L'importanza di "Deep Space Nine" - Fumettologica

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RubricheAnd So What?L'importanza di "Deep Space Nine"

L’importanza di “Deep Space Nine”

Pensiero critico e laterale attorno a quell'incrocio molto trafficato fra cultura, tecnologia e mercato. "And So What?", una rubrica di Fumettologica a cura di Antonio Dini. Il giovedì, ogni 15 giorni.

deep space nine star trek serie tv

Oggi siamo tutti d’accordo che il peggiore errore che si possa fare nel leggere Shakespeare sia quello di farlo come letteratura. È solo nella dimensione dell’evento teatrale, della sua messa in scena, nell’interpretazione e relazione con il pubblico, che si materializza la reale natura contenuta nel testo scritto dal Bardo. È sulle tavole, possibilmente in vecchio legno secolare del palcoscenico londinese, che si libera lo spirito per così dire animale dell’intenzione poetica della partitura teatrale.

È una idea a cui penso e ripenso durante una delle missioni impossibili che mi sono dato per le vacanze di Natale e Capodanno dello scorso anno: guardare una vecchia serie televisiva. Un po’ per volta, a cavallo dei pranzi e magari di qualche serata un po’ lenta, da solo a casa, con determinazione e regolarità. Niente abbuffate, perché sette stagioni sono troppe per un fine settimana.

Tuttavia, lo faccio volentieri, perché mi piace ricadere in un’epoca diversa, che non c’entra niente con lo streaming o con la fruizione disarticolata delle storie di oggi. Un’epoca in cui le serie si guardavano a orario fisso soprattutto nel pomeriggio, durante “l’ora dei ragazzi”, con una cadenza che era dettata dai palinsesti, dalla sensibilità dei programmisti televisivi e di chi curava adattamenti e doppiaggi.

In questi due mesi o poco più mi sono visto quasi tutto Deep Space Nine, insomma, che poi era il mio grande “vuoto” nell’esperienza di trekkista. Ho visto da bambino la serie classica di Star Trek (e quella a cartoni animati) quasi per caso, sulle tv private nostrane. Ho visto Star Trek Next Generation durante la sua prima messa in onda italiana e poi nelle varie repliche. Ho invece intercettato per qualche motivo che adesso mi sfugge solo pochissimi episodi di Deep Space Nine, per poi rifarmi con la slavina di serie (da Voyager in là) e di film e di serie più recenti che sono arrivate nei venti anni successivi.

Fin troppa roba, per essere sinceri. Ma fanno parte della mia biografia, ormai. Ad esempio, ero da poco arrivato a Milano quando ho messo piede per la prima volta al mitologico cinema Arcadia di Melzo per vedere il reboot di Star Trek sul grande schermo, rimanendo fulminato dai neon di J.J. Abrams.

Deep Space Nine mi mancava, e in un certo senso ho anche capito perché. Negli anni la precedeva una fama alquanto negativa. Andò in onda fra il 1993 e il 1999, per sette stagioni e un totale di 176 episodi. Fu la prima serie di Star Trek (quasi) senza un’astronave. Era lenta, pesante, con tratti da soap opera, dove non si andava mai da nessuna parte (sempre dentro il set della stazione spaziale), con un mix di personaggi sopra le righe e inadatti, quasi caricaturali.

Uno per tutti: il mutaforma Odo, conestabile della stazione spaziale bajoriana gestita con la Federazione e affidata al comando di Benjamin Sisko, l’Emissario. Una trama strana, quasi una carnevalata, sembrava, rispetto alla semplicità mininalista della marina della Federazione: una grande nave, un grande capitano, una missione chiara, amici e nemici con i quali sbrigarsela in modo relativamente semplice e soprattutto veloce (una puntata e ciao).

Invece, Deep Space Nine è stata una scoperta. Perché non è una serie, ma sono almeno tre serie diverse compattate, con un livello di produzione molto interessante, alternato tra alti (è stata la prima serie a usare sistematicamente modelli in CGI al posto di quelli tradizionali delle astronavi) e bassissimi (episodi fatti usando giocattoli truccati per ricreare ambientazioni spaziali low cost) e un grande peccato originale. Una cosa imperdonabile per i puristi: Deep Space Nine ha praticamente rubato la sua premessa (la grande base spaziale vero porto di mare della galassia) a Babylon 5, una produzione che stava nascendo in quello stesso periodo e con la quale ha molti punti di contatto e similitudini.

Invece, Deep Space Nine ha una sua dignità, oltre che una certa importanza. Per spiegarlo ci sono alcuni punti che voglio sottolineare. Il primo è la dimensione western della narrazione: Deep Space Nine è una base secondaria vicina a un pianeta (Bajor) non molto avanzato che è stato liberato dall’occupazione cardassiana e ora è entrato nell’orbita politica della Federazione. Però non ci entra subito, nella Federazione. Invece, rimane sulla porta, anche perché sul pianeta c’è una forte anima religiosa ortodossa che impedisce l’avvio di una cultura laica e scientifica come quella della Federazione dei Pianeti (che qui si scopre essere fondamentalmente atea o quantomeno agnostica e scientista).

All’improvviso, però, si attiva un wormhole che collega direttamente quel pezzettino di spazio del quadrante Alfa della nostra galassia con un altro all’opposto, il quadrante Delta. È un salto enorme, il wormhole è l’unica via per fare la traversata (e dentro ci sono anche degli alieni multidimensionali che interagiscono con tutti quanti) e all’improvviso la base spaziale acquista una nuova centralità perché avvicina (come fosse la ferrovia del vecchio West) una nuova frontiera e apre possibilità di commercio e di incontro.

Deep Space Nine diventa la San Francisco del 1849, una città che dopo la scoperta dell’oro si popola molto velocemente. Ci sono avventurieri, commercianti, casinò, personaggi ambigui anche tra quelli che gestiscono la base dal carattere o dal passato complesso, che vogliono la libertà della vita nella frontiera. Passiamo dal modello narrativo della Casablanca dove Sam deve suonare ancora una volta il suo motivo eterno a uno da porto di pirati e avventurieri dove, come sa il furbo Quark, a fare i soldi sono i traffichini Ferenghi che vendono pale e carriole ai cercatori, e che gli fanno perdere le loro fortune al tavolo da gioco.

Deep Space Nine è un western fatto molto bene, che esplora con intelligenza tanti vecchi tropi della narrazione di frontiera e stuzzica la curiosità sul mix di personaggi che abitano la base. È una narrazione corale che viene in parte dominata da Benjamin Sisko (Avery Brooks), all’inizio comandante (sarebbe un grado pari a quello di colonnello per la marina), che poi viene promosso capitano con una astronave d’appoggio a sua disposizione, la USS Defiant. In realtà, tutti i personaggio hanno il loro spazio, vengono esplorati il carattere e le origini, vengono create situazioni stile “Enterprise classica” e altre stile “Next Generation”. Divertenti, anche se in effetti non molto movimentate.

Poi, alla fine della seconda stagione, quando la serie sta diventando oggettivamente ripetitiva e un po’ noiosa, parte la seconda fase: la Grande Narrazione. E qui tutto cambia. Perché entra il Dominio, un impero di mondi del quadrante Gamma che dichiara sostanzialmente guerra al quadrante Alfa e soprattutto alla Federazione, avviando una complessa guerra fatta di fasi, con alleanze multidimensionali e una lenta progressione con dei tratti drammatici, che fanno eco al non visto della serie, cioè alla precedente occupazione di Deep Space Nine da parte dei cardassiani, che ne avevano fatto uno dei tanti campi di prigionia dei bajoriani durante l’occupazione. Da Casablanca a Roma città aperta a San Francisco e poi a Hong Kong prima della restituzione britannica alla Cina continentale.

Questo secondo aspetto ha in realtà due dimensioni narrative. Da un lato la geopolitica spaziale, elemento sempre presente in tutte le serie di Star Trek o sullo sfondo o in maniera frontale ma piuttosto semplicistica, che però qui diventa realmente sofisticato e complesso. Gli attori in gioco si moltiplicano, e diventa complicato seguire la politica delle relazione della Federazione con i bajoriani, i cardassiani, i breen, i romuliani, i klingon e poi il Dominio, fatto a sua volta di varie specie, alcune delle quali totalmente artificiali, come i Jem’Hadar e i Vorta, creati in provetta dai Fondatori.

L’altro aspetto è la relazione tra le razze, che trascende gli aspetti di politica spaziale: ci sono esponenti del nemico che sono amici e persone dei popoli alleati che sono nemiche. Tradimenti, cambi di casacca, viltà, eroismi. Il ferenghi Quark che diventa, da profittatore e collaborazionista dei cardassiani, una specie di primula rossa della resistenza. Elim Garak, il cardassiano buono (si fa per dire) fa il suo percorso di redenzione. E così via.

Va aggiunto anche che alcuni di questi popoli hanno tratti che sembrano presi di peso dal melting pot americano, tra irlandesi, afroamericani, ebrei dell’Europa dell’est, russi, africani, anche italiani. Sono spicchi, frammenti, immagini e maschere da commedia, ma in qualche modo danno un tocco di realismo in più alla narrazione. Dall’altro lato, le dinamiche del conflitto che poi diventa la guerra del Dominio si estendono per cinque anni e altrettante stagioni. La guerra vera e propria si sviluppa nelle ultime due e segna la parte di maggior compattezza narrativa.

C’è una cosa da capire prima di toccare il terzo e ultimo aspetto narrativo che mi ha colpito di più: il Grande Arco Narrativo. Per capirlo, dobbiamo fare come per le opere di Shakespeare e ricollocare Deep Space Nine nel suo contesto: la televisione di flusso degli anni Novanta, prima della nouvelle vague delle serie televisive del Ventunesimo secolo che il Corriere della Sera ha paragonato alla grande forma della narrazione borghese dell’Ottocento e del Novecento: il romanzo.

Come abbiamo detto, Deep Space Nine sta a cavallo tra Next Generation e Voyager. Andò in onda due anni dopo la morte di Gene Roddenberry e passò il testimone al primo capitano donna protagonista di una serie, cioè Kathryn Janeway, interpretato da Kate Mulgrew. Quest’ultima riportò a casa la USS Voyager dal quadrante Delta, dopo che era si era persa a causa dell’equivalente fantascientifico di una tempesta marina nel pieno del Pacifico a metà del Seicento. Negli Stati Uniti, entrambe le serie hanno avuto un notevole impatto, anche se va detto che Deep Space Nine è stata molto apprezzata molto di più là che non qua da noi, per un motivo particolare: la sua poca visibilità.

Deep Space Nine in Italia ha avuto una messa in onda travagliata: le prime tre stagioni sono arrivate subito sulla Rai, poi un po’ di vuoto, alcune false partenze, il ritorno in televisione con alcune puntate doppiate e altre sottotitolate, il passaggio su Jimmy, altri passaggi in cofanetto Dvd, in allegato alle riviste, su Italia 7 e poi oggi in streaming su Netflix e Paramount+. Questa storia editoriale frammentaria è particolarmente grave, perché da noi ha fatto invecchiare la serie (che ha stilemi narrativi oggi quasi ingenui, molto anni Novanta), senza dare la possibilità di godersela nella sua interezza con la facilità che sarebbe stata necessaria.

Tuttavia, Deep Space Nine ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della televisione in generale e delle serie televisive di largo consumo in particolare: ha introdotto per la prima volta una scelta rivoluzionaria di creazione di un Grande Arco Narrativo che segue un’unica storia per ben cinque stagioni. Prima del reboot di Battlestar Galactica, di Desperate Housewives, di Lost, e meglio degli sceneggiati tv alla Twin Peaks (che nascono fin da subito come narrazioni uniche, delle specie di miniserie già determinate anche nel numero di episodi), fu Deep Space Nine che detta il passo. È una serie rivoluzionaria e “grande”, con 23 episodi di 45 minuti a stagione. Episodica (lo vediamo tra un attimo), perché già pronta per essere guardata senza un ordine prestabilito in syndication, con le repliche notturne sui canali minori della tv via cavo americana.

Tra gli stilemi di Deep Space Nine c’è di certo l’ispirazione delle soap opera. E in effetti sia stilisticamente che contenutisticamente ci sono alcuni elementi di queste: le storie d’amore e gli ambienti prevalenti in interni già visti e conosciuti. Tuttavia, c’è anche una narrazione drammatica, una serie di grandi conflitti con le loro conseguenze non solo politiche ma anche umane (le vittime civili, la loro sofferenza), la messa in discussione di fatti molto gravi ai quali si allude senza mostrarli (i campi di concentramento, la sottomissione di interi popoli, il genocidio). E poi c’è l’ambizione di mettere in scena un Grande Gioco inteso come scontro politico di interessi contrapposti fra superpotenze, in un universo multipolare in cui i buoni non sono sempre tali e ci si può alleare con dei cattivi che forse non lo sono.

Soprattutto, dentro Deep Space Nine c’è il seme di moltissima della televisione che verrà nei decenni successivi, e in questo è una serie molto moderna. Almeno, superato lo scoglio delle prime due stagioni, utili se non altro a costruire le backstory dei protagonisti, con un cast che rimane sostanzialmente immutato a parte l’aggiunga di Worf nella quarta stagione e la morte di Jadzia Darx alla fine della sesta. L’idea di unità narrativa di DS9 supera anche quella di Stargate SG-1, che peraltro è successiva, essendo iniziata nel 1997, e segna l’inizio di altre forme produttive che sono sicuramente sue debitrici per molti versi, spianando la strada a molta altra fantascienza e narrazione generale che viene dopo.

Secondo me è arrivato il momento di rivalutare Deep Space Nine, soprattutto per la sua complessità. Pensateci. Quando uscì, nel 1993, tutta la televisione era simile a Star Trek con storie a episodi, in cui l’equipaggio dell’Enterprise sostanzialmente fa flanella per la galassia, incontra un problema, fa un po’ di morale, magari con un paio di scene d’azione e anche una romantica (il solito Kirk rubacuori!), e poi trova la quadra della trama che, con una grande risata sul ponte di comando (ridono tutti tranne che il signor Spock, ovviamente) lascia sostanzialmente le cose come stanno, perlomeno sull’Enterprise.

Infatti, dopo ogni puntata di Star Trek e di alcune decine e decine di altre serie tv americane dell’epoca, siamo tutti pronti a ripetere il processo nella puntata successiva. Fanno eccezione pochi episodi divisi in due parti e gli speciali per le feste comandate (Natale e il giorno del Ringraziamento). Questo è stato lo schema base di quasi tutti i programmi televisivi (eccetto le soap opera) per cinquant’anni.

Deep Space Nine non è così. L’equipaggio non viaggia. Al contrario, i problemi vanno da loro. L’insediamento di Bajor e le questioni politiche e religiose sorte in seguito all’occupazione cardassiana e alla successiva evacuazione costituiscono da subito una parte importante della serie, e sono questioni che non si esauriscono alla fine di episodio. No, vanno avanti per anni, attraverso le varie stagioni. C’è infatti una storia unica, una Grande Narrazione, che progredisce nel tempo. La maggior parte dell’esplorazione riguarda i personaggi stessi, non la galassia. Attenzione, l’introspezione psicologica però non è il pezzo forte di “Star Trek”: la serie classica (e poi Next Generation e in misura minore Voyager) hanno un approccio diverso. Scelgono una domanda, un tema spesso filosofico per ciascun episodio, una specie di ipotesi da dimostrare (cosa succederebbe se…) e la esauriscono. Poi finisce la puntata, e con la successiva si riparte con una nuova domanda.

Ma i tempi cambiano. Deep Space Nine, e in misura maggiore Babylon 5, dimostrano che esiste un pubblico interessato a forme di narrazione più lunghe e strutturate. Queste due serie sono state le prime, ma il loro successo si è presto esteso ad altri generi, dando vita a opere televisive fenomenali, con trame complicate, livelli di scrittura di complessità crescente, ipotesi che aprono a possibili interpretazioni e che, come accade ad esempio con Lost, possono anche non giungere mai a una sintesi. Molto zen come approccio, se non fosse dettato dagli errori di impostazione della scrittura degli autori.

In questa prospettiva, Deep Space Nine è qualcosa di più che non una semplice rivisitazione originale e “moderna” dell’universo di Star Trek. Invece, la profondità che viene introdotta è originale così come è originale lo sguardo che sa offrire sull’universo di Star Trek. Gli attori aiutano, e qualcuno di loro è indimenticabile perché funziona. Come ad esempio il comandante Sisko, che meriterebbe un approfondimento per il modo con il quale viene messo in scena da Avery Brooks, che nel doppiaggio italiano è semplicemente massacrato, così come gli altri personaggi (a partire da Odo).

Per questo, come dicevo all’inizio di Shakespeare, se non si mette l’opera nel contesto di fruizione corretto, quello per cui gli autori l’hanno pensata e costruita, non si riesce a liberarne le energie e apprezzarne la fragranza. Per Deep Space Nine, una lettura collocata nel contesto corretto storicamente dà l’idea di quanto sia stata un punto di svolta della serialità televisiva occidentale. E tutto sommato anche piacevole da vedere, trent’anni dopo.

Leggi tutte le puntate di And So What?

Leggi anche: La morte dei multiversi dice moltissimo su di noi, per fortuna

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