Nella lista dei "200 più importanti cantanti di sempre" con cui Rolling Stone ha aperto il nuovo anno, il numero 162 di Françoise Hardy è l'unica presenza in classifica della musica francese. Tra i motivi addotti per la sua inclusione nel pantheon: si scriveva le canzoni da sola – "una rarità nella prima metà degli anni Sessanta, soprattutto per le donne" – rifece magistralmente Susanne di Leonard Cohen e un venticinquenne Bob Dylan si incapricciò non ricambiato di lei, dedicandole una poesia sul retro del suo album Another Side of Bob Dylan. La lista menziona anche il suo aver lavorato con "maestri come Serge Gainsbourg", e questo nonostante Gainsbourg sia uno degli esclusi dalla lista, forse perché considerato troppo compositore o troppo controverso. A essere stato giudicato abbastanza originale e influente da finire nella lista è invece il pop orecchiabile e malinconico di Hardy: una donna nata nel 1944 e cresciuta con il rock'n'roll che veniva dall'America, che conobbe i Beatles e i Rolling Stones e le cui foto di quand'era ventenne sembrano essere state scattate ieri, invece che sessant'anni fa.

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L'influenza di Françoise Hardy è stata anche, e soprattutto, una questione d'immagine. Col suo viso squadrato dagli zigomi alti, i grandi occhi azzurri che spuntavano al di sotto della frangetta castana, in jeans e camicia da uomo o in vestitini cortissimi che evidenziavano il suo fisico androgino, faceva sembrare ciò che c'era stato prima di lei un'anticaglia, e le pin-up degli anni Cinquanta un residuo dei tempi di guerra. Quando la intervistò nel 1966, il New York Times scrisse di lei che riusciva a far sentire preistorico chiunque avesse più di venticinque anni. Hardy, che all'epoca di anni ne aveva ventidue, era diventata famosa a diciotto grazie a quella che è ancora oggi uno dei brani più noti del suo repertorio, Tous les garçons et les filles. Si tratta di una canzone malinconica che aveva scritto ispirata dalle poesie di Alfred de Musset, in cui un'adolescente guarda le coppie felici attorno a lei "mentre io vago sola per le strade, l'anima in pena perché nessuno mi ama". Anche se lo stile di Hardy è più personale e introspettivo, il suo debutto intercetta e si fonde con l'epoca dello yéyé, quando giovani e giovanissimi cantanti venivano messi sotto contratto per cantare canzoni rock e twist adattate da originali inglesi e americane, spesso infarcite di yeah – da cui il nome del genere. Come i suoi colleghi, nel corso degli anni Sessanta Hardy riempie tutti gli spazi: le esibizioni musicali, il cinema, le pagine delle riviste. Nelle foto che Richard Avedon le fa per Vogue nel 1967, Hardy ha addosso tubini e collant dai colori sgargianti, che si stagliano contro il caratteristico sfondo bianco di Avedon, e fissa seria l'obiettivo, circondata dall'aureola dei suoi lunghi capelli lisci. Ma le sue foto più famose rimangono altre.

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Una, in bianco e nero, la ritrae avvolta in una pelliccia di fronte a un canale di Amsterdam, l'espressione indecifrabile, con sullo sfondo i rami spogli degli alberi d'inverno. In un'altra, Hardy è sul set di un film in giacca e pantaloni di pelle, gli occhi nascosti da grandi occhiali da sole. La sua immagine e la sua musica contribuiscono a creare qualcosa che non c'era davvero stato prima e che diventa rapidamente un'estetica, se non un'aspirazione: l'idea di una ragazza eternamente adolescente, senza chaperon né marito, che vaga sola per la città scattando foto, si ferma in un caffè a leggere un libro, o strimpella qualche nota sulla sua chitarra. Meno apertamente sensuale di Jane Birkin, Hardy non ha come lei un compagno ingombrante la cui figura sia diventata indissociabile dalla sua vita e dalla sua carriera: un pigmalione c'è, ma è più discreto. Jean-Marie Périer, il suo primo fidanzato, è un fotografo che ritrae tutti i nuovi artisti pop e rock degli anni Sessanta. La sua sapienza in fatto di immagine aiuta Hardy a creare uno stile che da allora ha sempre avuto fortuna, nonostante il mutare dei trend. Persino la scelta degli stilisti da cui farsi vestire la fa sembrare una star dei nostri giorni, solo più glamour. Nel 1967 Paco Rabanne crea per lei un miniabito preziosissimo, in lamine dorate intarsiate di brillanti, che anticipa in meglio gli abiti da sera in maglia d'acciaio visti addosso a Paris Hilton o a Kendall Jenner decenni dopo. Le minigonne metallizzate di Rabanne sono ancora l'aspirazione di tutte le modaiole, non meno di quelle in vinile di Courrèges: anche lì, Hardy c'era arrivata prima, indossando vestitini e completi di Courrèges nel bianco ottico reso famoso dallo stilista francese.

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Famosamente timida, già alla fine degli anni Sessanta Hardy ha smesso di esibirsi in pubblico, allontanandosi dalla scena pop. Ma ha continuato a comporre musica fino al 2018, anno del suo ultimo album di inediti: Personne d'autre, disco d'oro in Francia. Anche se la musica mainstream è oggi andata in un'altra direzione, il pop deve ancora molto a lei e alla sua generazione, la prima a usare consapevolmente la moda per creare un'icona che sopravvivesse alla musica stessa: eternamente bella, eternamente giovane, eternamente chic.