Maniac, la serie che è una grande e assurda trappola mentale

Gioca con la psiche e con i generi la nuova serie di Cary Fukunaga, che forse chiede troppo agli spettatori ma si salva grazie ad attori eccezionali. Dal 21 settembre su Netflix

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"Sento come se provassi tutte le emozioni", dice a un certo punto GRTA, la potentissima intelligenza artificiale, molto empatica, che sta al centro di Maniac, e non c'è frase che potrebbe meglio descrivere l'effetto della nuova serie Netflix che debutta il 21 settembre sulla piattaforma di streaming. Scritta da Paul Sommerville di The Letftovers e da Cary Fukunaga del primo True Detective, che dirige qui anche tutti gli episodi (e in futuro anche James Bond), questo è un viaggio nelle complessità delle mente, congegnato per rivelare la fragilità disperate delle nostra percezione del mondo ma anche per esaltarne le contraddizioni più assurde.

Tutto parte dai due protagonisti, presentati ognuno nei due episodi iniziali: Owen Milgram (Jonah Hill) è un giovane schizofrenico, cresciuto in una ricca famiglia che lo mette ai margini (pure nel ritratto di famiglia) e che crede di vedere ovunque segnali che lo porteranno prima o poi a salvare il mondo; Annie Landsberg (Emma Stone) non riesce ad elaborare la morte della sorella, cosa che la getta in un abisso di depressione e dipendenza. I due si incontrano nei laboratori della Neberdine Pharmaceutical, un'azienda farmaceutica che promette una cura sperimentale ma rivoluzionaria per qualsiasi trauma mentale: "Vi sistemeremo", è la promessa a cui sono sottoposte le cavie a pagamento.

Grazie a una serie di pillole e all'intervento manipolatore di GRTA, che fa rivivere i momenti più traumatici della vita degli individui e fornisce poi loro degli scenari in cui superarli, i protagonisti dovrebbero dunque tornare al mondo felici ed equilibrati. Qualcosa va ovviamente storto, Owen e Annie si trovano dunque legati indissolubilmente, inseguendosi di scenario in scenario: sono una strampalata coppia degli anni Ottanta alla caccia di un lemure, oppure i protagonisti di una storia di mafia o ancora di spionaggio, per finire in mezzo a elfi ("Il fantasy è il genere che amo meno", dirà Annie) e alieni blu.

La struttura della serie è estremamente ambiziosa e in qualche punto sembra richiedere fin troppa pazienza da parte degli spettatori, soprattutto quando ripropone il loop mentale dei personaggi trasmutato ogni volta sotto una veste diversa. Inoltre spesso l'approccio alla narrazione sembra quasi del tutto parodico: il dottor James Mantleray (un plastico e spassoso Justin Theorux), responsabile dell'esperimento, che incontriamo per la prima volta intento in una complessa masturbazione virtuale, è a sua volta un uomo sull'orlo di una crisi di nervi, pieno di tic e paure. La sua assistente, la dottoressa Fujita, fuma in continuazione e non esce mai dai 77 piani dei laboratori, a sottolineare che a volte anche chi cura avrebbe bisogno di cure.

Chi è familiare, poi, con la Dharma Initiative di Lost oppure con la Divisione 3 di Legion troverà qualcosa di già visto nell'estetica retrofuturistica che domina la serie, con tanto di assistenti informatici asiatici, grafiche in 8 bit, misteriose eminenze grigie che parlano attraverso televisori (ma alcuni servizi immaginati in questo futuro anteriore, come gli amici fittizi, sono intuizioni astute). Un paio di scene decisamente splatter, uscite da un film di Tarantino o dei Coen, aumenta la sensazione che l'intento sia quello di giocare sui generi e sulle suggestioni, e in qualche modo anche strizzare talmente l'occhio allo spettatore arrivando a un passo dal prenderlo in giro.

Quello che salva Maniac è il livello altissimo della recitazione: con c'era dubbio che un premio Oscar come Stone avrebbe fornito un'interpretazione versatile e di altissimo livello, ma questa è superata da quella di Hill, finora noto soprattutto per ruoli grotteschi in Superbad, This Is The End, The Wolf of Wall Street; qui invece rivela una capacità drammatica eccezionale, trasformandosi in una maschera dolente e disperata, restituendo tutto il dramma di una mente franta. Immensa è anche Sally Field, nei panni della bizzarra Greta Mantleray, madre scostante di James e psicologa molto pop, ma anche in quelli della stessa GRTA, modellata proprio sui suoi metodi di analisi delle personalità (da dove Field tragga questa sua intensità è spiegato anche nel suo recente memoir, In pieces, dove racconta di aborti illegali e molestie). Vederla dialogare con se stessa in diverse fasi umorali è una gioia che solo il suo talento poteva regalare.

Dopo dieci episodi (nessuno dei quali supera i 45 minuti, benaccetta rarità in questi tempi di binge watching frenetici) questa serie riesce a ricomporre le sue storie, ripagando in qualche modo lo spettatore della pazienza: in fondo questa non è solo una riflessione sulla difficoltà di distinguere cosa è reale e cosa no, ma è anche un'esperienza catartica che invita a liberarsi dei fardelli della vita che tanto appesantiscono il percorso e che spesso però fatichiamo a lasciare andare. Maniac sembra essere proprio questo: un'esperienza non certamente semplice ma positivamente liberatoria proprio nel momento in cui si conclude.