jayne Casey, anche se a simboleggiare la “nuova onda” sono formazioni dall’inclinazione visionaria come The Teardrop Explodes, guidati dal lunatico e “acidissimo” Julian Cope, ed Echo & the Bunnymen, i cui primi due album, "Crocodiles" (1980) e "Heaven Up Here" (1981), preparano la strada per il successo che arriverà nel 1984 con "Ocean Rain".
Se Liverpool è psichedelica, Leeds è viceversa militante. Ecco il denominatore comune che associa band fra loro differenti come The Mekons, Delta 5 e Scritti Politti, quest’ultima battezzata così storpiando il titolo di una celebre raccolta di “scritti politici” – appunto - di Antonio Gramsci. Tutte intelligenze allevate nel vivace milieu universitario del posto, da cui scaturisce il gruppo che prende nome dalla fazione del Partito Comunista Cinese epurata al crepuscolo della Rivoluzione Culturale: The Gang Of Four. In perfetto equilibrio fra retorica marxista, esuberanza punk e irrequietezza funk, il disco con cui la Banda dei Quattro esordisce nel 1979 – "Entertainment!" – diviene indiscussa pietra miliare del post punk su scala planetaria.
Quanto gli avvenimenti musicali di quei giorni abbiano influenzato il corso degli eventi successivi è dimostrato da altre due scene periferiche. Sheffield, bastione dell’Inghilterra industriale, è incubatrice di una scuola di sonorità elettroniche rappresentata allora da gruppi quali Cabaret Voltaire e The Human League prima maniera, ma anche dagli esoterici e volutamente marginali Clock DVA, e rilevante ancora oggigiorno grazie all’indipendente Warp Records, culla della dance music “intelligente”. Bristol, invece, città portuale per storia e cultura, si presta naturalmente a divenire crogiolo in cui convergono etnie e linguaggi difformi, di cui negli anni Novanta diviene archetipo sonoro il trip hop, la cui premessa è in qualche modo inscritta nell’audace avventura artistica del Pop Group, che combinando schegge di black music, urgenza punk e radicalismo politico scuote le coscienze con dischi quali "Y" (1979) e "For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?" (1980).
Volendo ampliare infine l’itinerario, potremmo guardare verso la Scozia, e in particolare a Glasgow, sede della Postcard Records, editrice dei vari Orange Juice, Aztec Camera e Josef K, e città natale dei Simple Minds, o l’Irlanda, dove a Dublino muovono i primi passi gli U2 e architettano stravaganze i Virgin Prunes, creatura di Gavin Friday, da ragazzino compagno di gang della futura superstar Bono.