La tolleranza repressiva dell’Occidente. “Fatherland”, il film dimenticato di Ken Loach

Su Prime, “Fatherland” di Ken Loach del 1986: la storia di Klaus Drittemann, cantante dissidente di Berlino Est che decide di trasferirsi all’Ovest, nella società capitalista, e scopre che… A partire dal testo teatrale di Trevor Griffiths (che firma la sceneggiatura) un cosiddetto “film minore” del grande regista inglese, poco visto e considerato: ma l’indagine sul rimosso occidentale, la “tolleranza repressiva” e il controllo sociale dicono che forse è ora di riscoprirlo…

Per ogni grande regista esiste la cosiddetta “opera minore”: una patente spesso dovuta alla storia del film, a un percorso travagliato oppure a una scarsa visibilità, alla congiuntura di fattori negativi che porta un titolo nel cono d’ombra, fino ad essere dimenticato.

Così è per tutti e anche per Ken Loach, la cui filmografia ha avuto un doppio inizio. Il primo all’esordio in sala, con Poor Cow del 1967 e soprattutto il capolavoro, Kes del 1969, ma poi la carriera loachiana – che incarnava la sostanza del docudrama britannico – fece curiosamente il passo del gambero e il regista tornò a lavorare in televisione.

Per lui la tv non è mai stata una diminuzione, anzi il mezzo adatto per raggiungere il più ampio pubblico possibile, ma spesso negli anni Settanta e Ottanta il suo lavoro finì lontano dalla sala, oscillando tra finzione e documentario. Il secondo inizio di Loach è con L’agenda nascosta, premio della Giuria al Festival di Cannes 1990, che lo riporta all’attenzione della comunità cinematografica internazionale, stavolta senza più “retrocedere”.

Nel doppio decennio di purgatorio televisivo (lo diciamo noi per lui) Loach va nella sala cinematografica con pochi titoli, tra cui Fatherland del 1986. Eccola, un’“opera minore”: la storia di Klaus Dritterman, cantautore a Berlino Est nel 1985, che per l’impossibilità di lavorare alle sue canzoni critiche contro la Repubblica federale tedesca, decide di trasferirsi nella Germania dell’Ovest.

Un film che non viene mai ricordato nell’opera loachiana, disponibile in Dvd per RaroVideo e ora anche sulla piattaforma Amazon Prime, in originale con sottotitoli italiani. Per inquadrare la premessa del racconto bisogna tornare al tempo della Germania divisa: il cinema politico di Loach non poteva evitare la questione e quindi la affronta di petto, inscenando la parabola immaginaria ma plausibile di un singolo individuo per sondare le ombre di Stato, le contraddizioni dell’epoca e i suoi punti interrogativi.

Alla base c’è il testo dell’autore teatrale Trevor Griffiths, che firma la sceneggiatura: lo scrittore consegnò al regista un copione blindato, con inizio, svolgimento e fine non modificabili, nonostante Loach operava da vent’anni sull’improvvisazione degli attori e sulla “scomparsa” della macchina da presa, avendo definito il metodo che prevede “l’obiettivo come occhio umano”.

Dobbiamo stare dentro le situazioni, secondo Loach, occorre avere l’impressione che stiamo vedendo la realtà mentre accade e non la sua riproduzione. Il realismo scientifico loachiano si confronta con una sceneggiatura “troppo scritta”: è lo scontro fertile tra le due spinte che produce un esito unico e peculiare. Come scrive Luciano De Giusti in Ken Loach (edizioni Il Castoro cinema): “Dice Trevor Griffiths: ‘Se Loach potesse fare un film senza macchina da presa, lo farebbe’ (…)”. E Loach replica scherzando: ‘Trevor dovrebbe fare il regista. Le sue sceneggiature già lo fanno’”.

Klaus Drittemann lascia Berlino Est, dunque, e arriva all’Ovest per sviluppare la sua musica senza passare al setaccio del regime: qui viene accolto da una rappresentante della Taube Records, casa discografica che gli offre un contratto per lanciarlo in Occidente. In realtà quello di Klaus è un movimento a doppio scopo: vuole lasciare la zona comunista, certo, ma anche rintracciare il padre Jacob Drittemann, dissidente come lui fuggito, di cui si sono perse le tracce da oltre dieci anni.

Il racconto si presenta come percorso di svelamento graduale: Klaus, insoddisfatto all’Est, ma non politicizzato, si rifiuta di criticare la DDR e vuole solo fare la sua musica. Realizzerà che la situazione nell’Ovest, seppure di segno politico opposto, in verità non è così differente: Loach lo insinua attraverso scene gemelle, Klaus viene interrogato prima dalla Stasi e poi dalla Cia, da uno Stato all’altro, ma la sostanza non cambia.

Il rigido controllo sovietico lascia spazio al capitalismo occidentale, con la sua apertura illimitata al mercato: il paradosso – presto palese – è che se Drittemann all’Est non poteva scrivere la sua musica, allo stesso modo all’Ovest viene sottoposto alla legge delle major, subisce offerte-tagliole da prendere o lasciare, viene strumentalizzato dal governo filo-americano, commissariato dalle grandi aziende, insomma il risultato è lo stesso: l’impossibilità di esprimersi liberamente.

Se Berlino Est era povero e indigente, a Berlino Ovest ci sono due milioni di disoccupati: è forse questo essere liberi? Se lo chiede il protagonista nella scena della conferenza stampa quando, a confronto con il ministro della Cultura occidentale, ne smaschera l’accoglienza interessata per fare un uso politico dell’artista contro la zona comunista. Le contraddizioni di entrambe le parti, l’ipocrisia e gli schieramenti di facciata sono riassunti da Loach in didascalia: “Lo stalinismo non è socialismo, il capitalismo non è libertà”.

Il regista segue una regola fissa del suo cinema: ingaggiare attori che nella vita siano il più vicino possibile ai personaggi interpretati nella finzione. Così il protagonista Gerulf Pannach è un vero cantautore dissidente della Germania Est, che si esibisce nel corso del film, e allo stesso modo la conferenza stampa si svolge con giornalisti veri a cui l’autore ha chiesto di fare domande vere.

Così, al solito, la ricreazione della realtà si confonde con la realtà stessa: tutto è credibile, in queste figure, dal modo di vestire a quello di camminare, dal mesto grigiore nelle strade dell’Est al baccanale capitalista di un’industria bizantina e drogata. Loach si produce in una ripresa memorabile: Klaus, ormai occidentalizzato, si trova al confine del Muro e lancia uno sguardo verso Berlino Est, dove due poliziotti camminano per la strada semivuota con il loro controllo sociale. Guardando verso Ovest, invece, c’è un mercato luccicante e cannibale. Entrambe le società sono parziali, entrambe hanno buchi neri.

La seconda parte dell’intreccio diviene più apertamente politica, con Klaus alla ricerca del padre aiutato da una giornalista francese, che si rivela una “cacciatrice” di ex nazisti: perché allora anche lei vuole rintracciare quel genitore? Il finale disegna una riflessione ambiziosa perfino sulla Storia del Novecento, nella sua tragica confusione di ruoli, nel dilemma indecidibile di stabilire ciò che siamo.

Il Loach storico di Terra e libertà è qui in filigrana. La “Fatherland”, terra dei padri, si rivela ambigua e deludente ma contiene anche un’epifania: nessun sistema è perfetto, nessun uomo ha forma definitiva. Loach indaga i fantasmi sociali, i rimossi occidentali, l’ossimoro della “tolleranza repressiva”: in una delle note deviazioni dal percorso principale, vediamo, passato il confine inglese, un gruppo di attivisti ambientalisti contro il nucleare bruscamente fermato dalla polizia. La lucida tesi di Loach viene portata avanti senza enunciarla ma mimetizzata nelle immagini, secondo il principio del regista che affida il giudizio finale a chi guarda: “Anche lo spettatore deve fare il suo lavoro”.

Ecco allora che una “vecchia storia” di trentacinque anni fa parla ancora al contemporaneo. A proposito della Germania divisa, l’ultimo film di Fabrizio Ferraro, Checkpoint Berlin, documentario alla ricerca di uno zio scomparso all’Est, coltiva la leggenda di un mitico passeur, un personaggio – forse esistito – in grado di muoversi liberamente dall’Est all’Ovest attraverso una strada segreta mai intercettata.

Fatherland fa parte di quella mitologia “vera” e plausibile. A proposito di controllo sociale, invece, l’urgenza dell’oggi imposta da un virus riporta ai poliziotti in giro per strade deserte. Non era forse questa la Germania Est inscenata da Loach? Fatherland è un film dimenticato, ma è il tempo giusto per vederlo e riscoprirlo.