La zona d’interesse

(The Zone of Interest)

Regia di Jonathan Glazer

con Christian Friedel (Rudolf Höss), Sandra Hüller (Hedwig Höss), Medusa Knopf (Elfriede), Daniel Holzberg (Gerhard Maurer), Sascha Maaz (Arthur Liebehenschel), Max Beck (Schwarzer), Wolfgang Lampl (Hans Burger), Johann Karthaus (Klaus Höss), Luis Noah Witte (Hans-Jurgen Höss), Nele Ahrensmeier (Inge-Brigit Höss).

PAESE: Regno Unito, Polonia 2023
GENERE: Drammatico
DURATA: 105′

1943. Rudolf Höss, comandante del campo di concentramento di Auschwitz, vive con la moglie e i cinque figli in una villetta adiacente al lager. La serenità della famigliola vacilla quando il gerarca viene trasferito, apparentemente senza motivo, ad un altro incarico che lo porta lontano da casa.

Scritto dal regista prendendo spunto dal romanzo omonimo (2014) del britannico Martin Amis, morto di cancro durante la lavorazione, uno dei più interessanti e per certi versi sconvolgenti film sulla shoah, nonostante non contenga scene di morte e non mostri mai cosa succede al di là del muro della villetta degli Höss. Glazer gioca sul fatto che tutti noi sappiamo già esattamente cosa accadeva DENTRO Auschwitz, anche senza vederlo per l’ennesima volta, concentrandosi piuttosto su ciò che accadeva appena FUORI, ovvero una normalissima e persino abitudinaria esistenza come mille altre, diversa da quella di chiunque solo ed esclusivamente per la natura del lavoro del pater familias. Qualcuno ha parlato di apologo sulla banalità del male, ma sarebbe più corretto parlare di normalità del male, che qui sembra non avere nemmeno cognizione di se stesso (del resto a Norimberga Höss fu uno dei gerarchi che scelsero come linea difensiva la semplice fedeltà ad ordini dati da altri) né tanto meno delle responsabilità dinnanzi alla storia. Il regista filma l’ordinaria quotidianità degli Höss come un entomologo, utilizzando inquadrature statiche e sempre uguali per mantenere l’assoluto distacco nei confronti del protagonista e evitando volutamente grandi scene madri. Il suo è uno dei pochi film della storia del cinema il cui senso, sia drammaturgico che politico, si genera dall’intersezione di due piani sensoriali differenti, quello visivo, tutto costruito sull’ordinario menage degli Höss, e quello sonoro, composto dai suoni agghiaccianti che provengono dall’altro lato del muro (urla, pianti, spari) e da un tessuto sonoro cupo e particolarmente inquietante (di Mica Levi).

Una scelta stilistica rigorosa che sembra sottolineare l’impossibilità di raccontare attraverso le armi della finzione qualcosa di irraccontabile, preferendo evocarlo per ossimoro. Le inquadrature nere del prologo e dell’epilogo sembrano sottolineare proprio questo concetto. Ma il film è anche una riflessione su una delle questione più discusse del novecento, ovvero come sia stato possibile che così tanta gente abbia potuto con così poche remore avallare quello che Hitler fece al popolo ebraico. Come ha spiegato lo stesso Glazer, la sequenza finale non è la rappresentazione pur effimera di una presa di coscienza di Höss, quanto una risposta fisica (e dunque innegabile, insindacabile) rispetto a ciò di cui si è macchiato e che ora mina la sua salute (la cenere che ha respirato vivendo accanto al campo). E gli inserti nel presente, oltre che possedere una valenza storica precisa, sottolineano che dobbiamo continuare a togliere la polvere dalla memoria per evitare che accada ancora. Recitato in tedesco. Interessante il lavoro del direttore della fotografia Lukas Zal, che sembra voler desaturare i colori per restituire anche a livello visivo la piatta esistenza degli Höss. Il titolo si riferisce al modo il cui il comando tedesco chiamava la zona adiacente ai campi di concentramento. Oscar per il miglior film internazionale e per il miglior montaggio sonoro. Da non perdere.

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