Il talento di Donnie Yen, l'action hero senza età di Hong Kong

Tra i protagonisti di John Wick 4, Donnie Yen è l’ultima star dell’età dell’oro delle arti marziali e all’alba dei 60 anni continua a spaccare
Attore produttore e regista cinese Donnie Yen spazia dalla saga di Star Wars  a quella di John Wick
Attore, produttore e regista cinese, Donnie Yen spazia dalla saga di Star Wars (Rogue One) a quella di John Wick

Nel nome del cinema, Donnie Yen è stato preso a pugni un numero di volte superiore a quanto lui stesso possa ricordare. Steso a furia di calci. Bruciato. Fatto a pezzi. Sbalzato da cavallo. Pensate a una ferita, lui se l’è fatta. «Ne ho così tante», dice ridendo. Indubbiamente fa parte del suo lavoro: non ti puoi costruire una carriera spaccando culi per 40 anni negli action movie made in Hong Kong senza prenderti dei calci. Almeno ogni tanto.  Yen potrebbe passare ore a raccontarvi le storie dei suoi incidenti. 
Per farla breve, eccone una. 
Il set è quello dell’ormai classico Once Upon a Time in China II diretto da Tsui Hark nel 1992 ; Yen deve girare una scena d’azione, di quelle che oggi non si fanno più. Lui e la leggenda delle arti marziali Jet Li si sfidano a colpi di bastoni  di bambù fino a fare letteralmente crollare l’edificio in cui combattono. Coreografie di arti marziali da urlo. Sfoggio atletico spettacolare. Soprattutto, zero effetti CGI (computer generated imagery).  
«Jet Li si fa male, così una controfigura prende il suo posto», spiega Yen. «Entrambi spezziamo i bastoni dell’altro e ne impugniamo due, uno per mano...». Peccato che i bastoni di scena non fossero all’altezza del loro compito e abbiano dovuto usare del vero bambù, «terribilmente massiccio e pesante». 
Il colpo era semplice: Yen doveva bloccare un attacco con il suo bastone senza scomporsi, doveva rimanere impassibile come un  vero maestro di wushu. La controfigura, però, non riusciva a centrare il bersaglio. «Dopo 20 o 50 mosse, continuava a sbagliare»,  ricorda. All’ultimo tentativo, il tizio ha esagerato e lo ha colpito in  faccia, squarciandogli la fronte a sei cm dall’occhio. Quasi lo accecava. «Ho visto le stelle. Il sangue schizzava come in un horror». 
Yen finisce in ambulanza e via, verso sei punti di sutura. Il giorno dopo, il regista lo chiama. «Donnie, ho bisogno di fare un primo piano, puoi venire? Va bene, dai, ti riprendo solo di profilo». Yen ride. «Sono andato e ho concluso la scena».

giacca e sciarpa Dior

Yen non riporta questa storia per fare lo spaccone, ma piuttosto per spiegare l’esaltante panorama della cinematografia di Hong Kong negli anni Ottanta e Novanta. 
All’epoca del suo arrivo, Hong Kong era già da tempo l’epicentro del cinema in lingua cinese e la patria dei film d’azione più audaci e spettacolari del pianeta. Per attori come Yen, cresciuti nell’epoca d’oro del kung fu, gli effetti digitali non esistevano. Se c’era da realizzare un’acrobazia, la facevi. Se qualcuno si doveva beccare un colpo in faccia... se lo beccava. 

«Erano stupidaggini da macho», commenta Yen, che nel corso degli anni ha imparato alcuni trucchi per smorzare i colpi. «Mettevo del cotone tra i denti, almeno evitavo che me li facessero saltare». Yen è attualmente uno dei più grandi attori cinesi, l’ultimo di una dinastia di star delle arti marziali che da Bruce Lee va a Jackie Chan e arriva fino a Jet Li. I fan di tutto il mondo lo ricorderanno in Rogue One, il primo spin-off di Guerre Stellari, e da questo mese è anche nel quarto film della fortunata serie John Wick
Sebbene sia ancora noto per le sue scene di duello, oggi non deve più prendersi dei colpi in faccia, almeno non di proposito. Nessun attore meglio di lui è capace di comprendere o farci apprezzare la bellezza danzante del combattimento puro. Alcuni dolori, però, continuano a farsi sentire. 

Yen non riesce a estendere completamente verso l’alto il braccio destro. «Non ho più i tendini della spalla»: se li è lesionati nel 1985, quando durante le riprese di Mismatched Couples è stato sbattuto contro un muro di mattoni. 
Quest’anno l’attore compirà 60 anni e ogni giorno gli porta la sua dose di sofferenza. «Un supplizio che peggiora con l’età». Un altro avrebbe già mollato, o almeno avrebbe rallentato. Yen,  invece, no. «Sono davvero fortunato perché ho ancora molta velocità, energia e potenza», puntualizza. «Posso alzarmi la mattina e  lanciarmi in una serie di jump kicks. Per ora quel che mi serve sono tre tazze di doppio espresso e un po’ di riscaldamento...».

L’attore ride di nuovo. Il giorno dopo potrebbe essere indolenzito, ma ora si sente capace di fare il suo lavoro. «Per fortuna, ogni volta che sono sul set, il vero Donnie Yen entra in azione», dice. «Devo recitare. Quando la telecamera si accende, sono pronto».


Yen sarà anche vicino ai 60, ma di persona sembra dieci anni più giovane. Magro e muscoloso, pelle luminosa, sorriso smagliante, si presenta al Gordon Ramsay Bar & Grill di Londra con una giacca in pelle di McQueen, tuta da ginnastica e la tesa  del cappellino da baseball, su cui campeggia lo slogan motivazionale “You Can Do It”, abbassata. Proprio in quel momento,  noto un paio di commensali asiatici che stanno silenziosamente  dando di matto. La cosa non è per niente insolita. Yen è ben conosciuto e rispettato in Occidente, dal momento che ha lavorato a Hollywood, a fasi alterne, dalla fine degli anni Novanta. Ma non è comunque nulla a paragone della fama conquistata in Asia, dove la sua straordinaria produzione ne ha fatto un gigante nel mondo  del cinema in lingua cinese. Se si esclude la cerchia dei più accaniti amanti delle arti marziali, la maggior parte dei suoi circa 80  film rimane sconosciuta al pubblico americano. Pellicole come Iron Monkey, SPL e Flash Point, ad esempio, sono comunque dei classici del genere. Senza contare Ip Man, la saga cinematografica iniziata nel 2008 e basata sulla biografia dell’omonimo maestro dell’arte marziale Wing Chun, nonché mentore di Bruce Lee: quattro film che, almeno in Cina, hanno dato il via a un intero genere  di derivati. Di recente, Ip Man ha rilanciato la carriera di Yen ed è uno dei motivi per cui l’attore si è trovato più che mai oberato di impegni: film cinesi, produzioni hollywoodiane e svariate attività commerciali, tra cui una linea di occhiali da sole. Il telefono non smette mai di squillare. «Ecco la mia agenda», dice mostrandomi  l’applicazione del calendario sullo smartphone, una griglia di quadrati colorati così fitta da sembrare un Tetris.

Abito Double RL, stivaletti Alessandro Vasini, occhiali da sole personali

In questo momento Yen è al montaggio finale del suo nuovo film Sakra, un maestoso adattamento del romanzo wuxia dal titolo Demi-Gods and Semi-Devils scritto dall’autore bestseller Jin Yong. È un progetto per lui molto importante. Non ne è solo regista e  produttore esecutivo, ma anche protagonista e, nei flashback, interpreta il padre del proprio personaggio. Nessun problema, visto che  non ha età. 
Sakra è stato girato l’anno scorso, fuori Shanghai, con un budget relativamente ridotto. Come spesso ama fare nei film che dirige o produce, Yen ha curato ogni dettaglio: costumi, scenografie, musica, coreografie d’azione. Sul cellulare ha una dozzina di chat create per collegarsi ai vari team di produzione, così, quando immancabilmente si sveglia alle 4 del mattino con in testa nuove idee, può  subito ordinare di provvedere ai cambiamenti necessari. 
Mi mostra la prima traccia del trailer di Sakra: un film elegante e  molto ben girato. Soprattutto se si considera l’arduo compito affrontato nel metterlo in scena. I romanzi di Jin Yong, vere e proprie  epopee in più volumi, sono molto amati in Cina, ma non sempre i precedenti adattamenti hanno ricevuto un’accoglienza favorevole. 
«È un lavoro difficile», spiega Yen. «Noi cinesi abbiamo un modo tutto nostro di interpretare la storia. Esattamente come per Guerre stellari, certe imprese sono inevitabili». Ciononostante, Yen ne è stato ispirato e ha visto in Sakra l’opportunità di creare qualcosa di nuovo rispetto ai soliti film di genere wuxia. «Non voglio ripetere  cose già viste. Per esempio, in Hero abbiamo puntato su inquadrature poetiche impreziosite dall’uso del colore e dalla qualità della  fotografia. Ora dobbiamo cambiare strada! La domanda è: quale potrebbe essere un approccio nuovo?».

Giacca, pantaloni e cintura Gucci, stivaletti Christian Louboutin


È questo l'atteggiamento che ha guidato Yen nell’arco dell’intera carriera: l’irrequietezza. 
Nato a Guangzhou, nella Cina continentale, a due anni si sposta a Hong Kong insieme al padre, redattore in un giornale. A causa delle restrizioni imposte dall’allora governo di Mao, sua madre, Bowsim Mark, gran maestro di wushu di fama nazionale, non ha il permesso di accompagnarli. «Siamo stati separati per otto anni», ricorda. 
La famiglia finalmente si ricongiunge quando Yen ha 10 anni, per trasferirsi poi a Boston, dove il padre ha ottenuto un posto in un giornale cinese. Adattarsi alla vita da immigrati negli Stati Uniti è un’impresa difficile e la famiglia deve vivere qualche tempo con i buoni pasto. La stessa Boston non è sempre ospitale. «Oggi si parla di ingiustizia, ma all’epoca era terribile, non potete immaginare», ricorda Yen. «Riuscivo a trovare la forza per andare avanti solo grazie alle arti marziali». 
La madre apre una scuola di arti marziali nella Chinatown della città e Yen diventa rapidamente uno dei suoi studenti più promettenti, anche se non ne sopporta i metodi autoritari. «Era molto severa, vecchia scuola, un po’ come si vede nei film. Mi trascinava fuori dal letto e mi colpiva con un bastone di legno. “Devi fare questo, devi fare quello”... Lo detestavo». Yen riesce a sfuggire a questa realtà abbandonandosi alla visione dei film di kung fu: con due dollari, poteva vedere due film di Bruce Lee in un cinema del centro. Inizia a vestirsi come Lee, a scuola sfoggia le sue mosse e si infila i nunchaku nei calzini. «Cercavo un’identità. Da cinese, la persona più affine, ovviamente, era Bruce Lee. E se Bruce Lee poteva farlo, potevo riuscirci anch’io». 
È grazie al cinema che Yen scopre arti marziali diverse da quelle tradizionali di tai chi insegnate da sua madre e inizia a frequentare altre palestre di Boston. «Andavo alla scuola di karate di un mio amico o a tirare di boxe, ma mia madre non riusciva ad accettarlo, non capiva perché non potessi imparare da lei. La spiegazione sta tutta nel mio carattere, voglio sempre sapere cosa c’è là fuori». Dal punto di vista accademico, Yen è uno studente mediocre, ma da quello delle arti marziali è unico: reattivo, determinato, veloce come un fulmine. Passa ore a sviluppare il proprio fa jing, ovvero la sua forza esplosiva, a tirare calci al sacco da boxe fino a buttarlo giù. 
A 16 anni, i suoi genitori lo spediscono in Cina, alla Beijing Wushu Team, un’istituzione celebre, da cui escono campioni nazionali, che organizza tour in tutto il Paese in stile Harlem Globetrotters e ha sfornato molti maestri di arti marziali e star del cinema, tra i quali Jet Li, a scuola coetaneo di Donnie. Tra i pochi studenti cantonesi della scuola, Yen vede la città come un altro mondo. «Non ero mai stato a Pechino. Tutto era così diverso: la lingua, la cultura, il cibo», racconta. Lui era un ragazzo di Hong Kong e per di più uno che aveva trascorso i sei anni precedenti in America, non poteva che fare una grande fatica ad adattarsi. «Eravamo tutti cinesi, ma io ero tagliato fuori, ero l’outsider».


All'epoca, Yen non pensava di fare l’attore. Per caso, sua madre conosceva un regista di kung fu di Hong Kong, Yuen Woo-ping. Era stata l’insegnante di sua sorella. Yuen, noto a Hollywood per le coreografie di arti marziali in film come La tigre e il dragone, Matrix e Kill Bill, aveva contribuito a rilanciare la carriera di Jackie Chan, dirigendo i classici Drunken Master e Il serpente all’ombra dell’aquila
«Yuen Woo-ping era alla ricerca di un altro Jackie Chan», ricorda Yen. Sulla via del ritorno da Pechino a Boston per vedere la famiglia, si ferma a Hong Kong dove si sottopone a un provino e Yuen gli fa firmare un contratto triennale per realizzare più film. Donnie ha appena 18 anni. 
In un attimo l’attore si è ritrovato a essere l’allievo di uno dei grandi registi d’azione in quella che poteva essere l’ultima età dell’oro della cinematografia di kung fu. All’epoca, il cinema di Hong Kong, incarnato da Jackie Chan, produceva gli action movie più elettrizzanti del mondo. Ogni studio di produzione voleva surclassare i rivali, tanto nelle elaborate sequenze d’azione quanto nelle acrobazie più pericolose. 
«C’era il clan degli Yuen, quello di Jackie Chan e quello di Sammo Hung», racconta Yen, «e una grande competizione... Passavamo tutto il giorno a escogitare nuove mosse, per poi sentirci dire da Yuen Woo-ping: “Non è abbastanza cool”. Tutto il giorno senza mandare nemmeno un colpo a segno!». 
Questi primi film con Yuen sono stati per lui un corso accelerato sull’arte degli action movie. «Impari a essere preciso e puntuale da ogni angolazione, a capire dov’è la macchina da presa e com’è l’inquadratura se la metti in un certo punto». Più tardi, quando ha iniziato a occuparsi personalmente della coreografia, Yen è riuscito a comporre il film passo dopo passo, montandolo nella sua testa: «Ok, devo muovermi così verso un’inquadratura in campo medio, il movimento quattro, cinque e sei è invece in campo lungo, il sette e l’otto sono per il primo piano...». Ci fa una piccola dimostrazione, con parate e attacchi, come se si stesse allenando con un pupazzo di legno. «Ero in grado di agire come un robot». Negli studios di Hong Kong è rigorosamente vietato fare stronzate. «Era come una vecchia scuola militare, quando Yuen Woo-ping parlava, tutti ascoltavano, non era permesso guardare la telecamera, né fare domande. Era il metodo di Hong Kong». 
Man mano, Yen acquista sicurezza e inevitabilmente lui e Yuen si scontrano: «Sono una persona diretta, ho sempre chiesto perché: “Perché facciamo le cose in un certo modo? Perché è così?”. Al che Yuen rispondeva: “Lo saprai quando sarai un regista”». Con il passare del tempo, però, riesce ad avere un maggiore controllo in scena: prima si occupa delle coreografie acrobatiche e poi arriva alla regia. All’epoca, la popolarità dei film di arti marziali era in calo e Yen era deciso a innovare un genere che cominciava a diventare obsoleto. Ad esempio, una domanda che gli era sempre frullata per la testa era: perché nessuno sbaglia mai un colpo? «Tutto è talmente costruito da sembrare finto. E il ritmo bop-bop-bop-bop è perfettamente a tempo. Troppo, non sembra reale». 
Negli anni, Yen ha contribuito a traghettare i film di questo filone dal mondo delle coreografie classiche, pure e incontaminate, a qualcosa di più complesso e autentico. I suoi personaggi utilizzano le arti marziali miste. Si affrontano, combattono in modo sporco e sbagliano pure, perché Yen sa che a volte un colpo da k.o. finito male è utile al realismo di una scena quanto una dozzina di colpi messi a segno. 
Non tutto però è sempre filato liscio. Nel 1997, Yen fonda la sua casa di produzione, la Bullet Films. I primi due progetti, Legend of the Wolf e Ballistic Kiss, da lui scritti, prodotti, diretti e interpretati, sono un gigantesco flop al botteghino. Yen, rimasto al verde, è ridotto a bazzicare i set cinematografici solo per riuscire a mangiare gratis. Alla fine, è costretto a chiedere un prestito agli strozzini. «Alle Triadi!», Yen dice con un sorriso, ricordando la storia. In quegli anni, spiega, a Hong Kong su ogni set c’era sempre qualcuno che aveva legami con la mafia: era d’obbligo, quanto meno per poter girare in certe location. «Tutti, in un modo o nell’altro, conoscono una Triade», dice. Così anche lui si è fatto presentare da uno dei suoi produttori e ha chiesto un prestito. Per fortuna, è riuscito a saldare il debito, ma non l’ha mai dimenticato. «Ne ho viste di tutti i colori, lotte tra gangster sul set, tutto ciò che si può immaginare», dice Yen, ricordando anni duri, quando il telefono non squillava quasi o gli insuccessi creativi facevano naufragare i progetti. Eppure, ha sempre continuato a lavorare. «La strada è costellata di fallimenti, fa parte della vita. Non siamo invincibili, possiamo solo fare del nostro meglio».

Cappotto Lanvin, camicia, pantaloni e cravatta Dries Van Noten, stivaletti Christian Louboutin


A Hong Kong, in quei giorni lontani, la linea di demarcazione tra gli attori e gli stunt era invisibile. Dai B-boys, ballerini di break dance, agli skater, tutti facevano a gara per fare la cosa più fica. «Mai avuto uno storyboard. È come per un gruppo di musicisti jazz, puoi suonare, e suonare... Semplicemente vieni e fai una jam session!». Un modus operandi aperto e fluido il suo, che negli anni 2000, appena ha iniziato a lavorare negli Stati Uniti come action choreographer, lo ha portato però a scontrarsi con la gestione rigidamente specializzata e divisa in categorie degli studios hollywoodiani. «Quando ho fatto Blade II ho passato un periodo orribile, uno dei peggiori della mia carriera». Yen era stato ingaggiato da Guillermo del Toro per coreografare le sequenze di lotta sovrumane e recitare accanto a Wesley Snipes in un ruolo minore. «Guillermo è stato un vero gentiluomo. È un tipo a posto e adora i film di arti marziali», racconta. Ma «il produttore non mi vedeva proprio, non mi ha nemmeno rivolto la parola». 
Sul set, Yen concepiva complesse sequenze, per poi sentirsi dire di sbrigarsi e andare avanti. «Il produttore arrivava e diceva: “Sì, sì, va bene così. Mezza giornata, un paio d’ore di lavoro, no?”. Un paio d’ore? A Hong Kong ci mettevo due settimane a girare questa roba! Era una mancanza di rispetto, era non capire e non apprezzare quello che stai facendo». 
Lo stesso vale per Yen come attore. Nel corso della sua carriera, Hollywood non ha mai saputo cosa fare di lui o, fino a poco tempo fa, di qualsiasi attore asiatico. Quando la smania per il cinema asiatico ha cominciato a scemare tra il pubblico occidentale, dopo il boom di Chan negli anni Novanta e la mania del wuxia successiva al film La tigre e il dragone, fino ai più recenti ma effimeri successi di Tony Jaa e Iko Uwais, anche le possibilità di star come Yen hanno cominciato a contrarsi. In Cina, Yen può essere un signore della droga, una scimmia animata, un eroe romantico o un soldato, può persino cantare... A Hollywood? Imbrigliato nella solita manciata di vecchi stereotipi: il guerriero saggio, il generale inflessibile, il classico cattivo monodimensionale. 
Spesso il typecasting, una pratica di cinema, televisione e teatro che identifica l’attore sempre con un particolare tipo di personaggio, è del tutto inconsapevole. 
Yen ricorda di essere stato contattato dalla Disney nel 2016 per Rogue One, prequel di Star Wars. All’inizio la sceneggiatura prevedeva che il suo personaggio, Chirrut Îmwe, fosse il classico guerriero di arti marziali. «Era lo stereotipo del maestro che non sorride mai, gliel’ho fatto notare», dice Yen. Così, improvvisando una serie di battute sul set ha suggerito di farne un cieco con il senso dell’umorismo. L’idea lo ha trasformato nell’anima del film. Qualcosa di analogo è accaduto durante la lavorazione di John Wick 4
Il personaggio di Yen, un assassino di nome Caine, all’inizio si chiamava Shang o Chang. «Perché deve sempre chiamarsi Shang o Chang? Non può avere un nome normale? Perché bisogna essere così generici? E poi il guardaroba... colletti mandarini! È scontato! Stiamo parlando di John Wick. Tutti dovrebbero essere cool e alla moda. Perché non lui?». 
È grazie a Yen se il regista Chad Stahelski ha accettato di cambiargli nome e guardaroba. Secondo Yen, il nuovo look di Caine è, in parte, un omaggio al suo eroe Bruce Lee. Non si tratta di una critica a John Wick. «È stata un’esperienza estremamente corretta», dice. «Nel complesso, mi sono divertito a girarlo». Piuttosto è un modo per far capire cosa ha dovuto affrontare per tutta la sua carriera e cosa continua a vivere con altri attori asiatici. 
Oggi Yen è più selettivo nei confronti dei film hollywoodiani: prima di accettare un ruolo, si domanda: «È banale? È rispettoso della cultura cinese?». Anche se ha ignorato gli attori asiatici, nel corso degli anni Hollywood si è appropriata delle tecniche visive e dei linguaggi del cinema di Hong Kong: dal wire work, gli effetti speciali per cui gli attori, appesi con cavi mobili, sembrano volare durante i combattimenti, ad altri trucchi con la macchina da presa. Si pensi alla stessa serie di John Wick: non sarebbe stata possibile senza John Woo e Yuen. «Gli action movie, dai grandi film di Hollywood a quelli per Apple Tv, Netflix o altro, in un modo o nell’altro sono tutti influenzati dalle produzioni di Hong Kong», afferma convinto Yen. Se un tempo moriva dalla voglia di mettersi alla prova, ora non è più così entusiasta delle offerte di Hollywood. «Ogni tanto mi capitano: “Vuoi partecipare?”, mi chiedono. Ma non vuol dire niente...». 
Qualche anno fa, ha rifiutato un ruolo nella saga cinematografica I mercenari - The Expendables. «Visto il trattamento riservato a Jet Li – il cui personaggio si chiama, non sto scherzando, Yin Yang –, potete immaginare il perché». Di recente, ha detto no ad Aquaman della DC Comics per stare un po’ con la sua famiglia. «Se non posso avere un controllo creativo, non vale la pena perderci del tempo». 
Donnie Yen è orgoglioso di essere cinese. Si dice che abbia rinunciato alla cittadinanza statunitense alla fine della prima decade del 2000 e da allora parla di sé come «cinese al 100%». È stupito dai progressi di cui è stato personalmente testimone nel suo Paese d’origine: «Fuori dalla Cina ben pochi se ne rendono conto finché non ci vanno. Parliamo di modernizzazione: autostrade, architettura, comfort quotidiani... Ho girato il mondo, ma non ho visto nulla di simile». 
Si arrabbia poi con i media occidentali che, dice, si concentrano solo sulle storie negative. «La BBC, la CNN non parlano mai del lato vero della Cina. Io sono lì!». Il suo patriottismo rischia, però, di metterlo nei guai. Nel 2019, le posizioni manifestate a favore del governo cinese durante le proteste a Hong Kong hanno spinto molti cinefili della sua città natale a boicottarne i film. «Non è stata una protesta, è stata una rivolta», sostiene. «Non sono qui per fare cambiare idea alla gente. Io ero lì, insieme a numerosi miei amici. Non voglio fare politica, molti non saranno contenti di quel che dico, ma parlo per esperienza personale». 
Se una volta l’atteggiamento di Hollywood nei confronti dei registi cinesi poteva farlo infuriare, oggi Yen è più conciliante. «Cerco di stare meno sulla difensiva. Alcune persone pensano di servire cibo cinese anche se non è così, perché non hanno mai assaggiato l’autentica cucina locale. Vogliono solo essere rispettosi, ma non sono mai stati in Cina. Capisce cosa voglio dire?». Oggi le cose stanno cambiando, anche se i progressi sono stati incredibilmente lenti. La seconda volta che ci siamo incontrati, Yen era “entusiasta”: Michelle Yeoh, amica e collega da decenni, per anni ignorata dalla critica, aveva appena vinto il Golden Globe come migliore attrice protagonista per Everything Everywhere All at Once. «Ci saranno sempre più persone come Michelle», mi ha detto. «Persone che continuano a pensare e ad andare avanti, indipendentemente dai momenti negativi o dalle battute d’arresto». Yen è ottimista. Oggi vede una «grande differenza» nel modo in cui lui e altri attori asiatici vengono trattati a Hollywood. Una delle cose più belle del cinema, sostiene, è la capacità di unire, superando le barriere linguistiche e culturali. Questo vale anche per i film d’azione, «un genere che tutti nel mondo possono apprezzare».


Sempre più di frequente l’attore si sofferma su ciò che potrebbe essere il suo lascito. «Più invecchio, più rifletto su quel che sono. Insomma, mi chiedo, qual è il valore della vita? Quale il suo prezzo? È dove vuoi andare, giusto? In paradiso, all’inferno, o in qualsiasi altro posto...». 
Non è però solo una questione di età. Nel 2019, Yen stava girando il poliziesco Raging Fire quando il regista Benny Chan si è improvvisamente ammalato. È morto mentre il film era ancora in post-produzione per un cancro rinofaringeo. Yen ha terminato la pellicola in sua memoria. «Un momento prima ero con Benny e un attimo dopo se n’è andato. Al funerale guardavo il suo corpo ed era come se... Ero accanto a lui appena il giorno prima», racconta. 
Anche per questo Yen sta cercando di essere più selettivo nel lavoro. Vuole viaggiare di più, passare del tempo con la famiglia. Desidera gustarsi dei piccoli lussi, togliersi qualche sfizio. Intende investire in progetti che ama, come Sakra, il proprio denaro ma soprattutto la risorsa più preziosa, il tempo. 
«In questa vita siamo arrivati nudi, e nudo me ne andrò. Non potrò portarlo con me», dice Yen. «Guardo la vita e mi rendo conto che siamo qui solo per un breve periodo, no? E io credo che il mio destino sia fare dei film». 
Da una decina d’anni, Donnie Yen parla di ritirarsi. «Non finché ho ancora dei progetti da chiudere», precisa. Tuttavia, il suo corpo non è veloce come una volta: è solo un battito di ciglia più lento, cosa che non lo sminuisce affatto, ma è sufficiente a fargli capire che non potrà essere per sempre “questo” Donnie Yen. «Del resto, io stesso non lo voglio, come attore. La mia specialità sono i film d’azione, ma richiedono un determinato fuoco, una certa passione, inevitabilmente commisurate all’abilità fisica. Chissà, magari sono fortunato e a 70 anni sarò uno di quei pochissimi attori ancora in grado di entrare nella parte. Ma in fondo, perché?». 
È per questo che la mattina, quando si sveglia, fa i suoi salti. Per questo assapora ogni scena d’azione, ogni botta, ogni livido. Quando la telecamera si muove, il vecchio Donnie Yen è lì, in azione. «Non so quanto durerà», riflette. «Ma so che un giorno qualcuno mi dirà “ehi, Donnie, non puoi più farlo”. Allora, mollerò tutto».


Foto di Puzzleman Leung
Styling di Jacky Tam

Grooming di Little White
Make up di Kenji Ng
Tailoring di Mrs. Lam
Produzione Jolene Lin