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Dinner in America

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VOTO: 8

Burn in the USA

Una scoperta davvero folgorante, Dinner in America. Per non dire “sbruciacchiata” o “bruciante”, visto che il giovane co-protagonista del film proprio questo fa, quando viene messo alle strette da una società ipocrita, classista, bigotta e castrante: dà fuoco alle cose. Ed è solo la più eclatante, tra le proteste messe in atto da Simon, punker ribelle determinato a scrollarsi di dosso il tanfo dell’America benpensante, menando fendenti sia con la band che ha creato sia con una condotta decisamente sregolata; per trovare poi in Patty, ragazza problematica e con una famiglia altrettanto opprimente sul groppone, la partner ideale per le sue dissacranti imprese.

C’è davvero parecchia energia nello sfrontato lungometraggio di Adam Rehmeier, passato al Sundance 2020 e premiato dal pubblico a Neuchâtel. Noialtri lo abbiamo incrociato alla quinta edizione del ravennate Soundscreen Film Festival, dove Dinner in America ha vinto il Premio alla Miglior Regia; un riconoscimento motivato dalla giuria con queste parole (in parte “rubate” al protagonista) che sottoscriviamo senza riserve: “Dicono che io sia un incendiario, ma il fuoco dentro di me prima o poi esploderà insieme al mio rock, che è la fonte che alimenta la mia vita”. Nel film non è mai stato detto ma il regista ci accompagna sulle strade di un’America socialmente disagiata e ci mostra come, attraverso la scrittura e la musica, si possano superare pregiudizi e diffidenze.

La stramba coppia in fieri intenta a sublimare un disagio profondo attraverso atti creativi e inarrestabili moti di ribellione appare destinata da subito ad entrare nel cuore dello spettatore, grazie anche alla bravura degli interpreti principali Kyle Gallner ed Emily Skeggs, in grado di incarnare il versante borderline di Simon e Patty senza per questo trasformarli in caricature, esaltandone semmai l’umanità sofferta e combattiva; qualcosa che ci ha ricordato, per certi versi, la naïveté dei due protagonisti di Eagle vs Shark, stralunato esordio del neozelandese Taika Waititi.
In compenso Dinner in America, nonostante la successiva virata sentimentale, indubbiamente catartica, è molto più aggressivo e feroce nello smontare pezzo per pezzo i pilastri della società americana. A partire ovviamente dalla famiglia. In ciò la parte iniziale del lungometraggio è quantomai emblematica: subdoli contratti accettati per guadagnare pochi dollari facendo da cavia a nuovi farmaci, bulli palestrati a spasso per la città, discorsi a tavola degni dei Griffin, “machi” in divisa che pattugliano la città atteggiandosi a sceriffi del far west.
Volendo il ricettario è noto, ma nel raffigurare un Midwest puritano ed ottuso Adam Rehmeier rimescola le carte in modo da esaltare le coloriture acide, le venature più ironiche e surreali, con uno stile che a tratti ricorda il primo Todd Solondz; mentre l’insistenza, amplificata da un missaggio sonoro disturbante e da accorti stacchi di montaggio, sul rito dei pasti o sulla dipendenza dai medicinali porta non lontano da Requiem for a Dream, il datato ma sempre attuale capolavoro di Darren Aronofsky. Un altro tassello, insomma, di quel volto sporco e falso dell’America contro il quale anche altri hanno puntato l’indice. Merito di Adam Rehmeier è averlo fatto risultando corrosivo, sferzante, ma senza nascondere un moto di empatica accondiscendenza verso la risalita dagli abissi, intrapresa da una coppia di protagonisti tanto adorabile quanto fuori dagli schemi.

Stefano Coccia

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