Confidenza: amori e miserie di un professore “impostore”. La recensione del film con Elio Germano

Di cosa ha più vergogna Pietro Vella, del segreto inconfessabile che racconta a Teresa, la donna che dice di amare, o della sua intera esistenza, costruita per sembrare migliore di quello che è? Confidenza, tratto dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone e ora al cinema dopo la première allo scorso Rotterdam Film Festival, riporta il regista Daniele Luchetti a uno scrittore da lui molto amato, che aveva già adattato ne La scuola e nel più recente Lacci: il tema centrale, già caro al regista di Mio fratello è figlio unico e La nostra vita, forse il suo film più sottovalutato (dei quali ritrova qui Elio Germano) è nuovamente quello del rapporto maestro-allievo, declinato secondo una sensibilità ambivalente e sfaccettata, che trova in Confidenza un registro tanto obliquo quanto originale.

Confidenza inscena infatti un rapporto d’amore, che però è anche una relazione asimmetrica studentessa-professore, poggiato su due gambe tanto conflittuali e malferme quanto complementari come amore e paura ed è lungo questi due reciproci tracciati che il racconto si sviluppa: Pietro è evidentemente un valido insegnante, ma il film cerca a più riprese di smontare la classica etichetta del “bravo professore” per mostrare come la sua psicologia di maschio contemporaneo (e per tanti aspetti universale) sia minacciata a più riprese da una presenza femminile che nella sua vita appare e scompare a intermittenza, rimanendo però indomita e rivelatrice; tanto che Teresa si configura come il vero, costante banco di prova dell’esistenza di Pietro: un convitato di pietra col quale si ritrova a fare i conti a più riprese, anche quando pensa di potersene e volersene sottrarre (cosa che però, di sua spontanea volontà, tende a fare assai raramente).

Luchetti adatta il romanzo di Starnone mantenendone l’ossatura ma concedendosi una specificità cinematografica che esalta soprattutto il registro della paranoia, a tratti quasi polanskiano, e i sottotesti taglienti e rischiosi sottesi a molte scene e situazioni: potrebbe sembrare, a un primo superficiale sguardo, un dramma borghese italiano come tanti altri, e invece ha dalla sua una tragicità straniante e paradossale che fa delle debolezze del suo protagonista non degli appigli consolatori, come spesso accade nel nostro cinema, ma possibilità narrative attraverso le quali correre dei rischi salutari, mescolando i toni e gli umori della narrazione e lasciandosene talvolta scombussolare ben volentieri.

Germano è notevole nel giocare su tragedie e miserie di quello che è a tutti gli effetti un uomo “colpevole”, spesso anche ridicolo, lavorando su un registro di sottrazione in cui è bravissimo a entrare e uscire dal personaggio, cogliendo la linea sottile tra consapevolezza della propria meschinità e inconsapevolezza della sua stessa piccolezza, stazionando un po’ dentro e un po’ fuori il proprio personaggio. La vera rivelazione è però Federica Rosellini, che incarna Teresa con un costante registro da gessetto sulla lavagna: molte delle sue azioni, compresi sorrisi e smorfie, sono spesso sinistri, quasi esoterici, e la sensazione è che sia stata diretta proprio per raggiungere questa postura non facile. Un’idea di recitazione che confina con l’equilibrismo e che tuttavia riesce a portare a compimento in maniera convincente.

I momenti più posticci e meno entusiasmanti del film sono proprio quelli più puramente narrativi in cui passato e presente si ritrovano a dialogare, mostrandoci un Pietro e la sua famiglia in maniera rattrappita, disincantata, con addosso tutto il rimpianto del tempo andato e di stagioni della vita che non si sono concretizzate per il meglio. Convince invece quasi sempre nel momento in cui si lascia andare ai propri azzardi, che sono anzi benvenuti, mostrandoci anche gli interni borghesi come mausolei levigati, asettici, quasi da sarcofago funerario, e insistendo a più riprese sul piano visivo sul tema della verticalità, del suicidio, della noluntas di Pietro (un buon servizio al film fa anche la colonna sonora di Thom Yorke, il genio dei Radiohead, che con le sue musiche serve l’assenza di baricentro del personaggio).

Un po’ come gli eroi della tragedia greca, Pietro è poi un personaggio sempre dominato, mai dominante, a differenza di Teresa: va incontro al suo destino nel momento stesso in cui si avvede, anche alla lontana, dei suoi limiti rispetto a una condizione “virile” persistente. Un uomo che vediamo illuminato molto spesso di luce riflessa, soprattutto nei suoi spigoli, e quasi sempre grazie a Teresa: il loro rapporto preserva anche una forma di malinconica carnalità che era molto presente anche nel romanzo e che Luchetti, reduce dal lavoro dietro la macchina da presa per L’amica geniale, restituisce anche sotto forma di assenza, di spettro, di “fantasma fondamentale”, di conflitto tra il rigore della scienza e l’indeterminatezza delle humane litterae (Confidenza, riducendolo all’osso, è anzitutto e in definitiva la cronaca di un conflitto tra una mente matematica pienamente femminile e una mente letteraria pienamente maschile).

In una battuta Teresa dice a Pietro: “Tu sei sempre in un posto diverso rispetto a dove sono le tue emozioni” ed è la frase che forse meglio riassume il film e il suo proposito di raccontare l’ineffabilità di un vissuto  imprendibile, sfuggente, ancorato a fragilità simili a cancrene, sempre e comunque fuori sincrono rispetto a qualunque idea di sanità ed equilibrio nella gestione del “potere” e dei rapporti che da quell’esercizio del potere possono derivare, mutando forma e cambiando nel tempo anche in maniera  temibile e incontrollabile.

Foto: Vision Distribution 

Fonte: Film: trame e trailer - Best Movie
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