Gemini Man è un incredibile film sperimentale a budget gigantesco

Will Smith contro Will Smith più giovane a 120 fotogrammi al secondo per rompere la barriera del realismo al cinema. Dal 10 ottobre in sala

Non è la prima volta che vediamo un attore digitale, cioè una creazione interamente computerizzata che tuttavia ha la medesima credibilità degli attori intorno a lui. È la prima volta invece che lo vediamo nella forma di un umano e non di una creatura fantastica e che lo vediamo per un minutaggio così lungo; la prima volta soprattutto che è modellato su qualcuno che già conosciamo, ovvero a Willy Il Principe di Bel-Air. Will Smith (di oggi) recita con Will Smith (di ieri), cioè un attore è in diretta competizione con il se stesso giovane mentre interpreta un sicario che lotta per non essere ucciso da versione giovane di se stesso. Il Will Smith giovane è sempre interpretato da lui, da Will Smith, tramite il processo di motion-capture, lo stesso usato per creare Thanos o la scimmia Cesare di Il pianeta delle scimmie (un attore recita con dei sensori sul corpo e sul volto che catturano i movimenti dei muscoli facciali e non per poi attribuirli al personaggio digitale) ma diverso dal ringiovanimento di Samuel L. Jackson in Captain Marvel. Qui non hanno ripulito Will Smith per portarlo indietro nel tempo, hanno proprio creato un personaggio digitale ex novo.

È solo una delle questioni tecnologiche poste da Gemini Man che, tramite una storia thriller fantascientifica molto semplice e abbastanza abituale per Hollywood (anche se il suo immaginario e i suoi riferimenti pescano più nel cinema action cinese degli anni ‘80 e ‘90), porta nelle sale il 3D+, cioè una versione potenziata del 3D stereoscopico a 120 fotogrammi al secondo. Il cinema cui siamo abituati è sempre andato a 24 fotogrammi al secondo, quello digitale lo ha sempre imitato e i video che vediamo online oscillano tra i 25 e i 30 fotogrammi al secondo. I videogiochi (là dove supportato) si spingono fino a 60 fotogrammi al secondo e ora in un buon numero di sale italiane (tutti i cinema The Space, tutti gli UCI e comunque in tutti i capoluoghi di provincia, dice la 20th Century Fox) possiamo vedere un film a 120 fotogrammi. La differenza sta nella fluidità, e nella qualità, perché se invece di vedere 24 immagini in un secondo ne vedi 120 evidentemente non solo ci sarà maggiore definizione ma anche i movimenti saranno più fluidi.

L’effetto, va detto subito, è forte e molto evidente. Non è qualcosa che si rischia di non notare. E proprio per questo è anche straniante inizialmente, cioè ti ricorda di continuo che stai guardando un film, una finzione, invece di lasciarti immergere in essa. È un contraccolpo dato dalla novità e dalla non abitudine. Vedere Gemini Man adesso al cinema è come vedere Collateral in sala nel 2004 quando era il primo film hollywoodiano a fare quel tipo di uso del digitale così radicale. L’impressione ad un occhio non allenato è di vedere un video amatoriale da 100 milioni di dollari o un backstage a livelli di qualità eccelsi. Con il passare dei minuti però ci si abitua e diventa sempre più facile percepire la miglioria. Questo però non significa che ancora non ci siano dei problemi.

Più fotogrammi vuol dire che l’immagine sullo schermo si avvicina di più a come noi vediamo il mondo, il che significa che quel che prima sullo schermo era accettabile in molti casi non lo è più. Se prima un’espressione mediocre andava bene a 120fps risulta falsissima, se prima una colluttazione non perfetta andava bene ora se ne nota la falsità come lo si noterebbe se si fosse sul set. In molti punti del film è evidente che Will Smith e la sua controfigura ad esempio non sono artisti marziali e stanno interpretando una coreografia. Per fortuna però Ang Lee (uno dei più grandi sperimentatori di tecnologie del cinema) disegna molto bene l’azione per nascondere, aiutare e coinvolgere lo spettatore in una vera e propria lotta per fargli dimenticare il feeling da fiction e fargli apprezzare i pregi della tecnologia in un film che è il classico spettacolone di botte, botti, agnizioni e svelamenti.

A sorpresa la parte più appassionante di Gemini Man è quanto si diverta a flirtare con le ispirazioni videoludiche. Se infatti tutte le parti dal vero ricordano un video, le parti digitali e quelle con effetti visivi fanno pensare alle cut scenes dei videogiochi. Anche qui Ang Lee cavalca questa vicinanza e gira un finale che pare ambientato in una mappa da multiplayer online tra cecchini, fuoco incrociato e movimenti accovacciati per trovare le angolature migliori da cui sparare. Videoludica di guerra ovviamente ma anche ispirazioni su come sono inquadrati gli ambienti (il primo inseguimento tra i due in una cittadina deserta anche sembra ambientato in una mappa di un videogioco), e tutto senza togliere spazio al dramma da interni e al lavoro (non semplice) sulla recitazione. Basta fare caso a come Will Smith reciti da adulto e poi imitando nei movimenti e nell’atteggiamento se stesso da giovane.

Tanto duro è lo sforzo che alla fine è evidente che il risultato sia abbastanza diseguale lungo tutto il film e specie nel finale si iniziano a notare i problemi di realismo, senza contare che il lavoro di recitazione sofisticato fatto con i protagonisti evidentemente non è stato fatto con le comparse, la cui resa sullo schermo è pessima. Gemini Man insomma è vero e proprio film d’azione sperimentale ad altissimo budget in cui non tutto funziona al massimo ma in cui sono chiarissime le potenzialità del mezzo, che diverte, interessa e incuriosisce. E che tutto questo avvenga per mano non di un tecnico ma di un vero regista che sa lavorare con attori, che sa inventare un’illuminazione adatta e che sappia sfruttare il dramma per l’azione, fa davvero la differenza, mostra non solo le potenzialità tecniche ma quelle artistiche.