A VRÉS | Un dialogo tra Cesare Zavattini & Marcello Tedesco - segnonline

A VRÉS | Un dialogo tra Cesare Zavattini & Marcello Tedesco

KAPPA-NöUN a S.Lazzaro di Savena (Bo) ha ospitato una esposizione del tutto peculiare, a cura di Antongiulio Vergine, un incontro materiale e filosofico tra Cesare Zavattini e Marcello Tedesco, il cui nesso è stato tracciato e reso tangibile dal vuoto

Esistono momenti, nei percorsi artistici e nelle dinamiche espositive che vivono di storie a sé stanti, come quando capita di esser l’ultima fortunata ospite di una mostra e accade anche che da Bologna centro allo spazio KAPPA-NöUN di San Lazzaro, in auto con Marcello Tedesco, si parli a fondo di un concetto che amplifica il valore del paradosso: la tangibilità del vuoto.

Attraverso una veloce e fulgida analisi mattutina del pensiero di Cesare Zavattini e un ripercorrere parte della poetica di Tedesco, arriviamo al KAPPA-NöUN ove, ad attenderci, c’è Antonigiulio Vergine, brillante e giovane curatore di A VRÉS, un progetto composto da inediti e di cui Vergine ha vissuto passo dopo passo ogni avanzare epifanico.

A VRÉS, Cesare Zavattini e Marcello Tedesco, 2021, exhibition view, Kappa-Noün, San Lazzaro di Savena (Bo)

Entrare in KAPPA-NöUN ha un fascino intrinseco – sì, date retta a quella felice assonanza che riecheggia tra il vostro udito e l’immaginazione – ed ecco che l’immersione nella pienezza del vuoto diventa inarrestabile. Il 15 dicembre scorso l’atmosfera emiliana, rischiarata da una dolce luce naturale, ha inondato la grande sala suddivisa tra il piano terra ed il soppalco, luogo d’osservazione priviligiato.

Essendo la mostra, ahinoi, terminata in quel giorno, non ci sono più aspettative o sorprese da nascondere ai lettori, sarà, perciò, come compiere un breve viaggio ‘fuori porta’ a ritroso, viaggio che, però, se pur geograficamente vicino, affonda le radici in profondità plurime ed è frutto di una ricerca avviata da Marcello Tedesco alcuni anni fa.

Il titolo anticipa la peculiarità di ciò che ha accolto il principio concettuale a monte: A VRÉS, io vorrei in luzzarese, ovvero di Luzzara, cittadina natia di Cesare Zavattini, nel Reggiano, rimanda quanto annuncia Antongiulio Vergine: “Il dialetto può essere definito come una forma d’espressione arcaica, un territorio connesso primordialmente a una realtà non ancora codificata, estremamente vitale, e, in virtù di ciò, sfuggente, misteriosa, barbarica”; se la nomenclatura tende ad una raccolta di poesie che Zavattini pubblicò nell’86, il nesso odierno ricucito da Marcello Tedesco è da ricercarsi in un nodo fondante, ciò che nel testo critico è definito quale trama fitta di interrelazione tra linguaggi, media e filosofie, o meglio un “atteggiamento” che, rintracciabile negli inediti e preziosi autoritratti di Cesare Zavattini – sì, Zavattini dipingeva e conosceva molto bene la materia pittorica – ed il gruppo scultoreo di Marcello Tedesco, è raccontato come “atteggiamento umile e, allo stesso tempo, emancipato da un linguaggio ufficiale e normativo, e da ciò che questo presuppone. Tale atteggiamento, manifestato da quell’io vorrei del titolo – a vrés, appunto – cerca di parlare dell’uomo attraverso la voce di un paradigma nuovo.”

A VRÉS, Cesare Zavattini e Marcello Tedesco, 2021, exhibition view, Kappa-Noün, San Lazzaro di Savena (Bo)

Una mostra che solo tale non oserei definire; un dialogo ex post, in verità, uno studio che non è rimasto immobile tra appunti e taccuini ma ha trovato forma nel reale, in quel vuoto straordinariamente tangibile che tanto per Zavattini quanto per Tedesco ha valenza filosofica prima che fisica, chimica e sensibile. Un atteggiamento, per dirla con parole di Antongiulio Vergine, che poi s’è tradotto in approfondimento da parte di Marcello Tedesco, in una conversazione impossibile e, pertanto, come tale, resa possibile solo grazie all’arte, in una sorta di limbo, di limite, di varco e soglia in grado di andare ben oltre il noto, l’ovvio e il già sperimentato.

La nascita di una esposizione postuma per Zavattini e di dialogo contemporaneo per Tedesco, in una comunione di…inediti, è diretta derivazione della scoperta e conoscenza da parte dell’artista bolognese della Collezione Massimo Sopraniche fu segretario e amico del maestro Zavattini – da cui sono giunti al KAPPA-NöUN gli autoritratti, quei minuti tesori di pittura materica e di rivelazione estetica notturna, di matrice inconscia, in cui il poetare lasciato alle parole ed alla scrittura è traslato nel colore, nella densità della traccia, nella lucidatura dell’impasto al fine di catturare la luce e quel vuoto in cui siamo immersi senza accorgercene, eppure spaventandocene.

In tale solco, lo studio di Marcello Tedesco per l’opera e il pensiero di Cesare Zavattini, approfondito nell’inverno 2021, ai tempi della mostra ‘Aspettando Za’, negli spazi del mtn | museo temporaneo navile di Bologna da lui diretto, ha preso nuovo corpo durante il susseguirsi dei lockdown pandemici, dettando il ritmo ontologico nel lavoro creativo di Tedesco in veste d’artista, grazie alla “necessità di vedere l’arte come, essenzialmente, la capacità di introdurre nel mondo nuovi contenuti di pensiero, e, dunque, nuovi comportamenti” suggerisce Vergine, definendo una importante e fondamentale linea che ha accomunato i due artisti.

In che modo Marcello Tedesco ha dialogato con Cesare Zavattini? In modo certamente complesso – e non poteva essere altrimenti – ma anche onirica in un certo qual modo. Muoversi nello spazio espositivo ha significato per i visitatori diventare parte di un processo simbolico mnestico e lirico in grado di generare una forte ed invisibile attrazione magnetica tra gli autoritratti di Cesare Zavattini ed il gruppo scultoreo di Marcello Tedesco, una sorta di esplorazione esplorativa agente nello spazio così come la materia ha agito nelle pitture zavattiniane e nel cloruro di sodio utilizzato da Tedesco all’interno della scultura.

Nello spazio KAPPA-NöUN, nato dall’intuizione del lungimirante collezionista Marco Ghigi, A VRÉS, ha messo in scena una conversazione dal linguaggio polisemico in cui l’indagine della e sulla realtà ha mostrato quel dinamismo intrinseco dell’idea in quanto tale, in quanto forma ideale da traslare nel reale. L’allestimento, che ha sfalsato percettivamente le profondità dello spazio ospitante e riportato al dialogo sguardo e opere, corpo e opere, alto e basso, basso e alto, in una nuova costruzione polare, ha asservito la funzione stessa della relazione tra pieno e vuoto, in una dimensione duale imprescindibile.

Il vuoto, infatti, inteso sia da Zavattini che da Tedesco, non è una sospensione di mero passaggio od una dimensione spaventosa e respingente, bensì un fluttuante riferimento di nuova istanza, la sintesi perfetta tra ciò che è stato e ciò che ancora non è, il luogo – o non luogo – ove gemmano le idee, come suggerisce Antongiulio Vergine nel suo testo critico.

Come le pennellate “arvers” di Zavattini (“rovesciate”, in dialetto luzzarese) e le cavità scultoree di Tedesco, il vuoto costituisce, dunque, un cosciente tentativo di sondare l’impensato, di interrogare il pensiero su nuove prospettive di visione.

Nelle parole del curatore si innervano i processi più profondi che hanno attualizzato il dialogo ideale tra i due artisti, in cui lo spirito di compensazione ha parso prendere il sopravvento in modo del tutto misterioso eppure predittivo per Zavattini, accogliente per Tedesco.

Se, invero, nella ricerca portata avanti dalla poetica di Zavattini – letteraria e pittorica – la delineazione è offerta da una analisi quasi ossessiva del sé e dell’essere umano, inteso come soggetto-oggetto di una indagine necessaria, restituita in A VRÉS attraverso una pittura certamente tormentata, vulcanica e non ingenua come talvolta intesa, l’operare di Tedesco insiste sui prodromi di quei nuovi paradigmi già citati, nei quali l’intersezione tra materia e sua sparizione – chimica, fisica, sensibile, grazie all’azione straordinaria dell’alchimia che il cloruro di sodio provoca a contatto con l’aria, o il vuoto visibile – agisce per dissolvimento nella forma, nella terracotta che funge da utero esistenziale in cui il blocco di cloruro, come ossa umane, man mano scompare, trasformando la sua permanenza nel reale.

Una vitalità, dunque, che, nel vuoto, nell’inespresso, nell’ossimoro filosofico e libero del pensiero dialettale, genera nuove istanze latrici del manifestarsi d’una epifania pronta a liberarsi e librarsi in una nuova dimensione ontologica e filosofica, ove il non più attinge al fu per una sorta di grazia laica ricevuta. Un’espressione in potenza, pertanto, i cui frutti sono ravvisabili in un ulteriore istante ex post che è futuro alla mostra stessa, al pensiero medesimo.

Esigere parola dal vuoto non è, così, più utopia, bensì è nuova costruzione idiomatica, i cui simboli – come nelle forme ossessive di Zavattini, così nei dettagli del sigillo di Tedesco che tornano tradotte in più materie – propongono all’altro da sé, a chi ha scelto di stare in ascolto, di osservare, di oltrepassare il limite, un nuovo abbecedario, tangente ai sogni che non hanno la forza di giungere – senza mediazione dell’arte – nell’hic et nunc.

Azzurra Immediato

Azzurra Immediato, storica dell’arte, curatrice e critica, riveste il ruolo di Senior Art Curator per Arteprima Progetti. Collabora già con riviste quali ArtsLife, Photolux Magazine, Il Denaro, Ottica Contemporanea, Rivista Segno, ed alcuni quotidiani. Incentra la propria ricerca su progetti artistici multidisciplinari, con una particolare attenzione alla fotografia, alla videoarte ed alle arti performative, oltre alla pittura e alla scultura, è, inoltre, tra primi i firmatari del Manifesto Art Thinking, assegnando alla cultura ruolo fondamentale. Dal 2018 collabora con il Photolux Festival e, inoltre, nel 2020 ha intrapreso una collaborazione con lo Studio Jaumann, unendo il mondo dell’Arte con quello della Giurisprudenza e della Intellectual Property.