Asteroid City Recensione

Asteroid City: la recensione del film di Wes Anderson in concorso al Festival di Cannes 2023

23 maggio 2023
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Bellissimo da vedere, Asteroid City però conferma non solo (e non tanto) i timori di manierismo di The French Dispatch, ma la deriva di un regista che non più in grado, o non ha più voglia, di dare vita, sangue e sentimenti ai personaggi che racconta. La recensione di Asteroid City di Federico Gironi.

Asteroid City: la recensione del film di Wes Anderson in concorso al Festival di Cannes 2023

A Wes Anderson, io, non posso fare a meno di volere bene. Di recente ho rivisto Le avventure acquatiche di Steve Zissou, che per me rimane il suo film migliore, e mi sono ricordato perché ho amato così tanto il suo cinema.
Eppure, negli ultimi anni è accaduto qualcosa. Io sono cambiato, lui è cambiato, e insomma mi pare un po’ che, esagerando, il mio rapporto con lui e con il suo cinema sia quello di certe coppie di lunga data dove uno dei due, o entrambi, dopo un grande innamoramento, si sveglia un giorno chiedendosi chi sia quella persona con cui ha appena diviso il letto, o la colazione, o la cena.
L’ultimo grande film di Anderson (uno dei suoi migliori in assoluto) è stato Grand Budapest Hotel. L’isola dei cani era ancora a suo modo, interessante: nella stop motion e soprattutto nell’iniziare a usare una terza dimensione dello spazio che complicava e rendeva più affascinante la tradizionale tendenza bidimensionale dell’immagine. The French Dispatch mi era parso invece il film in cui il formalismo inconfondibile di Anderson si era tramutato in fastidiosa maniera: quello di fronte al quale, insomma, mi sono chiesto chi fosse quello lì, che mi serviva a colazione quella stucchevole collezione di dolcetti.
Mi piacerebbe poter dire che ho finalmente riconosciuto l’Anderson del nostro primo amore in Asteroid City, ma non è così. Non del tutto, non in maniera soddisfacente, almeno.

Rispetto a The French Dispatch, qui il passo avanti comunque c’è, ed è visibile. Nel senso che, limitandosi a un’analisi della forma, della superficie e dell’immagine, c’è da dire che Anderson ha trovato una misura migliore, questa volta.
Negli scenari esplicitamente da cartone animato, da Willy il Coyote e Beep Beep (il roadrunner c’è davvero!), e nell'estetica e nel decor anni Cinquanta che dominano Asteroid City, Anderson ha trovato un terreno non solo fertile per la sua creatività, ma anche funzionale a quell’immaginazione, e capace paradossalmente da fare da argine, magari parziale, a certe esondazioni manieriste. A questo si aggiunge un secondo livello del film - che è sia estetico che narrativo - nel quale Anderson, con l’uso del bianco e nero, riesce ugualmente a smorzare certi eccessi.
Tuttavia, nonostante tutto questo, e nonostante alcune piccole invenzioni che sono direttamente figlie dell’esperienza di Anderson nell’animazione in stop motion, e che singolarmente sono spesso divertenti (a volte addirittura deliziose, termine qui volutamente ambiguo), l’impressione è che di nuovo questo regista coccolato non solo dal mondo del cinema, ma anche da quello dell’arte e della moda, non sia riuscito a riempire le sue inconfondibili e magari affascinanti inquadrature di una storia e di dei personaggi capaci di dare, se non una profondità, una sostanza, un sentimento, un’emozione.
E questo, a quello che mi fa ancora piangere come un bambini con lo squalo giaguaro e Staralfur, non è cosa che possa perdonare facilmente.

D’altronde, qui Anderson è esplicito, fin dal modo in cui apre il suo film: l'operazione è tutta di testa.
Il film si apre con un narratore (Bryan Cranston) che racconta - con le parole ma anche con le immagini, in bianco e nero - la genesi di una pièce teatrale scritta da un celebre commediografo (Edward Norton), che poi verrà messa in scena da un regista (Adrien Brody) e diverrà il film che noi vediamo, quello a colori e con protagonisti Jason Schwartzmann, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Maya Hawke e tutti gli altri, storia di un gruppo di personaggi riuniti in una sperduta cittadina, se così la si può definite, per un premio da assegnare a giovanissimi appassionati di scienza e spazio. È esplicito, quindi, nel dire che questo Asteroid City è un film che parla delle meccaniche della creazione, quasi una blue print di quelle che Will il Coyote estraeva dalle casse dell'ACME per costruire le trappole con cui avrebbe voluto catturare il Beep Beep.
L’alternarsi e l’intrecciarsi dei due piani del racconto non appare però in grado di dare i risultati che forse erano auspicati, e le problematiche e i tormenti cui magari si fa riferimento con le parole, in un mondo come nell’altro, rimangono freddamente intellettuali, non sono mai tangibili, non toccano mai l’emotività di chi guarda. Né il lutto del personaggio di Schwarzmann, fotografo di guerra con quattro figli che ha appena perso la moglie, né il suo amore per un’altra tormentata, l’attrice a-la-Monroe interpretata da Johansson, per fare qualche esempio. Nemmeno gli amori giovanili che Anderson aveva raccontato così bene in Moonrise Kingdom, qui hanno carne e sangue, il calore di qualcosa di vivo, e non solo disegnato.
Per non parlare delle crisi creative del personaggio di Norton, risolto da un coro di personaggi che intonano “Non c’è risveglio senza sonno”: la più banale delle riflessioni sulla creatività.

Rimane, vago, sulla lingua e al palato, il gusto tenero e nostalgico per quell’era intrisa di speranze e ingenuità che sono stati gli “happy days” degli anni Cinquanta, per quello scrutare nello spazio sperando (o temendo) l’apparizione di qualche UFO simbolo di chissà quali pericoli o possibilità (e che qui possono essere buoni giusto per delle action figures di sicuro successo). Una nostalgia che a Anderson sta evidentemente a cuore, ma che non esplode mai davvero.
E tutto quello che ho da dire a Wes Anderson, allora, è la più trita e ambigua delle frasi: "non sei tu, Wes, sono io".



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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