Quella che avrei dovuto sposare

Quella che avrei dovuto sposare

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L’ultimo mélo in bianco e nero alla Universal per Douglas Sirk, prima di passare al technicolor e firmare le sue opere più celebri, è Quella che avrei dovuto sposare (titolo italiano per There’s Always Tomorrow), del 1956. Stavolta la distruzione gentile, come definita da Fassbinder, operata da Sirk, della american way of life propagandata dagli studios riguarda il matrimonio e l’inconfessabile possibilità dell’adulterio. Tra i classici riproposti nella rassegna Magnifiche ossessioni – Capolavori del mélo hollywoodiano 1951-1959.

La fiammella del peccato

Clifford Groves è un ricco produttore di giocattoli con una numerosa famiglia. In uno dei suoi pomeriggi solitari riceve la visita di una vecchia fidanzata e a quell’incontro ne seguono altri. Quando questi chiede alla moglie di partire per un fine settimana da soli, ella rifiuta adducendo impegni con i ragazzi, così il marito parte e trascorre l’intero week-end con la sua vecchia amica. I suoi due figli maggiori lo vedono e pensano che abbia una relazione con lei, ipotesi tutt’altro che remota, ma la donna per non rovinare il matrimonio dell’antico fidanzato decide di sparire. [sinossi]

Si potrebbe tracciare un filo conduttore tra il cinema americano di Douglas Sirk e le serie televisive popolari, sempre americane, dei decenni successivi. L’aristocrazia industriale petrolifera texana di Come le foglie al vento anticipa quella di Dallas. I grandi melodrammoni del regista tedesco esiliato a Hollywood, del resto, esteriormente hanno tutti gli ingredienti della soap opera, tant’è che in Italia sono sempre stati trasmessi nei pomeriggi di Rete 4. La famiglia Groves, al centro di Quella che avrei dovuto sposare, titolo italiano per il film del 1956 There’s Always Tomorrow, potrebbe essere facilmente assimilata alle tante famiglie dei telefilm, i Braddford, i Cunningham, magnificate nel loro felice quieto vivere, emblema di una borghesia benestante che vive nelle sue villette residenziali immerse nel verde, secondo i valori dell’american way of life propagandati dalla televisione americana. Sirk semina degli elementi corrosivi in questa serenità di facciata, mettendo in scena un, pur non consumato e solo abbozzato, adulterio. La vita procede monotona per il benestante Clifford Groves. Ha una famiglia numerosa, con due figlie e un figlio, ma si capisce che la passione con la moglie è ormai tramontata visto che dormono in letti separati, seppur accostati. L’uomo viene lasciato solo in casa mentre tutti gli altri famigliari escono a divertirsi. Ha due biglietti per il teatro che cederebbe, “persino” alla cuoca di famiglia, la serva, ma non interessano a nessuno. Come d’incanto appare la piacente Norma, una sua fiamma giovanile che non vedeva ormai da vent’anni. Potrebbe essere anche un’apparizione onirica, in compensazione al vuoto della sua vita, visto che la donna si manifesta improvvisamente come un deus ex machina, a risolvere la solitudine del protagonista. Suona alla sua porta proprio quando è solo in casa e ha due biglietti per il teatro che non avrebbe usato. La ritrova poi nel resort, dove ancora non è stato seguito dalla moglie. È tutt’altro che una dark lady, Norma, non fa mai nulla attivamente, almeno in apparenza. Una volta che la, al momento presunta, intesa tra i due viene scoperta, a opporsi all’adulterio, a giocare un ruolo moralistico, sono paradossalmente i figli, la nuova generazione americana stereotipata, quei ragazzi che sfrecciano e girano per le highway con la loro fiammeggiante decapottabile, simbolo di ribellione e liberà. Proprio quella discendenza cui Clifford ha idealmente dedicato la propria vita, da produttore di giocattoli.

Lo stabilimento di cui è capo il protagonista, è come un laboratorio di simulacri, bambole, robot. Da un lato è la metafora, suggerita dallo stesso Clifford, del lavoro, di una società che spreme l’individuo per la produttività, il contraltare di quelle famiglie serene e felici di cui sopra. La figura del robottino giocattolo Rex che si muove in automatico, indefesso, ne è una raffigurazione lampante. Dall’altro questa dimensione produttiva rappresenta una delle facce dell’America ritratta da Douglas Sirk. L’America modernista, il design (equivalente dello studio pubblicitario di Lucy di Come le foglie al vento, il mondo sintetico, di latta e plastiche. Ancora il robottino è rappresentante di un’estetica positivista e modernista che pervade l’America di quegli anni e trova il corrispettivo ideale in Robby, il robot di Il pianeta proibito, uscito lo stesso anno, ambasciatore del progresso americano nel mondo (anche in Italia dove fu ospite di Mike Bongiorno). Quella che avrei dovuto sposare è l’incontro di questa America con quella della società dello spettacolo, rappresentata da Norma, a sua volta una designer in quanto costumista, che esibisce lei stessa abiti molto sofisticati ed eccentrici tipo un incredibile tailleur con un disegno a rombi. Il loro incontro è anche quello tra chi incarna i valori famigliari e chi li ha sacrificati per il successo. Paradossalmente lei rappresenta la East Coast, Broadway e non Hollywood, mentre è Clifford il californiano, di Pasadena dove si svolge il film. In fondo Quella che avrei dovuto sposare si gioca sulle inversioni di ciò che sembra ovvio. La mecca del cinema è comunque centrale e un punto focale come dimostra la scena della coppia di turisti al loro primo viaggio in America, che chiedono a Clifford se sia aperto lo stadio di Hollywood. Lui, ben informato, risponde «Non prima di mezza estate». E Douglas Sirk sembra consapevole di inserirsi nella storia del cinema americano: mette la stessa coppia di attori, Barbara Stanwyck e Fred MacMurray, di Ricorda quella notte e La fiamma del peccato, dove erano impegnate in torbide relazioni, mentre la tranquilla moglie di Clifford, Marion, è Joan Bennett, la dark lady per eccellenza nei noir di Fritz Lang.

Il mondo dello spettacolo, le rappresentazioni interne, frequentissime nel cinema dell’ex teatrante Sirk, è incarnato nel film dalla scena dell’esibizione di una danza carioca, cui assistono Clifford e Norma al loro primo incontro. La loro storia si snoda sulle note dell’intramontabile motivo di Blue Moon. E in fondo funziona come una messa in scena cui assistono spettatori voyeur, come i figli o come i due addetti alla reception del resort che pregustano la scoperta dell’adulterio che in realtà è solo, in quel momento, nella malignità di chi guarda. Come la soleggiata Pasadena annunciata nel titolo introduttivo cui fa seguito l’immagine della città californiana sotto una pioggia battente. Sull’inversione dei ruoli precostituiti si gioca l’intero film. Ancora un fraintendimento è quello di una battuta intertestuale del film, ovvero il paragone fatto dal figlio con il romanzo Una tragedia americana di Theodore Dreiser, sulla sua interpretazione del racconto del padre, vero ma parziale, secondo il suo errato sospetto, per sembrare innocente. Douglas Sirk mette in scena un mondo di designer e costumisti a sua volta con un apparato scenografico complesso, che si snoda sulla contrapposizione di due décor: il laboratorio dei giocattoli, quasi un inquietante antro da mad doctor, e l’interno dell’elegante casa dei Groves, uno spazio borghese carico di ombre, riquadri interni, dipinti, finestre e specchi e l’immancabile scalinata che rappresenta il trait d’union con lo stabilimento. Su tutte le immagini interne campeggia il quadretto famigliare, la cristallizzazione dell’anelito alla famiglia felice, l’equivalente del grande ritratto del patriarca petroliere di Come le foglie al vento. Gli specchi, della vita, sono tanti: sopra al fuoco di un caminetto un grande specchio riflette Clifford insieme a Norma quando a lei cade la borsetta e disperde i suoi effetti personali. Lui li raccoglie ponendoli su un tavolino che ha ancora una superficie riflettente. E la scena è rivelatrice perché tra gli oggetti figura anche una foto di Clifford che Norma si porta dietro, strappata a metà in modo da eliminare il resto. Per la donna rappresenta qualcosa di più di un vecchio amico.

Altra memorabile scena parte da Clifford in casa, meditabondo. Si affaccia alla finestra e la mdp arretra per uscire dalla finestra al giardino. Qui troviamo il figlio con la ragazza che corteggia, la quale però lo rifiuta per la sua immaturità. I due giovani vengono isolati da una cornice circolare, un’apertura della grata per le piante rampicanti. Una volta che la ragazza si è allontanata, il figlio si avvicina alla finestra mentre, all’interno, Clifford cammina in parallelo. Padre e figlio sono speculari e alla fine si arriva sempre al quadretto della famiglia felice, vista sempre da fuori attraverso la finestra. Con la pioggia, con cui il film era cominciato, si chiude il cerchio, finisce la storia tra Clifford e Norma, davanti a un lucernario offuscato per l’acqua piovana battente. Un finale posticcio, ma in fondo, come per la pioggia per la soleggiata Pasadena, tutto può essere invertito, tutto si può rivelare quale un grande bluff.

Info
Quella che avrei dovuto sposare, il trailer.

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