L’olocausto dei bufali nel western Butcher’s Crossing

L’olocausto dei bufali nel western Butcher’s Crossing

April 19, 2024 0 By Simone Tarditi

Butcher’s Crossing è un film ai limiti dell’incommerciabile e, no, non solo perché si tratta di un western. Della rinascita del genere si parla instancabilmente da almeno un decennio, ossia da quando Quentin Tarantino ha cacciato fuori due western di fila tra il 2012 e il 2015 (Django Unchained e The Hateful Eight: il primo più legato alla tradizione dello “spaghetti”, il secondo invece intrappolato tra il peckinpahiano e il classico). Lì, vuoi per il percorso obbligato di attrazione verso quello che è uno dei registi con il pubblico più trasversale possibile, anche i più refrattari hanno dovuto ingoiare il boccone e sottoporsi alla visione di un western. In questo arco temporale non ne sono stati realizzati parecchi negli Stati Uniti d’America, anche di livello produttivamente alto (come non citare, tra gli ultimi, Killers of the Flower Moon, che del western ha preso in prestito più le ambientazioni di un’epoca che un immaginario cinematografico, a differenza di Tarantino), ma pochi sono arrivati fino al mercato europeo, quasi nessuno nelle sale. Horizon, la saga epica nel quale si è imbarcato Kevin Costner nel triplice ruolo di produttore-regista-attore, potrebbe essere in questo senso un’eccezione, ma è ancora tutto da vedere.

C’è una terra di mezzo nella quale il western sta continuando a sopravvivere ed è quella di una serie B americana che è B solo per dimensioni, poiché, vero, non può competere economicamente con le grandi produzioni, ma spesso e volentieri ha storie più interessanti da raccontare. Sono film medio-bassi, più medi che bassi, che si rivolgono a una schiera di spettatori appassionati di un genere che oggi appare quanto mai destinato ai nostalgici. Butcher’s Crossing (2022) s’incolonna in questa direzione, sorretto tanto da una fonte letteraria di tutto rispetto quale l’omonimo romanzo di John Edward Williams (1922-1994), quanto dalla presenza di Nicolas Cage come co-protagonista. L’attore ha recitato a stretto giro anche in The Old Way (2023) e in The Gunslingers (attualmente in post-produzione e previsto per il 2024/2025), segno che l’incursione nel western è stato in realtà un innamoramento. Come dargli torto, in fondo.

Kansas, 1874. Will Andrews, un benestante e nanoide studentello di Harvard, decide che è tempo di avventure nelle praterie ad Ovest, quindi si accoda all’esperto cacciatore Miller (Cage) per una spedizione in Colorado e Montana. La battuta di caccia si trasforma presto nel tentativo di Miller di sterminare tutta la popolazione di bufali, un obiettivo impossibile da raggiungere e che nulla ha a che fare con lo scopo iniziale di recuperare pellame da vendere.

Miller è una specie di Achab: come il protagonista di Moby Dick è guidato da un’ossessione che non conosce pace e che nell’uccisione fine a se stessa trova la sua unica soddisfazione, quello di Butcher’s Crossing è un folle sanguinario che non riesce a porre dei freni alla furia che lo acceca. Lo spirito omicida è lo stesso nei due personaggi, con una differenza non da poco: Achab insegue un sogno, che è malato, ma è pur sempre un sogno; Miller uccide ogni animale su cui riesce a posare gli occhi e a puntare il fucile, senza porsi una misura. Egli è un massacratore che esaurisce il carico delle proprie emozioni a ogni colpo sparato e che, quindi, per darsi un equilibrio, deve continuare a ripetere quell’atto, anche a costo di farlo all’infinito. Butcher’s Crossing riesce bene a restituire l’idea dell’esperienza nauseante nella quale i personaggi si trovano, in un loop di scuoiamenti e pasti a base di carcasse. L’incommerciabilità di cui si parlava all’inizio è proprio questa: per buona parte del film non si vedono altro che ferocia e uccisioni di bestie inermi. La ripetitività delle scene è tuttavia funzionale: lo spettatore deve perdere la ragione come Miller e i suoi sodali. La loro situazione, prolungata nel tempo e sempre uguale, dà alla testa come la tossicità del cibo che mangiano (carne, carne, carne). Butcher’s Crossing sembra, tra l’altro, insegnare che qualsiasi mestiere può portare a un lento impazzimento, in particolar modo quelli fondati sulla routine. E che per certi individui (come Miller, ma anche come Andrews) il denaro costituisce la componente meno affascinante di un lavoro: i soldi possono essere tanto un motore per muoversi quanto una chimera, e, ai fini di vivere un’esperienza fuori dal comune, sono più un pretesto che una meta vera e propria. E per i protagonisti questo vale al di là di tutto, anche degli esiti a cui essi vanno incontro. Nel finale del film, quando il crollo del valore di mercato delle pelli spazza via ogni prospettiva futura di poter portare a termine la missione iniziata (e conclusasi tragicamente), Miller e Andrews sono costretti ad accettare il fatto che l’economia sia imprevedibile e ingovernabile, esattamente come la natura selvaggia.

«We don’t belong out here».

Simone Tarditi