LE RECENSIONI DEI FILM – Cinema Teatro Fratello Sole

 

Regia di Wim Wenders – Giappone, Germania, 2023 – 123′
con Kôji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano

Il film è stato premiato al Festival di Cannes

 

 

 

 

IL RITRATTO DELLA SERENA E COMPOSTA SOLITUDINE DI UN UOMO CHE HA FATTO PACE CON I SUOI ERRORI DEL PASSATO

Tokyo, oggi. Hirayama è un sessantenne giapponese che pulisce i bagni pubblici della città con attenzione meticolosa ai dettagli e dedizione certosina al suo lavoro. Ogni giorno segue la stessa routine: un’attenta pulizia personale prima e dopo quella dei bagni altrui, un’innaffiata alle piante che ha salvato dalla disattenzione cittadina, un panino al parco all’ora di pranzo. Lungo il suo percorso talvolta si ferma a osservare le piante che lo sovrastano scattando foto alle chiome, o fa uno spuntino presso qualche tavola calda. E ogni tanto fa qualche incontro: con Takashi, il ragazzo che rileva il turno pomeridiano di pulizia dei bagni, con una ragazza al parco, con un senzatetto scollato dalla realtà, con la proprietaria di un ristorante che gli riserva piccoli trattamenti di favore. E quando sale a bordo del suo furgone ascolta Lou Reed (con e senza i Velvet Underground) e Patti Smith, The Animals e Van Morrison, Otis Redding a Nina Simone, così come quando è a casa legge William Faulkner e Patricia Highsmith, ma anche la “sottovalutata” Aya Koda.
Perfect Days racconta le “giornate perfette” di Hirayama come una quieta affermazione di dignità quotidiana. L’uomo svolge il suo lavoro con gesti precisi ed essenziali, accogliendo l’occasionale contatto umano (anche nella forma anonima di una partita a tris proposta su un foglietto) con generosità e rispetto. Tutto in lui è rimasto analogico, come le musicassette che ascolta o la macchina fotografica i cui rullini vanno fatti sviluppare, e le fotografie vengono collezionate in scatole numerate che archiviano la nostalgia del tempo che passa.
Wim Wenders, in veste di regista e sceneggiatore (con Takuma Takasaki), mette a frutto la sua grande familiarità con il documentario per creare un film di finzione che segue le giornate del suo protagonista come una camera nascosta, e poi però racconta i sogni di Hirayama come un’elaborazione artistica del giorno appena vissuto.
La concezione architettonica di Wenders incastona la figura umana in spazi ben squadrati e confinanti (a cominciare dal formato 4:3 che ad un certo punto diventa quello ancora più ristretto dell’inquadratura da cellulare), e in una Tokyo in cui il sole sorge (non a caso siamo nel Paese del Sol Levante) accompagnato dalla canzone perfetta (The House of the Rising Sun). La fotografia nitida e precisa di Franz Lustig accompagna il ritratto della serena e composta solitudine di un uomo che sa di appartenere ad un’altra epoca e che ha fatto pace con i suoi errori del passato.
Koji Yakuso, che alcuni ricorderanno in Babel di Alejandro Inarritu ma anche ne Il terzo omicidio di Hirokazu Kore’eda o The Eel di Imamura Shohei, è lo straordinario interprete di questo film quasi muto che si snoda in purezza attraverso uno sguardo contemplativo ma mai artefatto.
Il suo Hirayama è il baluardo di un passato recente che è già modernariato, e conserva un afflato poetico persino attraverso il lavaggio di bagni frequentati da persone per cui è invisibile. Hirayama continua la sua metodica affermazione di sé all’interno di un universo per molti versi indifferente, consapevole che “il mondo è fatto di molti mondi” e solo alcuni sono connessi, ricordandoci che esiste un “ora” che va rispettato in quanto tale senza correre dietro al futuro, perché “il futuro succederà la prossima volta”.

Paola Casella – MyMovies.it


Parole quasi nessuna, solo qualche fotografia di rami che si stagliano sul cielo alla ricerca di una pace che non è rinuncia né moderazione ma piuttosto una silenziosa forma di empatia universale. Per invitarci a pensare che la felicità può essere anche la cancellazione dei desideri.


Wim Wenders ha spiegato che Perfect Days nasce come una serie di documentari brevi chiamati a testimoniare la riqualificazione di diciassette bagni pubblici, realizzati da alcuni celebri architetti giapponesi nell‘ambito del “Tokyo Toilet Project”; presumibilmente, si trattava anche di un pretesto per raccontare la vita nei parchi o sui marciapiedi circostanti, poi evolutosi strada facendo in un film di finzione scritto con Takuma Takasaki e incentrato sull’addetto alle pulizie dei servizi igienici, un personaggio di fantasia del quale la pellicola ricostruisce la routine giornaliera con meticolosa attenzione.


Recensioni
4/5 MyMovies
5/5 Sentieri Selvaggi
8,5/10 IGN Italia

 

IL PROGETTO “THE TOKYO TOILET”

Sebbene il Giappone sia universalmente riconosciuto come uno dei paesi più puliti al mondo, con bagni pubblici che mantengono uno standard di igiene superiore rispetto ad altri luoghi, l’uso di tali strutture è limitato a causa degli stereotipi noti in giapponese come i ‘4 K’ (kusai – maleodoranti, kurai – buio, kowai – spaventosi e kitanai – sporchi).

         

Per abbattere questi pregiudizi, la Nippon Foundation ha intrapreso un progetto ambizioso: il Tokyo Toilet, partito nel 2020, che rientra nella grande opera di abbellimento urbano della metropoli – che tra tutti ha interessato anche la costruzione del New National Stadium – finalizzata ad ospitare la XXXII edizione dei Giochi Olimpici di Tokyo nel 2021.

La collaborazione tra funzionari locali, ente del turismo e The Nippon Foundation ha portato quindi al compimento di nuove unità di servizio igienico. Obiettivo dichiarato dell’iniziativa è smentire il luogo comune dei 4 K per farne invece nuovi simboli di ospitalità, spazi all’insegna dell’accessibilità e dell’inclusione. Sono in tutto sedici le firme prestigiose che hanno curato il restyling delle diciassette toilette pubbliche a Shibuya, uno dei quartieri più colorati, frenetici e caratteristici della capitale nipponica.

                                          

Il risultato è una perfetta sintesi tra estetica, funzionalità e, soprattutto, accessibilità.  Queste strutture non sono solo visivamente piacevoli ma anche funzionali, promuovendo così una visione più positiva e accogliente dell’uso dei bagni pubblici. I progettisti e designer coinvolti sono Kengo Kuma, Shigeru Ban, Tadao Ando, Toyo Ito, Tomohito Ushiro, Masamichi Katayama / Wonderwall, Junko Kobayashi, Takenosuke Sakakura, Kashiwa Sato, Kazoo Sato, Nao Tamura, NIGO®, Marc Newson, Shigeru Ban, Sou Fujimoto, Miles Pennington / UTokyo DLX Design Lab, Fumihiko Maki. Questi visionari hanno trasformato i bagni pubblici in autentiche opere d’arte accessibili a tutti, rappresentando un passo verso una società che abbraccia la diversità.

 

MGF

 

THE HOLDOVERS – LEZIONI DI VITA
Regia di Alexander Payne – USA, 2023 – 133′
con Paul Giamatti, Da’Vine Joy Randolph, Dominic Sessa

 

 

 

 

ALEXANDER PAYNE RITROVA PAUL GIAMATTI IN UN FILM DOLCE-AMARO,  INTELLIGENTE E CAUSTICO QUANTO BASTA PER ELUDERE IL SENTIMENTALISMO

Il cinema di Alexander Payne, sempre in bilico tra commedia esistenziale e dramma intimista, trova nella scrittura dei personaggi, nelle loro psicologie, nella quadratura degli spazi e degli ambienti il punto di forza. The Holdovers – Lezioni di vita non solo non fa eccezione, ma si pone come una delle migliori e più ispirate opere del regista statunitense.

Ambientato durante le vacanze natalizie del 1970 in un istituto scolastico privato per rampolli dell’alta borghesia, segue le vicende del professore di civiltà antica, Paul Hunham (Paul Giamatti, vincitore del Golden Globe), e di un gruppetto di studenti di varie età – tra questi il brioso e scapestrato Angus Tully (il debuttante Dominic Sessa) – impossibilitati a tornare a casa dalle famiglie. Insieme a loro la responsabile della mensa, Mary Lamb, in lutto per la prematura morte in guerra del figlio 20enne. Sono personaggi complessi, stratificati, segnati dalla vita. Il tono è brillante, pieno di humor e colmo di battute pungenti e sagaci, marchio di fabbrica del cinema verboso di Payne.

Il film inizia con il campo lungo della scuola circondata dalla neve. Luogo di passaggio per eccellenza che, giocoforza, conduce alla vita adulta e alla scoperta di sé. Il coming of age, diventato ormai un vero e proprio (sotto)genere, con tutto il corollario di azioni e situazioni che portano alla crescita (sviluppato quasi sempre all’interno di un arco temporale ridotto), copre soltanto una porzione del racconto.
Il rapporto contrastante e conflittuale tra il professore integralista e il giovane Tully e il viaggio on the road dal New England a Boston – che cambierà la vita di entrambi – sta al centro del racconto, ma non è l’unico.

Payne fa i conti con la storia e la politica. Rievoca il fantasma del Vietnam e riflette in controluce sulle sperequazioni sociali, sul classismo, la rabbia e il senso di frustrazione della working class (il figlio di Mary Lamb è chiamato alle armi perché impossibilitato a pagarsi il college). La malattia mentale, l’elaborazione del lutto e la solitudine sono temi che Payne tratta senza ingolfare e appesantire la storia, mantenendosi in perfetto equilibrio tra dramma e commedia. Paul Giamatti è bravissimo a dare corpo allo scorbutico (dal cuore d’oro) professore Hunham. La sua mimica e l’espressività sono ormai pienamente mature. Ma intensa è anche la performance di Da’Vine Randolph (vincitrice dell’Oscar come miglior attrice non protagonista), mater lacrimarum, spezzata e resiliente. Il décor e la patina vintage rendono facile l’adesione e l’empatia. È un film semplice, emozionante, a tratti programmatico The Holdovers, e non dice nulla di nuovo. Riuscendo tuttavia ad essere contemporaneo e universale, rassicurante e non banale.

Mario Tudisco – Spietati.it


The Holdovers – Lezioni di vita: il Natale, la rabbia, la ribellione, il cinema che si fa letteratura, toccando il cuore e la testa. Quello di Alexander Payne è tra i migliori film del 2023. Protagonisti gli strepitosi Paul Giamatti, Dominc Sessa e Da’Vine Joy Randolph.


Il regista Alexander Payne dirige uno dei film natalizi più belli che siano arrivati in sala negli ultimi anni. Una divertente commedia sull’educazione reciproca: solo imparando ad appoggiarsi sull’altro si può rendere il processo di accettazione di sé meno doloroso.


Quello che Payne mette sullo schermo, attraverso le belle immagini fotografate da Eigil Bryld, è una vicenda di scoperta, di un viaggio che non è tanto fisico, verso Boston, ma più lungo, complesso e tortuoso dentro sé stessi. Quel che Payne propone, insomma, è l’esperienza di un’introspezione, di una migliore e più sincera e completa conoscenza di sé stessi allo scopo ci conoscere meglio e più sinceramente il mondo.

Recensioni
7,8/10 Spietati.it
4,5/5 Movieplayer
4/5 Cinefilos.it

CURIOSITA’ SU THE HOLDOVERS

Molte delle scene sono state girate alla Fairhaven High School di Fairhaven, Massachusetts, nel febbraio 2022 durante le vacanze di febbraio (Mid Winter Break) della scuola. In quel momento sull’area si è abbattuta una tempesta di neve per la gioia della troupe. Non sono stati utilizzati set cinematografici poiché hanno sfruttato appieno il tempo, e la neve che si vede nel film proviene da una vera tempesta di neve.

 

 

Il giorno in cui è stata girata la scena in cui Angus chiama a casa, Dominic Sessa ha sbagliato una ripresa perché non sapeva come telefonare e hanno dovuto mostrargli come fare. Nessuno aveva pensato che, vista la giovane età, non avesse mai usato prima un telefono a disco.

Anche se il film presenta un look cinematografico che ricorda gli anni ’70, è stato interamente girato in digitale con una ARRI Alexa Mini. Tutti i tratti distintivi della pellicola di celluloide, come la grana, l’alone e la tessitura del film sono stati aggiunti in post-produzione.

La canzone che viene suonata durante le scene iniziali e che ricorre più avanti nel film è “Silver Joy” del cantautore americano Damien Jurado, uscita nel 2014.

Dominic Sessa e Paul Giamatti sono entrambi fan delle serie tv animate e le guardavano durante le pause delle riprese.

Da’Vine Joy Randolph, una non fumatrice, ha scoperto che fumare sigarette finte sembrava irrealistico. Randolph ha scelto di fumare vere sigarette sullo schermo e ha optato per le American Spirit poiché era una marca che non amava e che le avrebbe permesso di smettere facilmente una volta terminate le riprese.

L’occhio pigro di Paul Hunham è stata un’idea di Paul Giamatti ed è iniziata come uno scherzo fatto al co-protagonista Dominic Sessa, prima di essere incorporato nella sceneggiatura.

 

Il trailer riporta la scritta “Copyright MCMLXXI” che è 1971 in numeri romani. Normalmente questa è la data di produzione del film, ma non in questo caso.

 

Alexander Payne ha avuto l’idea per il film dopo aver visto  Vacanze in collegio (Merlusse) del 1935 diretto da Marcel Pagnol.

In un’intervista del 2023 Alexander Payne ha parlato dei film che ha proiettato per la troupe allo scopo di trarne ispirazione: Il laureato (1967), Il padrone di casa (1970), Harold e Maude (1971), L’ultima corvè (1973), Una squillo per l’ispettore Klute (1971), Paper Moon – Luna di carta (1973) e Tutti gli uomini del presidente (1976).

Il film che il signor Hunham e Angus vedono al cinema è Il piccolo grande uomo (1970), con Dustin Hoffman.

 

Le frasi in latino del film: “Non nobis solum nati sumus” (il signor Hunham in conversazione con il preside all’inizio del film). Dal “De Officiis” di Cicerone, si traduce in: “Non siamo nati solo per noi stessi, ma una parte della nostra vita la dob­biamo alla patria, e un’altra parte ai nostri amici.” – “Omnia ex scrineis prater stilum” (Il signor Hunham in classe dopo la pausa invernale). Si traduce solo in modo molto approssimativo in “Tutto via dai banchi tranne la matita”

 

 

MGF

Regia di Michael Mann – USA, 2023 – 130′
con Adam Driver, Penélope Cruz, Shailene Woodley

 

 

 

 

 

 

MANN SI MISURA CON IL GENIO, LE OSSESSIONI E LA COMPLESSITÀ DI ENZO FERRARI, IN UN SOLO ANNO DELLA SUA VITA.

C’è sempre, nel cinema di Michael Mann, un momento che rimane impresso, per il modo in cui la sua pregnanza emotiva va di pari passo con una certa irrilevanza narrativa, quasi che il regista ci invitasse a cercare il senso profondo della vicenda in qualcosa che sta ai suoi margini.
In questo film il momento arriva nella prima parte, quando la moglie di Ferrari si reca in cimitero, alla tomba del figlio scomparso prematuramente. Non è una scena fondamentale, potrebbe tranquillamente essere espunta dal tessuto del film, oppure avere la concisione necessaria a segnalare al pubblico che la morte del ragazzo ha lasciato una scia profonda di dolore in entrambi i genitori (subito prima della madre, al cimitero abbiamo visto il padre). E invece Mann si dilunga, attraverso un lunghissimo, ininterrotto primo piano di Penelope Cruz, la cui durata è tale da registrare con puntualità la tempesta emotiva che le attraversa il volto. Prova di talento dell’attrice, che deve fronteggiare la continuità del primo piano e la conseguente necessità di lavorare sulla transizione e la gradualità fra i diversi stati d’animo che segnano la presenza in cimitero del personaggio. Ma anche una spia, la scena, dell’umanesimo che caratterizza in modo profondo il cinema di Mann, al di là, forse persino a dispetto, della griglia di genere entro la quale si collocano abitualmente i suoi film, e delle storie che è “obbligato” a raccontare.
Ferrari, da questo punto di vista, ne è un esempio perfetto. In linea di principio dovrebbe collocarsi all’intersezione di due generi, un sempreverde del cinema americano (il film sportivo) e uno, il biopic, che gode oggi di una straordinaria popolarità. Mann segue invece con ammirevole coerenza la sua traiettoria umanista, noncurante degli effetti di disgregazione che produrrà sui generi di riferimento. In questo modo Ferrari diventa, al contempo, un anti-film sportivo – a fargli difetto sono il dettaglio della performance agonistica del protagonista, che non è un campione e addirittura non pratica alcuno sport, e il motivo dell’affermazione finale, qui macchiata da un evento luttuoso che la spoglia di ogni enfasi – e un anti-biopic, poiché il personaggio del titolo non rappresenta una figura eccezionale, sotto nessun punto di vista. Quello della straordinarietà del personaggio è, nel biopic, la ragione prima del film (perché dovremmo narrarvi questa storia, se non ha al suo centro una figura fuori dal comune?) e il suo punto di approdo (prima o poi vi racconteremo tempi e modi della sua eccezionalità); un diktat al quale nemmeno Nolan in Oppenheimer ha saputo sottrarsi.
Mann invece scolora Ferrari sino a renderlo un uomo ordinario, schiacciato da pressioni familiari (moglie, amante e figlio illegittimo) ed economiche (l’azienda è in perdita), sociali (obbligato ad andare in chiesa per farsi vedere dai suoi operai) e manageriali (motivare i piloti, sovraintendere alla meccanica e alla manutenzione delle auto). Un imprenditore qualunque in un mondo qualunque, la cui unica ragione di eccezionalità sta nel fatto di avere perso un figlio, con tutto il carico di dolore che ne consegue.
Nessuna Formula 1, nessuna vittoria, né Villeneuve né Schumacher: solo un uomo che prova a difendersi dalla disperazione. Per un cineasta umanista come Mann, basta e avanza: sarà per questo che nel film a prendere gradualmente il sopravvento è la vena melodrammatica, la messa in scena del dolore, lo spettacolo di una elaborazione del lutto perennemente differita.

Leonardo Gandini – Cineforum.it


Michael Mann ha lavorato a lungo sulla figura di Ferrari, che nelle sue mani diventa un Saturno capace di divorare i propri figli (i due naturali e le sue stesse creazioni di metallo), padrone di sé e delle proprie ossessioni solamente nella dimensione della velocità estrema.


Riprese in Italia, troupe di eccellenza (fotografia di Erik Messerschmidt, costumi di Massimo Cantini Parrini, hair & make-up Aldo Signoretti, montaggio del due volte premio Oscar Pietro Scalia), non si tratta di un biopic, bensì di una tranche de vie portata su schermo: le corse automobilistiche degli Anni Cinquanta, la leggenda traballante di Ferrari e le sue vicissitudini familiari, l’all-in sulla Mille Miglia, nell’estate modenese e italiana del 1957.


Recensioni
3/5 Cineforum.it
3,1/5 MyMovies
4,8/5 Sentieri selvaggi

 

LA MILLE MIGLIA

Enzo Ferrari la definì “la corsa più bella del mondo”. La competizione, conosciuta anche come Freccia Rossa e nata come gara di velocità per poi diventare gara di regolarità, dal 1977 si svolge in tarda primavera lungo l’asse Brescia-Roma-Brescia. Il suo nome deriva dalla lunghezza del percorso, che si snoda per 1.600 km (ovvero mille miglia).

La Mille Miglia è nata nel 1927 ed è stata interrotta tra il 1957 e il 1977 per ragioni di sicurezza. La partecipazione è limitata alle vetture, prodotte non oltre il 1957, che avevano partecipato (o risultavano iscritte) alla corsa originale.
La prima edizione della Mille Miglia si tiene nel marzo del 1927 con il nome di Coppa delle 1.000 Miglia e con la partecipazione di 77 equipaggi. A organizzarla i piloti bresciani Aymo Maggi, Renzo Castagneto e Franco Mazzotti insieme al giornalista Giovanni Canestrini.

 

 

Inizialmente era costituita da una gara unica, in un percorso a forma di otto. Solo 51 auto raggiungono l’arrivo. Dopo 21 ore, 4 minuti, 48 secondi alla guida su strade non asfaltate, Ferdinando Minoia e Giuseppe Morandi tagliano il traguardo da vincitori a bordo della loro Om 665 Sport Superba. Velocità media: 78 km/h.

La gara del 1930 entra negli annali. A vincerla, con l’Alfa Romeo di Enzo Ferrari, è Tazio Nuvolari. Resta nella storia il sorpasso notturno al rivale Achille Varzi: per fargli credere di essere stato vittima di un guasto, il pilota mantovano spegne i fari della propria auto e prosegue al buio, seguendo le luci di coda dell’avversario, per poi superarlo di sorpresa e andare a vincere la corsa.

La Mille Miglia viene sospesa nel 1939 per un grave incidente avvenuto a Bologna l’anno prima e poi viene interrotta negli anni della Seconda guerra mondiale.

 

Riprende nel 1947 e dura per dieci anni: l’ultima Mille Miglia di velocità si corre nel 1957. Vince Piero Taruffi che, all’arrivo a Brescia, tenendo fede a una promessa fatta alla moglie Isabella, annuncia il suo ritiro dalle competizioni. Il suo trionfo conquistato con la Ferrari passa però sotto silenzio: a fare notizia sono i nove morti tra gli spettatori che a Guidizzolo, in provincia di Mantova, mentre stanno assistendo al passaggio della carovana di bolidi a lato della strada vengono falciati da un’altra Ferrari, “impazzita” per una gomma scoppiata. Muoiono anche i piloti Alfonso De Portago e il suo compagno, Nelson. Il mondo dello sport si ribella e dice basta. Per quella tragedia Enzo Ferrari viene messo sotto processo dalla magistratura e poi, anni dopo, assolto.

 

 

 

Quell’incidente a Guidizzolo cancella la Mille Miglia di velocità, che però torna a essere organizzata vent’anni dopo, nel 1977, con la formula di gara di regolarità: percorso di trasferimento da Brescia fino a Roma e quindi risalita a Brescia, intervallato da prove cronometrate, alcune con tempo imposto. La prima riedizione viene vinta dall’Alfa Romeo RL SS di Hepp-Bauer: è l’inizio di un successo andato via via aumentando. Nel novembre 2004 l’Automobile Club di Brescia e alcuni appassionati della corsa danno vita a Sant’Eufemia (in provincia di Brescia) al Museo della Mille Miglia. Al suo interno sono presenti le macchine storiche utilizzate dai vari piloti nel corso degli anni. La gara, a cui ogni anno partecipano molte personalità famose della politica, della cultura e dello spettacolo, ha un grandissimo seguito.

 

 

MGF

 

 

Docufilm diretto da Phil Grabsky

Con l’ausilio di interviste di esperti e letture di diari e grazie a un sorprendente sguardo gettato sul suo quotidiano, HOPPER. UNA STORIA D’AMORE AMERICANA fa rivivere l’artista probabilmente più influente di tutta la storia statunitense

 

 

 

 

EDWARD HOPPER: SOLITUDINE O MERAVIGLIA?

Edward Hopper è stato di recente definito l’artista della pandemia; sì, la nostra, il Covid-19 che ha spezzato la quotidianità a cui eravamo tanto abituati. Non posso che essere d’accordo, ma non per la solitudine, l’ineluttabilità, la tristezza che così tanto sembrano permeare le sue opere: per l’esatto contrario.
Le opere di Hopper dipingono soggetti comuni: persone, luoghi e oggetti che tutti noi ci troviamo davanti agli occhi almeno una volta al giorno, solo uscendo di casa.

 

 

La signora che beve un caffè al bar, l’edificio illuminato dal sole a mezzogiorno, l’uomo di mezza età seduto sul bordo del marciapiede ad aspettare chissà cosa… tutti elementi banali e trascurabili della realtà di ogni giorno, banali e trascurabili in quanto non influiscono in alcun modo sul trascorrere della nostra giornata.
E invece eccolì lì, olio su tela, esposti in un museo.
Essere esposti in un museo significa arte, ancor di più quando lo spettatore si ferma e prova qualcosa, sente emozioni che non sapeva di avere dentro di sé; e allora, questi insignificanti elementi della routine quotidiana sono arte?
Sì, sono arte. Sono piccoli istanti che avremmo gettato via senza farci troppi problemi, forse addirittura senza rendercene conto.

 

È arte la signora che beve un caffè al banco: forse si è fatta bella per qualcuno, forse invece solo per se stessa.
Forse si è alzata dal letto stamattina e ha deciso di meritarsi un caffè preparato da mani che non sono le sue, forse si è vestita sorridendo perché sta finalmente per incontrare un’amica che non vede da tempo, forse si è fatta coraggio per uscire e cercare un respiro che a casa le sfugge.

 

 

 

È arte la banalissima casetta a schiera tutta bianca che a dire il vero infastidisce quando la luce del sole ci si riflette sopra in una certa maniera: è arte perché qualcuno ci abita e la ricolma di amore, è arte perché sta aspettando che qualcuno la faccia sua, è arte perché qualcuno l’ha amata e vissuta e ora essa ne è eterno simulacro.

 

 

 

È arte l’uomo seduto sul bordo del marciapiede, quello che ti aspetti di vedere distrutto nel giro di pochi mesi: è arte il suo tirare avanti, provarci e fallire, “riprovarci e fallire meglio”, per dirla con Beckett.

 

 

 

L’arte è celata in molte cose: nell’acero in giardino che comincia a coprirsi di foglie nonostante non ci siano bambini a guardarle. Nel cielo così azzurro da far venire le vertigini, anche se non ci sono folle di persone nei parchi gioco a distendersi sull’erba e a rimirarne l’immensità. Nel piccolo bocciolo del cactus sul vaso del balcone, che ha deciso di fiorire proprio mentre tutto il resto del mondo è immerso in una stolida immobilità di stupore.

 

 

La vita fiorisce, e la vita è poesia: la solitudine può essere bellezza, ce lo mostrò già Van Gogh con le sue opere. La disperazione è arte nella testardaggine del combattimento contro di essa, una strada nascosta e quasi invisibile che quasi certamente non ci porterà dove pensavamo di andare, ma che forse seguiremo comunque per ritrovarci in un posto inaspettato e meraviglioso.

 

 

Era arte cantare dai balconi alla domenica, applaudire il coraggio di medici e infermieri, era arte anche solo andare sui social network e interagire con perfetti sconosciuti e raccomandare loro di stare al sicuro, di non correre rischi, augurare loro il meglio se si ammalavano o se riferivano della malattia dei loro cari.
Durante il lockdown, ricordo la paura: azioni quotidiane e banali erano diventate all’improvviso fonte di rischio, un nemico invisibile ci aveva assediati nelle nostre stesse case… ma ricordo anche tanto amore e tanta bellezza.


Ricordo un bocciolo di tulipano che sbucava dal terreno nel giardinetto dietro casa, che si spingeva a respirare l’aria insolitamente pura. Ricordo un cielo così azzurro da volerci fare un quadro. Ricordo persone qualsiasi, che spiccavano in un mondo all’apparenza disabitato, uscite per qualche commissione urgente, e ricordo quanto ho amato, per una breve frazione di tempo, quegli sconosciuti.
L’arte ritrae la realtà, e la realtà è ognuno di noi. E Hopper ci insegna ad amare tutto ciò.

 

 

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali


Quella di Hopper è un’America popolare, silenziosa e misteriosa, capace di influenzare pittori come Rothko e Banksy, cineasti come Alfred Hitchcock e David Lynch, ma anche fotografi e musicisti.


Il successo delle sue tele, la personalità enigmatica dietro il pennello, la capacità di indagare la solitudine come nessuno prima di lui era riuscito a fare, tanto da dialogare, a distanza di decenni, anche con chi, in periodo Covid, si è trovato recluso, solo, isolato.


MGF

 

Regia di Antonio Albanese – Italia, 2023 – 94′
con Antonio Albanese, Liliana Bottone, Bebo Storti

 

 

 

 

UN FILM SULL’ITALIA PERBENE, CON BELLISSIME INTUIZIONI DI REGIA E UN ALBANESE COME SEMPRE MAGISTRALE

Il tornio maneggiato con molta perizia da Antonio Albanese nella parte iniziale di Cento domeniche è lo stesso che ha usato per anni quando era operaio specializzato, prima di consegnarsi al cinema. Come se l’attrezzo fosse rimasto ad aspettarlo fino alla prova più importante della sua carriera di attore e regista.
Il particolare è la parte più romantica di un film per il resto fortemente drammatico che piace nel suo rigore, nell’asciuttezza stilistica, nel controcanto dei caratteri e delle psicologie, nella sobrietà dei panorami lacustri e degli interni piccolo borghesi. Siamo a Lecco, dove si specchia l’esistenza quieta, senza pretese, definitiva di Antonio Riva, gran lavoratore da poco in prepensionamento per certe turbolenze dell’azienda, amico del titolare (Elio De Capitani) che ne apprezza la competenza e le qualità umane e ancora si serve di lui per istruire gli apprendisti avendo cura che non lo sappia il sindacato.
Antonio vive con la mamma anziana (Giulia Lazzarini, 89 anni), ha un’ex moglie con la quale è rimasto in buoni rapporti (Sandra Ceccarelli) e una brava figlia, Emilia (Liliana Bottone), in procinto di sposarsi con il socio del negozio di abbigliamento in cui lavorano entrambi. L’uomo ha un gruzzolo in una banca locale, è la sua sicurezza. Ma ha convertito le obbligazioni in azioni senza rendersi conto che la barca stava andando nei pali. Tra l’altro proprio quando si era deciso, con orgoglio paterno, a sostenere i costi del matrimonio di Emilia nonostante i genitori dello sposo, più facoltosi, si fossero offerti di fare altrettanto.
Antonio ha un sogno da onorare e non sente ragioni anche se le avvisaglie della tempesta si moltiplicano: 30 mila euro è l’entità del prestito chiesto alla banca con l’intesa che gli interessi sarebbero stati presto ripagati dal buon andamento delle azioni. Invece tutto crolla, gli impiegati diventano evasivi, frettolosi, usano parole di circostanza. I giornali cominciano a parlare di crack. Un conoscente nelle stesse condizioni del buon Antonio va fuori di testa. Insomma, il piccolo patrimonio sfuma e per l’operaio specializzato Riva è un’insopportabile vergogna.
I risparmi di una vita coscienziosa e perbene, fedele alle regole e ai principi, vengono cancellati dalla speculazione. Antonio si sente tradito, ma testardamente rifiuta ogni aiuto, trascinato nella disperazione dalla consapevolezza che non tutti subiranno quell’onta. Albanese racconta un horror sociale: il precipizio di un uomo che si trova di fronte a un muro e cede alla depressione. Abituato a usare le mani e con quelle a determinare il suo destino, Antonio è ora impotente. Altri manovrano contro di lui. Gli tolgono la capacità di scelta, la forza di reagire, la dignità.
Albanese guarda all’attualità e scorge un mondo di truffatori e di truffati, in cui il buon senso, l’etica, la parsimonia, anche sentimentale, sono una chimera e la solidarietà è commiserazione. Non è più tempo di ridere, sembra dire il comico Albanese, se la società non riconosce i meriti, nega la buone azioni e trasforma i gentili in fessi da raggirare e i virtuosi in gente che non conta nulla. Il discorso del film è politico, sociale e di prospettiva: quale futuro può esserci di fronte a questa rovinosa deregulation etica. Alla quinta regia, Albanese conferma uno stile che rimonta alla grande lezione di Ermanno Olmi, a un cinema senza aggettivi, fedele alla grammatica delle emozioni. E da lodare è il coraggio, ripetutamente dimostrato, di saper rinunciare ai vantaggi di un enorme credito popolare maturato grazie alla televisione, per un cinema civile, appassionato, che è una lama nella coscienza collettiva. Nota finale: le cento domeniche citate nel titolo è il tempo che in media un operaio della provincia italiana degli anni Sessanta impiegava per costruire la propria casa, attività a cui normalmente poteva dedicarsi solamente nel fine settimana quando non lavorava in fabbrica.

Paolo Baldini – Corriere della Sera


Da commedia gentile ad angosciante tragedia: Antonio Albanese torna nei suoi luoghi d’origine con un film che sa unire l’urgenza del racconto alla sincerità d’esecuzione. I sogni infranti dei piccoli risparmiatori traditi dalle banche di fiducia.


Più amaro di Ken Loach, Albanese firma il suo miglior film da regista, ammirevole per il nobile impegno civile e l’autenticità di scavo esistenziale, tornando nella nativa Olginate a raccontare il misero destino della brava gente finita sul lastrico per essersi fidata delle banche.


Trasformista capace di far ridere o piangere con egual intensità, Albanese stavolta ci prende per mano per accompagnarci all’altare sacrificale della finanza creativa. Interpreta, scrive e dirige un film confidenziale sul dramma dei piccoli risparmiatori abbindolati dalle banche, convinti – come Pinocchio dal Gatto e la Volpe – a firmare contratti complessi senza farsi troppe domande

Recensioni
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VENT’ANNI DI CRACK DELLE BANCHE

Dal caso Cirio agli scandali Parmalat, Veneto Banca e Popolare di Vicenza all’ultimo della Banca Popolare di Bari. I crack bancari e finanziari degli ultimi anni, tra fallimenti e liquidazioni che si sono succeduti nel nostro paese e all’estero, hanno trascinato nel baratro oltre 1,3 milioni di risparmiatori italiani, i quali hanno visto andare in fumo complessivamente più di 45,4 miliardi di euro investiti in azioni, obbligazioni e titoli vari.
Così il Codacons che stima una perdita media di 34.427 euro a risparmiatore. Con il caso di Banca Popolare di Bari, l’associazione dei consumatori trae spunto per aggiornare i conti dei principali default registrati a partire dall’anno 2000 e che hanno coinvolto le tasche degli italiani, cancellando i risparmi investiti.
Si parte con i casi Bipop-Carire, Argentina e Cirio che tra il 2001 e il 2002 hanno coinvolto complessivamente più di 500mila risparmiatori italiani, passando per gli scandali Parmalat (2003, 110mila investitori) e Lehman Brothers (2008, 100mila investitori), fino ad arrivare ai più recenti Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza (2016, oltre 206mila investitori coinvolti).
Banca Popolare di Bari ha bruciato fino ad oggi 1,5 miliardi di euro di risparmio dei 70mila soci attraverso l’azzeramento del valore delle azioni, e al momento non si  conosce il destino dei 213 milioni di euro investiti dai piccoli risparmiatori in obbligazioni della banca.
Il conto totale per la collettività – dice il Codacons – è abnorme: dal 2001 ad oggi più di 45,4 miliardi di euro di risparmi sono letteralmente andati in fumo, e solo una minima parte di tali investimenti è stata poi recuperata dai piccoli risparmiatori

 

CONSIGLI DI LETTURA

L’ITALIA DEI CRACK. VITTIME, ARTEFICI E MANDANTI DELLE TRUFFE FINANZIARIE DEGLI ULTIMI ANNI
di Mara Monti

 

È la parabola della Parmalat e del suo fondatore, Calisto Tanzi. Vicenda parallela a quella di Sergio Cragnotti e della Cirio. Era dai tempi del crack Ambrosiano e del Banco di Napoli che non si vedevano dissesti di queste dimensioni. Più di mezzo milione le vittime dei crack degli ultimi anni: dai bond venduti come sicuri e divenuti carta straccia dopo l’insolvenza (Parmalat, Cirio, Giacomelli, Fin.part), ai derivati spericolati di Italease, fino alle dot.com della new economy all’inizio degli anni 2000 (Freedomland, Finmatica, Opengate e Algol). “L’Italia dei crack” ripercorre le storie del malfunzionamento del sistema finanziario italiano, gli intrecci con le banche, i controlli troppo laschi, i conflitti d’interesse dei revisori, dei sindaci e dei consiglieri. Una ricostruzione lucida e rigorosa che svela misteri e retroscena del fallimento di alcune grandi società, anche alla luce delle sentenze che la giustizia ha finalmente emesso.

 

 

MGF