Le Opinioni | La guerra e le verità nascoste in un film | Corriere.it

La guerra e le verità nascoste in un film

Civil war, il film che ha incassato negli Usa 25 milioni di dollari nei primi tre giorni di programmazione, ipotizza una guerra civile sul suolo americano. Le Forze occidentali, prodotto del disegno secessionista di alcuni stati, marciano verso Washington D.C. per fare irruzione alla Casa Bianca, eliminare il presidente e prendere il potere. Il presidente in questione, con il balbettio del quale il film inizia, è al terzo mandato, segno inequivocabile della avvenuta crisi del sistema. A raccontare tutto questo sono due fotografe e due giornalisti, tre generazioni diverse, che attraversano le zone del conflitto come fosse la Cambogia di Urla del silenzio. Civil War è un potente film di guerra che applica al racconto tutti gli stilemi tipici del genere. Ne abbiamo visti tanti. Ma stavolta non ci sono nemici giapponesi, terroristi islamici, alieni alla conquista del pianeta terra. A sparare, uccidere, bombardare sono americani contro americani. Civil War non riesce a essere, nella percezione dello spettatore, un semplice, in fondo rassicurante, film di fantascienza, ma appare terribilmente, orribilmente, credibile, vicino, possibile, realistico. Sembra di vedere le news di un futuro inquietante ma possibile. Se le nostre retine non fossero state impressionate dalle immagini— quella sì fantascienza trasformata in realtà — dell’assalto al Campidoglio da parte di sostenitori del presidente uscente che li aveva appena incitati ad agire per sovvertire il risultato elettorale che lo aveva visto soccombere.

Se le nostre orecchie non avessero ascoltato pronunciare alla stessa persona la frase «Se non vincerò le elezioni sarà un bagno di sangue», se le reti non avessero diffuso l’immagine, immessa dal candidato repubblicano, dell’attuale presidente degli Usa legato e imbavagliato nel cofano di un’automobile, se i democratici non avessero pensato di usare i processi per fermare il loro avversario...
Se tutto questo, impensabile nel Paese dove la democrazia non è mai stata sovvertita dalla dittatura, non fosse accaduto, oggi questo film ci sembrerebbe una riuscita ripetizione, fantasiosa, di un cinema di genere. Invece Civil War ci racconta qualcosa che è già successo e qualcosa che rischia di succedere. Gli Stati Uniti sono già divisi, separati dall’odio, stravolti da una guerra civile strisciante. Altro che «Right or wrong is my country», altro che l’applauso, tutti in piedi, nel Senato quando Bush o Obama tenevano il discorso sullo stato dell’Unione. L’Unione non c’è più e gli Stati non sono più Uniti come prima.
Civil War racconta questo clima, camuffandolo, neanche troppo, in una metafora fondata sull’idea narrativa di una divisione nata su base secessionista, con rivoltosi che sventolano una bandiera con sole due stelle, con la scena magistrale di un soldato scissionista che, fucile in mano, interroga i giornalisti protagonisti del film per sapere da quale stato provengano. Una risposta sbagliata può significare la morte. Se poi capita, come per uno dei personaggi del film, di essere nati a Hong Kong...

Il film ha il merito di farci percepire la guerra non come una pura memoria o un evento futuribile ma come il convitato di pietra di questo tempo storico. Ci siamo crogiolati nell’idea di essere stati le generazioni, almeno in Occidente, che hanno conosciuto la pace e — prima dalla metà degli anni settanta e poi dall’ottantanove — solo la democrazia come forma di governo delle nostre comunità. Ma abbiamo dimenticato che questa è un’eccezione nella storia umana, prevalentemente segnata da guerre e da poteri assoluti.
Abbiamo accettato, giorno dopo giorno, che le nostre conquiste collettive fossero consumate da un nuovo pensiero unico che ha demolito progressivamente tutte le architravi di ogni sistema democratico, quelle forme di intermediazione che costituiscono ossigeno e ricambio. L’esaltazione della democrazia diretta, l’ideologia de «l’uno vale uno», la derisione di parlamenti e informazione hanno finito di scavare sistemi già in crisi. I partiti hanno accompagnato ovunque questo processo perché ormai sequestrati da gruppi di potere interessati più alle proprie sorti che ai valori che avrebbero dovuto esprimere. La rivoluzione digitale, con la creazione dei social, ha definito inedite modalità di comunicazione. L’esito, finalmente ci si comincia a rendere conto, è più intolleranza, più solitudine, più odio. Una società fatta regredire nella paura, nel delirio dei pregiudizi antiscientifici, dei populismi furbacchioni, dei sovranismi ridicoli in un tempo di interrelazioni globali. Ha detto Kirsten Dunst, una delle attrici del film: «Questo film mi ricorda una favola, una favola che ci ammonisce su ciò che accade quando non comunichiamo tra di noi. Quando nessuno ascolta gli altri, quando si silenziano i giornalisti, quando perdiamo una verità condivisa».

D’altra parte Steve Bannon, vero ideologo di questa rivoluzione che lui stesso chiama Apocalisse, lo disse chiaramente anni fa: «Tutti i giorni, scendiamo in guerra. L’America è in guerra, in guerra. Noi siamo in guerra». Bannon ha sempre coltivato le teorie di due analisti, Strauss e Howe, che sostenevano la necessità di assistere alla «fine dell’uomo» attraverso una guerra mondiale che porterebbe a un «Armageddon omicida».
Dunque non bisogna stupirsi del contenuto di Civil War, né del suo successo negli Stati Uniti.
Stupirsi no, ma preoccuparsi sì.

17 aprile 2024

Editoriali e commenti di oggi
desc img
di Walter Veltroni
desc img
di Luciano Violante
desc img
di Beppe Severgnini

Buoni esempi in cattivo stato

desc img
di Ernesto Galli Della Loggia
desc img
di Goffredo Buccini