Dune Recensione

Dune, la recensione del film: Denis Villeneuve adatta Herbert e lo traduce in un film dalla spettacolarità plumbea e dilatata

03 settembre 2021
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Fedelissimo al romanzo, tanto da ricalcare molte situazioni del film di Lynch, il Dune di Denis Villeneuve presentato Fuori Concorso al Festival di Venezia 2021 è curatissimo e non deluderà i fan, ma si prende anche un po' troppo sul serio.

Dune, la recensione del film: Denis Villeneuve adatta Herbert e lo traduce in un film dalla spettacolarità plumbea e dilatata

Da un lato, un libro di culto per gli amanti della fantascienza da una cinquantina d'anni a questa parte, con il cui adattamento si è andata a scornare - in esiti differenti ma egualmente deludenti - gente del calibro di Jodorowsky e Lynch. Dall'altro, uno dei pochi registi contemporanei che, con una manciata di film, è stato in grado di ottenere tanto il riconoscimento da parte della critica (che, per quanto mi riguarda, è largamente esagerato) quanto quello che viene invece dall'establishment hollywoodiano, e che tiene in mano i cordoni della borsa.
Le file lunghissime all'ingresso della prima proiezione stampa di Dune al Festival di Venezia, in un orario in cui la maggior parte degli spettatori solitamente dorme ancora, e il clima da atterraggio dei Beatles a Tokyo che ha accolto Timothée Chalamet e gli altri membri del cast al Lido, danno la misura di quanto questo incontro tra il romanzo di Herbert e Denis Villeneuve fosse atteso dalla comunità cinefila mondiale.

Tanto per cominciare, i seguaci dello scrittore non avranno da gridare alla lesa maestà, visto che il Dune di Villeneuve è molto fedele al testo, e verrebbe da dire anche alla sceneggiatura di quello di Lynch, dato che gli eventi raccontati da Villeneuve nella prima ora e mezza del suo film sono in buona sostanza paralleli a quelli dei primi novanta minuti del film dell'84. Il che significa, circa, fino all'attacco degli Harkonnen agli Atreides.
Nella sua parte finale, complici gli interventi scellerati di De Laurentiis, il Dune di Lynch velocizzava in maniera confusa e semplicistica quel che rimaneva del libro di Herbert: Villeneuve invece si è preso un'altra ora solo per arrivare all'incontro di Paul con i Fremen, e con la Chani qui interpretata da Zendaya, rimandando a un secondo film presumibilmente lungo quanto questo il resto della vicenda.
Questo significa che Villeneuve si è preso la libertà di tradurre la storia del romanzo in almeno cinque ore di cinema: forse anche per vendicare i colleghi, che proprio sulla durata del film, prima l'uno e poi l'altro, erano andati allo scontro con la produzione. Una durata, quella del suo Dune, che è paradossalmente forse eccessiva: perlomeno questo primo film avrebbe giovato di un minutaggio inferiore. E anche che le sorprese, sul piano della storia, sono poche o nulle.
Ma al canadese questo chiaramente non importa, perché lì dove vuole andare a colpire lo spettatore, mi pare, non è con l'originalità narrativa, ma prima di tutto con l'impatto sensoriale.

Scenografie, costumi, design di navi spaziali, armi e oggetti sono in effetti piuttosto impressionanti, e anche da non fan di Denis Villeneuve riconosco che la sua regia è capace di una certa eleganza geometrica di messa in scena che fa il paio con un spettacolarità magniloquente, decisamente non comune. Anche il cast è stato assemblato con intelligenza: con tutta la scarsa simpatia che provo per Chalamet, è un ottimo Paul, così come sono funzionalissimi alla loro parte Rebecca Ferguson, Oscar Isaac e tutti gli altri.
L'unico attore leggermente stonato, in questo cast, è Josh Brolin, eccessivamente quadrato, marziale e urlante anche per il ruolo di Gurney Halleck, sorta di capo di stato maggiore degli Atreides. Ed è proprio lui, che con Villeneuve ha già lavorato nel muscolarissimo Sicario, a essere la spia di quel che di Dune non mi convince.
Perché Villeneuve sarà anche bravo, ma si prende anche un po' troppo sul serio, e come e più di altri suoi film Dune è gravato da una solennità fuori scala, da un peso specifico plumbeo quanto la sua fotografia, da una spettacolarità che è fuori da ogni dubbio ma che non è mai liberatoria o esaltante, ma sempre in qualche modo carica di un pathos esagerato. Il tutto sintetizzato alla perfezione dagli SBRAMM incessanti delle musiche di Hans Zimmer.

D'altronde, quest'estetica iperconcreta di Villeneuve (lontana anni luce da quella visionaria e liquida di Lynch) è anche l'estetica dominante dei tempi che viviamo, che lievi non sono di certo. E sono molti gli indizi che tradiscono la volontà del regista di rispecchiare nel mondo del suo Dune anche quello in cui siamo calati nella vita di tutti i giorni: dal modo in cui ha ritratto dei Fremen, sottolineando in maniera più evidente gli aspetti arabi e mediorientali, terzomondisti in generale, della cultura e della popolazione (Chani sembra quasi modellata sulla ragazza afghana fotografata da Steve McCurry anni fa), a quello in cui ha messo in parallelo implicito il raccolto della Spezia da parte delle Case con lo sfruttamento delle risorse materiali di troppi paesi non sviluppati da parte dell'Occidente post-colonialista.
Che ce ne fosse il bisogno o meno, è tutta un'altra questione.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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