CHANGELING (2008) - Spietati - Recensioni e Novità sui Film
Drammatico, Recensione

CHANGELING (2008)

TRAMA

Per ritrovare il figlio scomparso, l’addolorata Angelina Jolie sfida polizia e istituzioni.

RECENSIONI

L’ultimo film di Eastwood è un oggetto assai interessante che costringe a scarnificare il giudizio critico sino al suo nocciolo ideologico: qual è il valore di un’opera che si presenta radicalmente e, diremmo, militantemente monodimensionale e primaria, in cui non si può non parteggiare calorosamente per i Buoni, non si può non gioire rumorosamente per la disfatta dei Cattivi e non ci si può non riempire di composta soddisfazione per il fatto di condividere l’integrità e superiorità morale dell’Eroina e dei suoi Aiutanti? Di più: qual è il valore di un film che opera scopertamente e candidamente sulla più elementare manipolazione emotiva, al servizio di una Giusta Causa?
E’ sottinteso che Changeling serve ottimamente i suddetti propositi, con misura formale e classica pietà, ma con un radicalismo morale (e s’intende morale cinematografica) che travolge e schiaccia lo spettatore, costringendolo a fare i conti con la debolezza di ogni costruzione critica.
Nel 1928, la Jolie, madre affettuosa e lavoratrice stimata, perde il suo adorato figliolo Walter: torna a casa dall’ufficio e il piccolo è sparito. Sola, senza marito e senza amici, si strugge in un dolore composto e s’affida alla polizia di Los Angeles perché ritrovi il piccolo. Dopo lungo penare, il Capitano Jones annuncia il ritrovamento del bambino, ma alla stazione ferroviaria la trepidante Angelina s’accorge di un orribile errore: il ragazzino che scende dal treno (e che dice di essere Walter) non è affatto Walter. L’aver risolto (apparentemente) questo disgraziato caso porta titoloni sui giornali e anche un certo sollievo alla disastrata reputazione dell’LAPD. Le proteste della Jolie, dunque, fotogenica mater dolorosa che si ostina a dire che il ragazzino ritrovato non sarebbe suo figlio, sono un grosso fastidio per l’establishment. Inizia così la battaglia di Angelina contro il dipartimento di polizia di Los Angeles, alla ricerca del figlio Walter e per il trionfo della giustizia. Ad aiutarla nella lotta c’è il predicatore radiofonico John Malkovich, e gli altri angelici benefattori: l’unico detective dal cuore d’oro, disposto ad aiutare la Jolie e l’avvocatone famoso che decide di difendere gratuitamente Angelina.
Changeling si scrolla di dosso i chiaroscuri morali e i dilemmi delle più acclamate produzioni del regista (il ponderoso script di Straczynski – autore di serie tv e fumetti – era destinato a Ron Howard), per abbracciare con convinzione uno spumeggiante manicheismo. Il plot, insistente sulla verità dei fatti (lo script è ispirato a una storia vera e pare che lo sceneggiatore ci avesse appiccicato sopra ritagli dell’epoca per rimarcare il fatto), è ricco di eventi, incidenti e risoluzioni. Il ritmo è intenso e il dramma si mescola all’indignazione civile e alla suspense da crime story. Stile e struttura s’accordano con misura ai bisogni primari del drammone. Ma quel che sbalza dal quadro è il compostissimo estremismo di Eastwood. Il gioco primario di identificazione e semplificazioni psicacogiche è vigoroso e candido (i buoni sono impeccabilmente buoni e i cattivi fastidiosamente cattivi). I meccanismi drammatici sono spudoratamente basici (l’Eroina è salvata dall’elettroshock un attimo prima che l’infermiera pigi il pulsante; Malkovich raggiunge e afferra la Jolie un attimo prima che lei svenga). La raffica di sollecitazioni emotive sfiora il sadismo (l’arrivo del Capitano Jones in ufficio e gli attimi infiniti prima della buona notizia; la telefonata che introduce il finale e il lento resoconto del ragazzino sfuggito al mostro; l’esitazione del condannato nel colloquio privato con la Jolie; l’attesa per le sue ultime parole chiarificatrici prima dell’esecuzione). E la classica misura delle soluzioni visive abusa di convenzioni. Ma, quel che sorprende, è la radicale insistenza dello sguardo. Pur mantenendo una solida e schietta compostezza (e pertanto senza neppure avvicinarsi da lontano alla self-consciousness dei cosiddetti postmoderni), Changeling vìola più volte la continenza dei classici ed espone scopertamente ma sinceramente le parti più intime e private del melodramma civile: l’iper-plastica sofferenza di Angelina Jolie, l’amichevole soccorso di Malkovich, il folle orrore di Gordon, la brutale punizione. I dettagli più spudorati (il disegno bimbesco di Walter sulla parete della vuota cameretta, le lacrime copiose della Jolie sulle labbra rosse e carnose, l’esecuzione) sono allo stesso tempo esibizionismo populista eppure radicalismo problematico. Changeling è il trionfo dei basic instincts cinematografici. Eppure è quasi impossibile attaccarlo dall’interno. Per rifiutarlo, bisogna prima rifiutare l’idea di cinema e di dramma che si porta dietro. Ma, prima ancora, bisogna confessare la propria resa emotiva. Il resto è ipocrisia.

La cinematografia eastwoodiana attraversa un grande continente, l'America e la storia d'America, solcato dalle distanze dell'uomo dal primo, indelebile diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Clint Eastwood ha così costruito l'inquadratura del suo continente: tra due estremi (un dramma individuale che fotografa un dramma storico), il vuoto lasciato da una promessa mancata. Assistiamo l'individuo eastwoodiano in fuga lungo una linea di frontiera, scoprendo come questa si sposti con lui; egli diventa allora il controcampo di una mitologia d'America colta «nell'occhio di chi guarda». Qui, dove la verità va a posarsi, la 'macchina del tempo' del regista rilascia il suo bagaglio, un ricordo vivo dentro la cronaca di un presente sempre meno accorto dell'aspetto della propria innocenza, il cui recupero però, per quanto doloroso e talvolta inconciliabile, è necessario. Ma ciò che nelle opere dell'«ultimo dei classici» era una conciliazione nervosa - anche cinematografica - tra campo e controcampo, tra ciò che il mito ha continuato a rappresentare e ciò che l'America ha invece accettato di diventare, si appiattisce in Changeling in un divario tanto netto da annullarsi in un’unica dimensione di superficie (che sia davvero la sola rimasta?), immediatamente data, immediatamente occupata e immediatamente condivisa. Non ci sono più strade aperte a un destino comunque segnato, né davanti ad esse la violenza di una scelta. Quello di Christine Collins è il luogo di un lungo corridoio dalle pareti (schermi) altissime di cui, avanzando senza mai spostarci realmente, intravediamo la fine.Quando la camera scende dallo splendore aureo del bianco e nero Universal (omaggio all'eleganza di un'epoca, quella degli house styles, e simbolo di un'America con cui Eastwood si deve rapportare) nella realtà di una Los Angeles corrotta e caduta, che vorrebbe così rendere attuale, qualcosa resta bloccato forse a quel modello, sospendendo ogni confronto ed evitando lo scarto critico tra reale e ideale. Dunque che cosa rimane? Lo stile riconoscibile del maestro e un corpo unidirezionale. Pensiamo difatti al volto di Angelina Jolie nei suoi primi e primissimi piani, nel suo sostare fantasmagorico sul quadro: la verità è che a stento riusciamo a riconoscere Christine Collins, come se tutto (fotografia trucco costumi) convergesse per assicurare il particolare (reale) dietro l'ideale. È in questo senso che leggiamo l'inquadratura finale: dopo la parola «speranza», pronunciata dalla Collins/Jolie, la strada si 'svuota' lasciando in campo il solo mito (un titolo, Accadde una notte, sullo sfondo); la vita continua ma nessuno sembra accorgersene. Nel mondo di Changeling, il rischio che qualcosa possa andare per sempre perduto è stato oltrepassato. Ed è un vero peccato.