Neri Marcoré: “Non sono un nostalgico, ma agli Anni 60 invidio l’innocenza” - La Stampa

Nello specchio del suo primo film da regista Neri Marcorè ritrova se stesso, in un panorama di Italia Anni ’60 che non serve solo a rievocare e a rimpiangere, ma anche, e soprattutto, a fare paragoni: «C’erano, allora, nell’affrontare la vita, semplicità, ingenuità, pudore, rapporti umani meno frenetici. Quella è stata la nostra Belle Epoque, con il boom economico e un benessere che riguardava tutti gli strati della società. Non mi ritengo nostalgico, sono nato nel ’66, i mie ricordi cominciano negli Anni ’70, però quello, per l’Italia, è un periodo fondamentale». L’ottimismo, oggi, non è di gran moda, eppure, in Zamora, liberamente ispirato al romanzo omonimo di Roberto Perrone (HarperCollins già Garzanti), presentato in anteprima al Bif&st e dal 4 nei cinema, si avverte un soffio di speranza: «L’Italia del film era pervasa da innocenza e entusiasmo, sentimenti simili a quelli che si provano quando ancora non si percepiscono le turbolenze dell’adolescenza e si respira a pieni polmoni l’incoscienza di un’infanzia che ci illudiamo possa essere eterna».

Abbiamo perso per sempre la possibilità di essere felici?
«No, anzi, sono convinto che anche adesso avremmo un sacco di motivi per essere felici, solo che li sottovalutiamo e tendiamo a piangerci addosso. Penso, per esempio, ai progressi della scienza, della medicina, della tecnologia».

E’ ottimista?
«Che vantaggio ci sarebbe nell’essere pessimista? Bisogna per forza pensare al meglio, poi, se le cose non vanno come dovrebbero, si può fare autocritica, prendere atto della situazione, reagire, e la reazione deve per forza essere votata al meglio possibile, altrimenti ci si ferma, ci si arena».

Negli Anni 60, prima della contestazione, c’erano relazioni più formali, comportamenti obbligati, adesso, invece, prevalgono reazioni violente, prevaricazione, imbarbarimento. Che ne pensa?
«Penso che oggi prevalga un malinteso senso di autonomia e di indipendenza, è come se la voglia di affermare se stessi potesse consentire qualsiasi tipo di degenerazione, qualunque percorso, a discapito dei rapporti umani. Domina un senso di libertà che però non è in equilibrio con quello degli altri e così finisce per ferire il prossimo. Nel periodo del film le aspettative c’erano, così come i sogni, ma, per realizzarle, si cercava di puntare al meglio, di lavorare su se stessi, di elevarsi».

Adesso, invece, che cosa si fa?
«La tendenza attuale, il famoso uno vale uno, ha portato storture. Non ci si può sentire allo stesso livello di chi ha studiato una vita intera per acquistare certe conoscenze, ripenso al Covid e all’epoca dei virologi. La competenza, che prima aveva valore inossidabile, oggi è diventata sinonimo di conquiste immeritate, elitarie. In passato si cercava di tirar fuori il meglio da se stessi, ora, per farlo, sembra inevitabile dover sminuire gli altri».

La ragazza di cui si innamora il protagonista di Zamora, Walter Vismara (Alberto Paradossi), subisce molestie in ufficio, da parte di un ingegnere sbruffone e donnaiolo. Com’è cambiato, col MeToo, il modo in cui le donne reagiscono a questo tipo di offese?
«Nell’epoca del film certi tentativi, seppure scomposti, rientravano in un ordine di idee diverso, in cui non venivano percepiti come violazione, sempre a patto che riguardassero persone di pari grado, altrimenti il discorso è diverso. Si poteva scegliere, accettare il corteggiamento oppure no».

Oggi che cosa è successo?
«Gli uomini si sentono spodestati, hanno maturato una maggiore insicurezza, sono spiazzati dall’emancipazione femminile, dovrebbero reagire in modo razionale e maturo e questo non sempre accade. In altri casi succede che siano talmente insicuri da non tentare nemmeno l’approccio, affidando magari tutto ai social, in altri ancora prevale la reazione violenta, quella di chi non sa elaborare il rifiuto, e allora arriviamo, purtroppo, ai casi di femminicidio e di stupro».

Siamo nell’epoca del politically correct a tutti i costi. Che ne dice?
«E’ vero, c’è un fraintendimento continuo di tutto, un’ipersensibilità spinta, esagerata. Se faccio una battuta su quel tavolino e dico che non mi piace, può arrivare quello che l’ha costruito e sostenere che sto offendendo la sua identità. Gli approcci risentono di tutto questo. Penso ai bambini di oggi super-protetti dallo scudo dei genitori, e a quelli di ieri che, invece, erano spinti a sviluppare gli anticorpi e a trovare la propria identità da soli, per strada, magari litigando e facendo a botte. Il bene e il male ce l’abbiamo dentro, è impossibile disinnescare l’impulso negativo, bisogna maturare un processo endogeno, che non può essere imposto da fuori. L’iper-correttismo artificiale non serve a nulla. Lo trovo idiota».

Si riferisce anche alla cosiddetta «cancel culture»?
«Parlo di alcune scelte, buttare giù la statua di quel certo storico, mettere in discussione un’opera letteraria, cancellare un attore come Kevin Spacey. Ma che senso ha?».

Il protagonista di Zamora fa venire in mente lei, nei suoi primi film.
«Sì, il film mi corrisponde, Vismara ricorda me nel Cuore altrove. L’ imprinting di Pupi Avati è forte, durante le riprese l’ho sempre sentito vicino».

Al centro di Zamora c’è la vicenda di un uomo che chiede aiuto e lo riceve. Succede anche nella vita vera?
«Per fortuna sì, continuamente. Questi sono i valori che ci salvano, quelli di cui abbiamo bisogno».

Adesso che è diventato regista, smetterà di recitare?
«Recitare mi piace ancora tanto. Ma voglio anche continuare a fare cinema, soprattutto a fare cose che abbiano senso, cose in cui credo, è un bisogno che, a questo punto della carriera, avverto in maniera più marcata rispetto agli inizi. Mi sembra sempre più importante non sprecare tempo».