Yōko Ono: un universo in espansione | Humans vs Robots
 

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Yōko Ono: un universo in espansione

La donna più odiata del rock? Semmai la più geniale!

Per disonestà, faciloneria e ignoranza, tuttora Yōko Ono è un nome che suscita malignità e dileggio. Trattandosi di un’artista che ha contribuito non poco al progresso della popular music, abbiamo deciso di fare un po’ di giustizia.

La ballata di Yōko

Trascorso ormai più di mezzo secolo, resti ancora basito di fronte ai preconcetti che circondano Yōko Ono. Roba da indignarsi per la limitatezza di vedute e specialmente per il livello di idiozia, misoginia e razzismo delle accuse che, sfociando nella calunnia, sono tanto crudeli quanto scarse nelle fondamenta. Se si conoscono anche solo un minimo i fatti, è semplice smantellare l’orrendo castello di maldicenze e ridurlo in macerie sulle quali edificare subito un elogio.

A noi interessa il secondo, tuttavia risulta ancora impossibile slegarlo dalla zavorra di ignoranza e disonestà. Per troppe persone Yōko ha distrutto i Beatles, quando costoro già andavano in direzioni opposte, divisi da anni spesi a folle velocità. Non sarebbero sopravvissuti al Rinascimento del Novecento che loro stessi avevano contribuito a plasmare, sono usciti di scena al momento giusto e per arcinoti motivi un’affermata artista nipponica è finita nell’occhio del ciclone.

Quanto alla “rovinafamiglie”, certe cose si fanno in due: in precedenza John Lennon non era stato uno stinco di santo con Cynthia, né lo sarà con la donna dalla quale molto ha appreso sotto il profilo creativo. E state pur certi che, fosse stata la Ono un’occidentale bianca, tutti avrebbero fatto finta di niente come con Linda Eastman. Infine, per sfatare le insinuazioni sulla dilettante dell’avantgarde, parlano chiaro il retroterra che ne precede l’ingresso nel rock e, da lì in poi, l’influenza esercitata su decine di nomi illustri.

Serve altro per tappare la bocca ai denigratori? No, vero? Benissimo, ché ora possiamo passare alle cose serie. A musiche innovative proposte mettendosi in discussione con coraggio, tenacia e senso dell’umorismo. Alle visioni abbaglianti per consistenza e capacità di sfuggire a ogni categoria. Alla rilevanza nel campo di un’arte che era multimediale e interattiva prima che tali termini venissero coniati, alla sperimentazione caratterizzata da profonda umanità, a una “voce-strumento” che sprigiona un primitivismo e una sincerità così incontaminate da far male però bene.

Serve altro?

Yōko Ono ha osato ridefinire grammatica, sintassi e lessico della musica popolare, dunque è logico che sia stata (ri)scoperta ampiamente quando il rock ha avviato la sua fase post. Ciò nonostante, tuttora sbattiamo contro chi non accetta di essere disorientato dall’arte. Pazienza. Del resto, cosa volete che sia una manciata di infimi pregiudizi per un fiore d’acciaio che, senza cedere alla sofferenza, ha saputo flettersi con orgoglio per novant’anni? E allora tanti auguri, Ono-sama.

Tra la testa e il cielo

Sin dal principio non esattamente una passeggiata, la vita della nata nel 1933 sotto il segno dell’Acquario. Pur appartenendo all’alta borghesia, l’infanzia di Yōko scorre da introversa e solitaria: il padre è un banchiere trasferito avanti e indietro tra Stati Uniti e Giappone con la famiglia, mentre la madre si concentra sulle relazioni sociali. Alla ragazzina non manca comunque nulla tra lezioni di piano, recitazione, canto e l’educazione nell’istituto più esclusivo di Tokyo.

Durante la Seconda guerra mondiale la capitale è rasa al suolo, il babbo si trova in un campo di concentramento ad Hanoi e gli Ono riparano in campagna dovendo arrangiarsi per mangiare. Yōko inizia a costruire una corazza protettiva che non le impedisce di osservare il mondo da angolazioni inusuali e di assecondare l’istinto, da prima donna del Sol Levante che, terminato il conflitto, si iscrive alla facoltà di Filosofia, abbandonata nel ’52 per raggiungere i genitori e il fratello a New York.

Frequenta corsi universitari di Letteratura e Musica con in tasca i santini di Arnold Schönberg, Edgard Varèse, Henry Cowell e John Cage, nel 1956 sposa il compositore Toshi Ichiyanagi e vuole farcela da sola. Lavora come segretaria, insegna alla Japan Society, nel loft di Chambers Street dove risiede crea opere e con LaMonte Young organizza happenings mescolando musica, poesia e performance art. Non lo sa, ma sta mettendo in pratica un modus operandi che tramite la Factory di Andy Warhol (aperta di lì a due annetti) conduce alla scena che genererà la no wave e i Sonic Youth.

Dal dicembre 1960 fino alla primavera seguente gli eventi attraggono nomi celebri e l’attenzione di George Maciunas, caposcuola del movimento Fluxus che promuove la Ono nella sua galleria. Prendete nota di quanto accompagna una crescente notorietà: divorzio, depressione e ricovero, il nuovo marito Anthony Cox, la figlia Kyoko. La reazione è una carriera in pieno decollo grazie al volume Grapefruit e altre opere, tra le quali una Cut Piece che nel ‘66 spalanca a Londra le porte della notorietà mondiale. In novembre, a una personale presso la Indica Gallery, Yōko incontra John e addio rispettivi partner. L’esistenza di entrambi sta per cambiare radicalmente.

Dove la parola "cut" non era messa lì solo in senso metaforico.

Musiche infinite

Gli ultimi bagliori beatlesiani si sovrappongono alla storia che stiamo raccontando. Ritrovata una figura materna, Lennon la celebra in Julia (dove i versi «ocean child» traducono il nome Yōko) e diventa cosa sola con lei introducendola ad Abbey Road, allestendo manifestazioni pacifiste e pubblicando dischi. A contare più dei bizzarri Unfinished Music No. 1: Two Virgins, Unfinished Music No. 2: Life with the Lions e Wedding Album, però, sono un bambino perso da Yōko e il matrimonio nel febbraio 1969.

Per differenziare il percorso solista John vara la Plastic Ono Band, che dopo i 45 giri Give Peace a Chance e Cold Turkey (eccellenti, i brani della Nostra sui retri) consegna l’LP Live Peace in Toronto 1969. Un’estemporanea line-up comprendente Eric Clapton, il bassista Klaus Voormann e Alan White alla batteria si cimenta con standard R’n’R, i suddetti singoli, una Yer Blues pescata dell’Album Bianco e gli esperimenti di Yōko, rispondendo ai fischi con ondate di feedback. Partenza un po’ così, e artisticamente si procede in parallelo fino al tramonto del decennio.

Qualcuno direbbe: «So hippie!».

A intrecciare le traiettorie provvedono il contraccolpo emotivo della fine dei Beatles e la teoria dell’urlo primordiale ideata dallo psicologo Arthur Janov. Da lì nel 1970 scaturiscono due lavori gemelli: speculari copertina e cifre autoriali, l’album lennoniano è un capo d’opera splendidamente sofferto, tuttavia non vale meno un antesignano di Diamanda Galas, Sonic Youth e Don Caballero che offre la chitarra tagliente dello stesso John, i ritmi precisi di Ringo Starr e Voormann e una vocalità che libera sofferenze a lungo represse, ispirata alle tecniche del teatro kabuki e fors’anche alla Abbey Lincoln straziata del magnifico Freedom Now Suite di Max Roach.

Il Plastic Ono Band “made in Yōko” parla la lingua avveniristica di un urticante e geniale post-rock cubista dalla contorta Paper Shoes alle possenti Why e Touch Me, passando per le dodici battute in transito dall’estasi all’ansia di Why Not, la pacatezza disturbata di Greenfield Morning I Pushed an Empty Baby Carriage All Over the City e una AOS da navigatrice delle stelle in jazz libero, raccolta alla Royal Albert Hall nel ‘68 con il quartetto di Ornette Coleman.  

Impossibile osare di più? Non per chi nel ‘71 insiste con Fly: un vinile ambient dalle venature industrial con radici ataviche, l’altro che dipana i rock mutanti Midsummer New York e Hirake, i Led Zeppelin maltrattati di Don’t Worry Kyoko, una Mindtrain che preconizza P.I.L. e Slits, la devianza psych folk di Mind Holes e la tesa riflessione Mrs. Lennon. Estro e lucidità sono vicinissimi al coevo krautrock come certe apocalissi degne dei Can (toh: anche il loro cantante è giapponese…) di Tago Mago. Tutto dire.

Tutto un tripudio di «shake» e «aching».

Un po' di tempo a New York City

In fuga dai tabloid, dalle persecuzioni dell’establishment e dall’astio dell’opinione pubblica, in settembre ci si trasferisce a New York e per Natale Listen, the Snow Is Falling inventa lo slowcore dal lato B di Happy Xmas (War Is Over). Brani superiori all’intero Some Time in New York City, approntato insieme a John sull’onda delle frequentazioni con Jerry Rubin e Abbie Hoffman avendo l’FBI alle calcagna. Teso il clima, ne risente una musica piatta e schiacciata da testi sloganistici.

Nel 1973 il marito è superato a sinistra con Approximately Infinite Universe, secondo doppio (!) che ingloba l’asprezza in intensi rock urbani screziati di black. Perfetto l’equilibrio di passione, trasversalità e scrittura, sfilano la sinuosa Yang Yang e un’avvolgente Death of Samantha, il fiero intimismo di What a Bastard the World Is e I Have a Woman Inside My Soul, l’inno I Want My Love to Rest Tonight e il proto wave-funk What Did I Do!

Avvolgente anche in questa versione quel tanto più elettrica.

Altrove, tra folk pop e ballate, tra sussurri e grida, ti imbatti in gemme che brillerebbero nei repertori di Bruce Springsteen (Peter the Dealer, Catman, I Felt Like Smashing My Face in a Clear Glass Window) e di un Peter Gabriel pre-sbandata etnica (la traccia omonima, Kite Song, Air Talk) come tra i solchi di Easter di Patti Smith (Move on Fast, Looking Over from My Hotel Window). Un altro capolavoro? Sì, un altro.

Quello stesso anno il concept femminista Feeling the Space affronta la perdita di Kyoko, sottratta da Cox e con la quale Yōko potrà riunirsi soltanto nel 1998. Ridotto il minutaggio su richiesta dell’etichetta, ammorbidisce spartiti e sonorità con meno brillantezza compositiva, però non in una delicata Growing Pain, nella livida Coffin Car, nel soul Run, Run, Run e nel gospel girato new wave Woman Power. Nel frattempo si è aperta una crepa nel rapporto con Lennon. I nervi a pezzi e l’anima incrinata, arriva la fatidica pausa.   

Mappe dell'inferno

Spiazzante sempre e comunque, Yōko Ono. In un curioso gioco di specchi, negli anni Ottanta il rock si rimette al passo tramite “no” e “new” wave e nondimeno Approximately Infinite Universe, Feeling the Space e l’LP perduto A Story – inciso nel ’74 e recuperato quasi vent’anni dopo – sottolineano che l’avvicinamento verso forme più tradizionali risaliva a prima della separazione, conclusa entro diciotto mesi ricominciando da tre. Sean Ono Lennon nasce il giorno del trentacinquesimo compleanno di John, il quale si congeda per crescere (con) il figlio allorché mamma si occupa degli affari.

Un po' Yōko, un po' John.

La serenità che contribuisce a Double Fantasy va in frantumi l’8 dicembre 1980 e sei mesi dopo su Season of Glass campeggiano quegli occhiali, lordi di sangue. Uno shock, ma che poteva fare una donna assurdamente e intimamente ferita se non attraversare a piedi nudi il dolore – lo stesso che dopo l’accaduto attanagliava chiunque – sperando in un po’ di luce alla fine del tunnel? Se un dio non esiste, è a noi che spetta liberarci dal male: si spiega così la catarsi che poggia testi di una franchezza da lasciare attoniti su canzoni lineari, benché opache anche a dispetto della regia di Phil Spector.

Mentre il sensazionale singolo Walking on Thin Ice coglie un discreto successo, da qualche parte e in qualche modo bisogna ricominciare. Per un’innovatrice, l’atto più estremo consiste nell’affrontare il mercato mantenendo classe e ispirazione come in It’s Alright (I See Rainbows), che nel 1982 sterza verso una riuscita wave pop in scia a Blondie e ai discepoli B-52’s.

Let's dance to the funk! (ma occhio a non scivolare)

Un’ipotetica trilogia termina con Starpeace, invettiva contro il programma reaganiano di difesa missilistica che ricorre alla produzione di Bill Laswell proponendo ritmiche in levare, terzomondismi e funk rock tecnologico. In assenza di autentici guizzi la critica fa spallucce e, mezzo secolo e spicci sulla carta d’identità, la Signora si ritira.

Stagioni di vetro

Forse convinta di aver espresso tutto l’esprimibile in musica, Yōko torna all’arte e gli anni Novanta cominciano a collocarne l’operato nella giusta prospettiva. Eloquenti l’antologia Onobox, un’intervista per la rivista Option e il ritorno a metà decennio con l’autobiografico musical off-Broadway New York Rock, preludio al fenomenale Rising in compagnia di Sean e dei suoi IMA. Da applausi la devastante potenza sotto controllo (Warzone, I’m Dying) e un’agile coesione che permette il funky giamaicano Wouldnit, l’hip hop in febbri hard di Ask the Dragon e quello groovy di Talking to the Universe, l’aguzzo folk rock Turned the Corner e un’eccelsa e fluviale title track.

Sette calendari e Blueprint for a Sunrise si riallaccia a Feeling the Space con spirito moderno, apici il post-rock da manuale I Want You to Remember Me “B” e il lamento Soul Got Out of the Box, lo squadrato funk It’s Time for Action! e la ballata I Remember Everything. Poliedrica e inafferrabile, negli anni Zero Yōko affida il remix di Walking on Thin Ice a Pet Shop Boys, Danny Tenaglia e Felix da Housecat centrando il primo di cinque numeri uno nella classifica dance, convoca un parterre di re e regine (Cat Power, Flaming Lips, Jason Pierce, Le Tigre, Antony…) a misurarsi con sonorità più nuove che mai in Yes, I’m a Witch ed è nome di punta al Pitchfork Music Festival dell’estate 2007.

Ma anche Miike Snow.

Significativo cerchio che si chiude, l’esibizione a Chicago che intreccia musica e performance art. Lo stesso una rifondata Plastic Ono Band con Sean, Yuka Honda delle Cibo Matto e membri dei Cornelius che, AD 2009, rende ancor più profondo e attuale Between My Head and the Sky. Se The Sun Is Down! è danzabile con intelligenza, Ask the Elephant! impasta krautrock e jazz e Hashire, Hashire la imita con reggae e R&B, laddove alla travolgente Waiting for the D Train e alla tribale Moving Mountains rispondono un’acidula Calling e le crepuscolari Memory of Footsteps, I’m Going Away Smiling e Feel the Sand.

Meraviglie da accostare all’attivismo ambientalista e a Take Me to the Land of Hell, pubblicato nel 2013 a un’età che nel rock pochi raggiungono lucidi e ancor meno elargendo graffi (Shine, Shine), sconquassi funkadelici (Cheshire Cat Cry), disco aliena (7th Floor, Bad Dancer) e peculiare classicismo (N.Y. Noodle Town). In controluce, la malinconia scivola tra le pieghe di un’esistenza tribolata, sospiro che guadagna il proscenio in Watching the Dawn e Little Boy Blue Your Daddy’s Gone.

Salutate Wayne Coyne.

Assai probabilmente un saluto, e il migliore auspicabile. L’ultima decina di anni racconta la retromania di Yes, I’m a Witch Too (riletture a cura di Sparks, Moby, tUnE-yArDs, Death Cab for Cutie…) e Warzone, in cui la voce domina climi austeri rivedendo materiali di assoluta contemporaneità. Canzoni che non invecchiano mai, da una spoglia Imagine (della quale Yōko è stata accreditata coautrice nel 2017) che sigilla l’album di auto-cover a quanto appare nel tributo Ocean Child: Songs of Yoko Ono. Poco da stupirsi, in fondo. Come con ogni donna, siamo al cospetto di un essere superiore nel quale smarrirci, confusi e felici. Di un genio che contiene moltitudini e saluta con un sorriso il tempo che scorre. Domo arigato, figlia dell’oceano.

Yōko Ono John Lennon The Beatles