Civil War: recensione del film diretto da Alex Garland
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    Civil War: recensione del film di Alex Garland

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    Alex Garland ha la capacità di anticipare temi, suggestioni ed eventi destinati a entrare nel dibattito pubblico. Lo ha fatto con la sceneggiatura di 28 giorni dopo, una delle associazioni cinematografiche più immediate e inquietanti fatte durante la pandemia, ma anche con il suo Ex Machina, che già nel 2015 rifletteva sui rischi e sui dilemmi etici legati all’intelligenza artificiale. Un’abilità che rende ancora più raggelante il suo ultimo progetto Civil War, con cui il cineasta britannico mette in scena un’America al collasso, devastata da una vera e propria seconda guerra civile.

    Con ancora negli occhi e nella mente le dolorose immagini dell’assalto al Campidoglio statunitense del 6 gennaio 2021, ci immergiamo nella distopia di Alex Garland, in cui un Presidente dalle inclinazioni dittatoriali (Nick Offerman) ha portato all’insurrezione di alcuni stati (Texas, Florida, California) e alla conseguente guerra civile. Seguiamo così un gruppo di giornalisti, composto dalla fotoreporter Lee (Kirsten Dunst), dalla fotografa in erba Jessie (Cailee Spaeny) e dai giornalisti Joel (Wagner Moura) e Sammy (Stephen McKinley Henderson). I quattro sono diretti verso Washington con un obiettivo ambizioso, cioè intervistare proprio il presidente statunitense, sempre più isolato e sul punto di capitolare. Durante il viaggio, il gruppo ha modo di toccare con mano il barbaro livello raggiunto dalla società statunitense, nonché le profonde divisioni che la muovono.

    Civil War: l’inquietante monito di Alex Garland sul prossimo futuro dell’America

    Civil War è il progetto più costoso (circa 50 milioni di dollari di budget) della A24, casa di produzione e distribuzione sempre più importante per il panorama audiovisivo, grazie a titoli in grado di fondere il cinema di genere con una profonda critica sociale. Una casa che prende il suo nome da una strada o meglio da un’autostrada, cioè la Roma-Teramo, su cui il co-fondatore Daniel Katz stava viaggiando quando ha avuto l’idea di creare l’azienda. Civil War fondamentalmente è proprio la cronaca di un lungo viaggio su una strada, che separa i protagonisti dalla capitale. Anche se in questo caso la destinazione è fondamentale, nonché teatro di uno dei finali più incendiari del cinema statunitense recente, la grande tradizione del road movie ci insegna che ciò che conta di più è proprio il viaggio.

    Durante il loro spostamento, i quattro protagonisti (portatori a loro volta di quattro punti di vista diversi sul mondo e sul giornalismo) scoprono i risvolti più cupi e sinistri della guerra civile, fatta di diffidenza, paura, torture e addirittura di esecuzioni sommarie. Un teatro bellico di cui non ci vengono fornite le precise coordinate (la figura del Presidente è certamente più simile a Trump che a Biden, ma fra i secessionisti ci sono sia il repubblicano Texas sia la democratica California), in quanto Alex Garland non è tanto interessato ad attribuire colpe e responsabilità, quanto piuttosto a indagare le conseguenze della deriva della civiltà statunitense contemporanea.

    La seconda guerra civile americana

    Nel suo percorso di avvicinamento a Washington, Civil War indaga soprattutto sui concetti di verità e oggettività, legandoli alla figura del giornalista e all’immagine, che spesso è in grado di sintetizzare un evento o addirittura un’intera epoca, tagliando però fuori dall’inquadratura molti elementi utili a delinearne la storia. Fra ambizione e sensazionalismo, i protagonisti vivono il conflitto con quattro diversi punti di vista giornalistici: Joel vuole lo scoop, rappresentato da un’intervista o da una dichiarazione dell’ultimo Presidente degli Stati Uniti per come siamo abituati a conoscerli; Lee desidera lo scatto della vita, ciliegina sulla torta di una carriera che l’ha portata a essere un mito della fotografia; Jessie vuole seguire le sue orme, scoprendo il mondo e trasformando la passione in lavoro; Sammy infine è figlio di un giornalismo purtroppo morente, che mette al primo posto l’esperienza di un evento e l’analisi ragionata su esso.

    Durante il viaggio, i quattro hanno l’opportunità di confrontarsi sulle rispettive posizioni, toccando con mano un caos che è solo l’ultimo atto di un racconto fatto di divisioni politiche, populismo, complottismo, disinformazione e razzismo («Che tipo di americano sei?»). Il quadro che ne emerge è in bilico fra la satira alla base del gioiello di Joe Dante La seconda guerra civile americana e l’Apocalisse preconizzata dal recente Il mondo dietro di te, privo di vincitori ma con svariate vittime di un odio strisciante, basato sulla propaganda, sulla mera ideologia e soprattutto sulle menzogne.

    Civil War: fantasia o realtà?

    Lo scontro totale, suggerito dal materiale promozionale e preparato con cura da Alex Garland, arriva nell’atto conclusivo ambientato a Washington, comprensibilmente non eccelso dal punto di vista della ricostruzione di un vero e proprio scenario bellico, ma devastante sotto il profilo emotivo. Le icone del potere e del mito degli Stati Uniti d’America vengono messe a ferro e fuoco dal caos e dalla scomparsa di qualsiasi freno inibitorio civile o morale, dando vita a un quadro quasi insopportabile di violenza e rabbia, che genererà discussioni e polemiche ma allo stesso tempo rimarrà impresso a lungo nell’immaginario cinefilo contemporaneo.

    Gli scatti cercati e le dichiarazioni desiderate arrivano, ma a caro prezzo. Gli ultimi agghiaccianti minuti di Civil War sanciscono infatti il trionfo della vendetta sul dialogo, l’annullamento della politica in favore dei più biechi istinti, la fine della civiltà per come la conosciamo. Alex Garland ci lascia così profondamente scossi e turbati, interrogandoci sulle nostre responsabilità nel progressivo deterioramento della società e lasciandoci con il più urgente e importante dei quesiti: Civil War è solo una cruenta e fantasiosa distopia o una credibile anticipazione di ciò che stiamo per sperimentare sulla nostra pelle?

    Civil War arriverà nelle sale italiane il 18 aprile, distribuito da 01 Distribution.

    Overall
    8.5/10

    Valutazione

    Alex Garland firma una distopia dolorosa e inquietante, tracciando lo sconfortante quadro di una civiltà americana al collasso, per poi deflagrare in un epilogo di pura violenza e malvagità, che rimarrà a lungo impresso nei ricordi degli spettatori.

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    Back to Black: recensione del film su Amy Winehouse

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    Back to Black

    A proposito dello splendido biopic a lui dedicato Rocketman, Elton John ha dichiarato: «Gli studios volevano ridurre le scene di sesso e droga, così che il film non fosse vietato ai minori di 13 anni. Ma io non ho vissuto una vita adatta ai minori di 13 anni». Parole che tornano alla mente di fronte a Back to Black, film diretto da Sam Taylor-Johnson basato sulla vita e sulla carriera della compianta Amy Winehouse, morta a soli 27 anni per un’intossicazione da alcol. Un’esistenza baciata dal talento vocale e musicale, ma allo stesso tempo afflitta da droga, alcol, disturbi alimentari e dal rapporto tossico con Blake Fielder-Civil, il più grande amore della cantautrice.

    Dopo Amy, documentario di Asif Kapadia premiato con l’Oscar ma pesantemente criticato dalla famiglia della cantautrice, Sam Taylor-Johnson e lo sceneggiatore Matt Greenhalgh scelgono la via della semplificazione e dell’edulcorazione, smussando i tanti spigoli dell’esistenza della protagonista, interpretata da Marisa Abela. Il risultato è un racconto frammentario e abbozzato, che ha indubbiamente il merito di non spettacolarizzare i momenti più dolorosi e pubblicamente esposti della vita di Amy Winehouse, ma al contempo si ferma alla superficie dei suoi disagi e delle sue fragilità, con uno sguardo decisamente indulgente nei confronti della famiglia. Famiglia che – è giusto ricordarlo – ha ereditato il patrimonio artistico ed economico della cantautrice e ha autorizzato Back to Black.

    Back to Black: la vita di Amy Winehouse in un biopic timido ed edulcorato

    Credit : Courtesy of Ollie Upton/Focus Features

    Back to Black mette in scena la repentina ascesa di Amy Winehouse, che nel giro di pochi anni la porta dai locali di Camden Town ai prestigiosi Grammy Awards, che nel 2008 la premiano con ben 5 riconoscimenti per il suo album più celebre, omonimo della sua canzone più amata e dello stesso racconto di Sam Taylor-Johnson. Una carriera costellata da successi ma anche da forti delusioni, come la separazione dei genitori, la morte dell’amata nonna Cynthia (Lesley Manville) e soprattutto il rapporto traballante e traumatico con Blake Fielder-Civil (Jack O’Connell), ampiamente raccontato nei brani di Amy Winehouse. Il tutto sotto lo sguardo vigile ma impotente del padre Mitch Winehouse, interpretato da Eddie Marsan.

    Il rapporto di Sam Taylor-Johnson con la musica è forte e longevo, grazie alla regia di videoclip per Elton John, R.E.M. e The Weeknd, alla sua opera prima Nowhere Boy (basata sull’adolescenza di John Lennon) e al suo personale contributo per diversi brani dei Pet Shop Boys. Non sorprende che questo cammino abbia condotto la regista verso questo progetto, mentre spiazza il suo approccio alla protagonista e alla sua arte. Durante Back to Black si ha costantemente la sensazione che il film nasca e si sviluppi per spiegare le canzoni di Amy Winehouse.

    Una dinamica per certi versi opposta a quella della cantautrice, che invece per tutta la sua breve carriera ha riversato nella sua musica tutta la sua vita, elaborando sofferenze sentimentali, traumi ed esperienze personali in brani come Rehab, You Know I’m No Good, Love Is a Losing Game e la stessa Back to Black. Così facendo, da una parte la regista nobilita il percorso artistico della protagonista, ma dall’altra limita fortemente un racconto potenzialmente esplosivo.

    Una vita vietata ai minori

    Back to Black
    Credit : Courtesy of Ollie Upton/Focus Features

    La vita vietata ai minori di Amy Winehouse si trasforma in un’opera timida e ovattata, sorretta solo dalla buona prova di Marisa Abela e dalle note di una delle migliori voci degli ultimi decenni, strappata troppo presto a tutti gli amanti della musica. Fin dalla prima apparizione di un canarino, metafora urlata, ridondante e francamente insopportabile della fragilità e del talento musicale di Amy Winehouse, si intuisce lo spirito dell’intero progetto, improntato alla maggiore pulizia possibile dell’immagine della protagonista e allo scarico della responsabilità delle sue disgrazie su Blake Fielder-Civil.

    La biografia torbida di quest’ultimo è ben nota, come la sua influenza negativa su Amy Winehouse, ma Back to Black compie puro revisionismo, riducendo la dipendenza dalla droga e la bulimia della protagonista a poche goffe e contraddittorie allusioni, escludendo dal racconto l’evidente crollo fisico e psichico degli ultimi mesi della sua vita e trasformando la controversa figura del padre in silenziosa e rassicurante spalla su cui piangere. Nonostante la prevedibile onnipresenza dei brani più celebri di Amy Winehouse, a passare paradossalmente in secondo piano è proprio il suo amore per la musica e il suo insopprimibile talento. «La musica è il mio centro di recupero», le sentiamo dire. Ma è solo un cenno dialogico, annacquato in quella che è fondamentalmente la storia di due diversi amori di Amy: l’amore dannoso per Blake e il rapporto materno e amicale con l’adorata nonna Cynthia.

    I limiti e i pregi di Back to Black

    Back to Black
    Credit : Courtesy of Dean Rogers/Focus Features

    Siamo quindi di fronte all’ennesimo racconto per tutti (quindi per nessuno) di una vita fra musica ed eccessi. Una tendenza inaugurata dal mediocre (ma premiato dal botteghino) Bohemian Rhapsody e proseguita con altre opere incolori come Elvis e Bob Marley – One Love, nobilitata solamente dal già citato Rocketman. In attesa delle prossime uscite di Michael (dedicato a Michael Jackson) e A Complete Unkown (incentrato su Bob Dylan), è inevitabile interrogarsi sulla direzione di queste operazioni, spesso profittevoli e capaci di riportare in auge leggende della musica, ma altrettanto frequentemente del tutto fini a loro stesse.

    Ad accentuare la sensazione di rimpianto è l’operato di Sam Taylor-Johnson, che pur in un contesto moralmente e produttivamente discutibile regala momenti di buon cinema con la ricostruzione della scena musicale londinese e con le numerose performance musicali di Marisa Abela, che omaggia Amy Winehouse senza degenerare nella pura imitazione, con un ottimo lavoro sul timbro vocale e sulla gestualità. Ma il segmento più prezioso è paradossalmente quello dell’incontro fra la protagonista e l’amato/odiato Blake Fielder-Civil, l’unico in grado di trasformare un attimo in una vita intera, con un pregevole lavoro sulla musica e sugli sguardi.

    «Io non sono rock, sono jazz», dice Amy Winehouse in Back to Black, ribadendo il concetto con «Non sono una cazzo di Spice Girl». Peccato che il film faccia tutt’altro, trasformando un’anima ribelle e fuori dagli schemi in una figura passiva, sempre vittima o estensione di qualcun altro e mai padrona della propria vita.

    Back to Black è disponibile nelle sale italiane dal 18 aprile, distribuito da Universal Pictures.

    Overall
    4.5/10

    Valutazione

    Un biopic moralmente e produttivamente discutibile, che smussa i tanti spigoli della vita di Amy Winehouse finendo per dare vita a un racconto troppo timido ed edulcorato.

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    Cento domeniche: recensione del film di Antonio Albanese

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    Cento domeniche

    Non è una storia vera quella di Cento domeniche, ma è un’esperienza in cui si possono riconoscere molte persone, che nel corso degli anni hanno perso i propri risparmi a causa dei crac bancari e delle pratiche scorrette attuate da diversi istituti per caricare sulle spalle dei clienti il peso delle loro gestioni scellerate. Una storia particolarmente cara ad Antonio Albanese, che torna alla regia a 5 anni di distanza da Contromano per dare vita a una dolorosa parabola umana, interpretando il neopensionato Antonio, con il quale condivide non solo il nome, ma anche un passato da metalmeccanico e la profonda conoscenza del territorio fra Lecco e Olginate, ambientazione del film in cui l’attore e regista ha vissuto per molti anni.

    Dopo una vita da tornitore, seguita dal prepensionamento e da una collaborazione con la sua ex azienda per integrare lo scarso assegno mensile, Antonio ha ancora un sogno da realizzare, cioè accompagnare all’altare la figlia Emilia (Liliana Bottone) e provvedere personalmente alle spese del matrimonio con i suoi risparmi. La sua vita apparentemente tranquilla, in bilico fra la cura dell’amata madre (Giulia Lazzarini), le partite a bocce con gli amici e la passionale relazione con Adele (Sandra Toffolatti), di cui è amante, si incrina nel momento in cui scopre che il suo capitale, che credeva investito in obbligazioni, è invece stato convertito in azioni, con il suo incauto e non sufficientemente informato assenso. Nonostante le rassicurazioni della sua banca, in città si intensificano le voci su un imminente crac dell’istituto, con conseguenze devastanti sulla psiche di Antonio.

    Cento domeniche: la discesa nell’abisso di un uomo perbene

    Negli ultimi anni, Antonio Albanese ha messo in secondo piano la sua comicità fatta di personaggi paradossali, concentrandosi prima su una commedia più garbata e misurata, poi su racconti dal chiaro sottotesto sociale. Nel giro di pochi mesi, lo abbiamo infatti visto interprete di un regista intento a mettere in scena uno spettacolo teatrale di detenuti in Grazie ragazzi e di un maestro elementare deciso a salvare la scuola di un piccolo paesino abruzzese in Un mondo a parte. Cento domeniche, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023 e uscito in sala lo scorso novembre, si inserisce perfettamente su questo solco, con un tono ancora più cupo e con punte di vera e propria disperazione.

    Quella che inizia come una commedia dal retrogusto amaro vira infatti progressivamente verso la tragedia umana e sociale, addentrandosi addirittura nei territori dell’intramontabile Un giorno di ordinaria follia di Joel Schumacher. Una discesa nell’abisso persino troppo repentina, che si distacca con una forza inattesa dal panorama delle commedie italiane contemporanee, sempre inclini a essere fintamente rassicuranti. In Cento domeniche invece non c’è davvero niente da ridere o da cui essere rassicurati, perché, come ricordano i titoli di coda, vicende come queste sono realmente accadute a centinaia di migliaia di persone, spinte con l’inganno a trasformare il loro capitale in azioni ben presto diventate carta straccia.

    Sulle orme di Ken Loach

    Mentre alla regia Antonio Albanese guarda chiaramente al cinema di impegno civile di Ken Loach, davanti alla macchina da presa dà ancora una volta prova delle sue notevoli abilità drammatiche, tratteggiando in maniera pregevole l’evoluzione di un personaggio inizialmente animato dall’amore e dalla speranza, poi afflitto dalla paura e dal rimorso e infine totalmente in balìa degli eventi e del tormento interiore. Caratteristi come Elio De Capitani, Bebo Storti e Maurizio Donadoni sono solide ed efficaci spalle, contribuendo a delineare una storia fatta di fragile e imperfetta umanità, ma anche delle sfumature kafkiane di un sistema che riesce sempre a salvaguardarsi ai danni delle persone più oneste e ingenue.

    Certo, le sterzate della storia non sono sempre ben calibrate e il climax conclusivo richiede qualche sforzo in termini di sospensione dell’incredulità, ma questo è il cinema italiano che dobbiamo difendere con le unghie, capace finalmente di distaccarsi da storie borghesi e ovattate per raccontare gli ultimi e soprattutto i penultimi, spesso separati solo da una giornata storta o da una decisione sbagliata.

    Cento domeniche: a tutta velocità verso un finale raggelante

    Cento domeniche corre a tutta velocità verso un finale raggelante, che ricorda la mestizia di alcuni epiloghi della grande commedia all’italiana. Una soggettiva emblematica e un ultimo richiamo al sogno della felicità chiudono un cammino angosciante, che ci lascia disillusi e sconfitti, ma anche più consapevoli dei rischi a cui andiamo incontro quando decidiamo di affidare a qualcuno il frutto dei sacrifici di un’intera esistenza.

    Cento domeniche al momento è disponibile su Prime Video e Now.

    Overall
    8/10

    Valutazione

    Antonio Albanese firma un’opera dolorosa e angosciante, che parte dalla commedia per poi virare decisamente verso la tragedia.

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    Abigail: trailer, trama e cast del film di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

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    Abigail

    Il 16 maggio arriverà nelle sale italiane Abigail, nuovo horror firmato da Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, già autori di alcuni terrificanti successi dell’horror moderno come Finché morte non ci separi, Scream e Scream VI. Il film è scritto da Stephen Shields (Hole – L’abisso, Zombie Bashers) e Guy Busick (Scream, Finché morte non ci separi), abili tanto nella creazione di atmosfere horror quanto nella gestione di abbondante e sanguinolento black-humour.

    La protagonista del film è la giovanissima attrice e cantante irlandese Alisha Weir, nota soprattutto per la sua prova in Matilda The Musical, che qui veste i panni di Abigail, una dodicenne con la passione della danza, figlia di un misterioso e inquietante personaggio della malavita. La ragazza viene rapita da un gruppo di malviventi, intenzionati a ottenere un ingente riscatto. Rinchiusi in una villa isolata insieme all’ostaggio, il gruppo si rende però ben presto conto che la ragazza è una persona tutt’altro che ordinaria.

    Nei panni dei rapitori ci sono Melissa Barrera (Scream, Sognando a New York – In the Heights), Dan Stevens (Gaslit, Legion), Kathryn Newton (Ant-Man and the Wasp: Quantumania, Freaky), William Catlett (Black Lightning, True Story), Kevin Durand (Resident Evil: Retribution, X-Men le origini – Wolverine) e Angus Cloud (Euphoria, North Hollywood). Completa infine il cast Giancarlo Esposito, universalmente conosciuto per la sua interpretazione di Gus Fring in Breaking Bad e Better Call Saul. Diamo un’occhiata a quello che ci aspetta attraverso il trailer.

    Il trailer ufficiale italiano di Abigail

    Questa la sinossi ufficiale del film:

    Dopo che un gruppo di aspiranti criminali ha rapito una ballerina dodicenne, figlia di un potente personaggio della malavita, tutto ciò che devono fare per riscuotere un riscatto di 50 milioni di dollari è sorvegliarla durante la notte. In una villa isolata, i rapitori iniziano a sparire uno dopo l’altro e scoprono, con crescente orrore, di essere rinchiusi con una ragazzina non comune.

    In conclusione, ecco il poster ufficiale del film, dal 16 maggio nelle sale italiane grazie a Universal Pictures.

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