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Boogie Nights – L’altra Hollywood

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VOTO: 8

Sex, drug & disco music

È con un piano sequenza flessuoso e rococò, degno di Jean Renoir e Max Ophüls, che il cinefilo Paul Thomas Anderson si infiltra nel discobar di Maurice Rodriguez e lo perlustra per presentarci le principali dramatis personae. Tallonati al loro ingresso fino al tavolo a cui non tarderanno ad accomodarsi sono il filmmaker Jack Horner e la vedette di film per adulti Amber. Ma, nel locale, scalpitano anche altri estrosi figuri, come Reed, uno stallone destinato a effimera gloria, e Rollergirl, riassumibile come un corpo accattivante e malamente coperto, una testa non troppo satura d’intelletto e due pattini che, per il fatto di non essere mai tolti, regalano alla loro titolare lo pseudonimo di cui sopra. Non sorprenda che tutti lavorino nell’industria pornografica. That’s The Valley, baby. San Fernando, L. A. E, nel 1977, quando il soggetto di Boogie Nights prende l’abbrivo, è quella la capitale ecumenica del hard. Va da sé che il sontuoso movimento di macchina con cui Anderson apre il suo secondo lungometraggio non è una mera ostentazione di abilità tecnica o un capriccio del direttore della fotografia, il solito, entusiasmante Robert Elswit. Anderson ci suggerisce, infatti, da subito, che la sua opera non si limiterà a contemplare il panorama di un’epoca, ritmata dalla disco che, con la canzone degli Heatwave, procaccia al film il più idoneo dei titoli, e dal requiem dell’utopia hippie, ma si addentrerà in quella folta e intricata foresta di destini umani annodati e interdipendenti che è la realtà. Un approccio che sarebbe piaciuto ad André Bazin, perché applica la reprimenda del critico sull’abuso del montaggio e mostra perspicuamente come la sua assenza sappia tradurre la complessità del filmato e l’intrinseco policentrismo dell’azione. Certo, Anderson non si è mai astenuto dalla riflessione (per immagini) sulle peculiarità e potenzialità del medium di cui è maestro. Non è d’altronde di uso corrente gonfiare a 70 mm i film, come ha voluto lui per The Master. Boogie Nights, dal canto suo, è un caso dall’interesse doppio, perché il regista non solo calca la mano sulle possibilità espressive della settima arte, ma si avventura in un film, a tutti gli effetti, metacinematografico…
Dietro il banco del night-club, spunta un giovane smunto. No, lui non appartiene al mondo brillantinato dello show-business. Si chiama Eddie Adams e fa il garzone. Non è bello, non è intelligente e non è neanche troppo simpatico. Un uomo senza qualità senza riferimenti a Robert Musil e al suo salace, adorabile Ulrich. La genialità di Anderson nel delinearne la vacuità sta tutta nell’avvantaggiarsi dell’inespressività letargica di Mark Wahlberg, attore che non rischia certo di essere incoronato come  l’erede di Peter Sellers e che, breve digressione, fu arruolato dopo la rinuncia di Leonardo Di Caprio, rivelandosi perfetto per la parte. L’unica attrattiva che il suo Eddie può vantare sta all’altezza del cavallo: un pene portentoso. Del quale, manco a dirlo, Eddie va fiero, esibendolo in tutta la sua possanza durante i tragicomici accoppiamenti con la fidanzata. Notato da Jack e da lui scritturato, Eddie diverrà fulmineamente Dirk Diggler, il pornodivo più amato d’America, protagonista, in coppia con Reed (John C. Reilly), di una pletora di titoli trionfali. Si aggiudicherà i più prestigiosi premi di settore (tra cui uno per il fallo) e guadagnerà un mucchio di soldi. Ma a un ragazzo dal cervello gracile come lui, un’esistenza di continue lusinghe e tentazioni può solo strappare la bussola di mano, per gettarla in una delle piscine faraoniche ai cui bordi la festa e la bisboccia non sono mai finite. La rituale precipitazione nella tossicodipendenza e un tenore di vita improntato a spese dissennate rappresenteranno dei problemi insidiosi quando, nel giro di pochi anni, la mole del lavoro scema e l’unico che continua a idolatrare Diggler è l’assistente impersonato da un tenero, insopportabile Philip Seymour Hoffman, innamorato respinto. Eddie finirà con l’inabissarsi nel sordido Tartaro della prostituzione e della malavita, fino quasi a rimetterci le penne.
Una storia già sentita, in fondo. E non solo perché la caduta di Eddie si ispira liberamente alla vicenda di John Holmes, ma perché nel 1988 il diciottenne Anderson licenziava, come cortometraggio d’esordio, The Dirk Diggler Story, un mockumentary dedicato, appunto, al personaggio che sarà poi al centro di Boogie Nights. Figura che deve essersi aggrappata all’anima del suo creatore, se Anderson ci avrebbe scritto e diretto sopra una motion picture che, uscita nel 1997, venne accolta con un vibrante consenso dalla stampa e valse all’autore una nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura (sberleffi della sorte, altre due sarebbero seguite, nella medesima categoria, invano; quanto a Vizio di forma, si vedrà).
Come il Brian De Palma di Omicidio a luci rosse, nelle scene sui set “proibiti” Anderson evita di vellicare gli impulsi voyeuristici dello spettatore, riducendo il catalogo delle sconcezze a un’asciutta ricostruzione d’ambiente. E non è tanto denunciare la mercificazione del corpo e della sessualità umani nella società capitalistica che preme al regista, com’era, ad esempio, per il Paul Schrader di Hardcore, quanto sviluppare, all’interno della frastornante mascherata californiana di Dirk Diggler, i temi di cui è, fin dal debutto, imbevuta la sua filmografia, e una Weltanschauung penetrata da un lancinante sconforto sulla posizione dell’uomo nel mondo. Se la relazione ondivaga, cangiante ma, in  fondo, irriducibile tra padri e figli è incardinata nella poetica dell’artista, Boogie Nights ne offre uno dei primi saggi. Certo, il vincolo, in Anderson, è difficilmente biologico e parentale, come accade in Magnolia, ma, sovente, ha i tratti sfuggenti di un rapporto intergenerazionale, declinato al maschile, tra individui incontratasi, per le più diverse ragioni, lungo il viale della vita. Così per Sidney, Il petroliere, The Master. E così pure per Boogie Nights, in cui Horner rappresenta, per Adams, un surrogato del genitore: è infatti Jack, un signore di mezza età dall’impeccabile contegno, affidato alla bonomia sorniona da Golden Globe e chiamata (infruttuosa) agli Oscar di Burt Reynolds, ad avviare Eddie al successo, a scrutarne con scoramento la perdizione, a riaccoglierlo sotto la sua ala protettrice quando ormai il giovane è sul ciglio della scarpata.
E, oltre a ciò, cosa vi è di più centrale nell’immaginario di Anderson, se non il cinema? Si torna così all’argomento di pocanzi. Il sottotitolo, L’altra Hollywood, affibbiato dalla distribuzione italiana è, per una volta, indovinato, perché Boogie Nights è un film sul cinema e la San Fernando Valley è una Hollywood in incognito (ma neppure troppo), popolata dalla stessa smania di notorietà, da un analogo culto delle apparenze, da un arrivismo e da un cinismo altrettanto acidi e, dietro il sipario del glamour, da identiche nevrosi e identici fallimenti. Amber, una splendida Julianne Moore candidata cum laude all’Academy Award, è una madre che, a causa degli stupefacenti e del contesto che bazzica, ha perso la custodia del figlioletto ed è smembrata dalla sofferenza; la Rollergirl di Heather Graham è, a sua volta, una disadattata che crede di aver abbattuto i ponti con un umiliante passato salvo ritrovarsi coinvolta, nel corso di uno spettacolo trash, nell’adescamento del compagno che, a scuola, la trattava con sussiego e finire col picchiarlo a sangue. Da almanacco la sequenza in cui le due donne sniffano cocaina forsennatamente rinfacciandosi le reciproche disgrazie, mentre la cinecamera, con i suoi sussulti, sembra inseguire i loro neuroni impazziti.
Ed è un audiovisivo che si misura, sospettoso e smarrito, con l’innovazione tecnologica quello che Anderson colloca sul proscenio. L’avvento del videotape sta dirottando la produzione a luci rosse sul home-video, ciò che costringerà un renitente Jack, professionista con una sua concezione estetica, a riprendere con la telecamera e a confezionare prodotti sempre più avvilenti. Non è balzano scorgere in Horner gli interrogativi che percorrevano la mente degli autori del grande schermo, e perciò anche di Anderson, quando veniva realizzato Boogie Nights, e il digitale principiava a imporsi come un’opzione con cui confrontarsi seriamente.
Se il digitale si instradava su magnifiche sorti e progressive, è tuttavia difficile, davanti all’opera seconda di Anderson, non lasciarsi assalire da un’idea di sconfitta, dal fetore della putrescenza, nascosta, magari, nelle cantine di un evo storico, economico, civile di baldanza battente. Che il nuovo decennio s’inauguri con l’insanguinato veglione di Capodanno in cui un fallito come il Little Bill di William H. Macy, estenuato dalla puntualità con cui la dissoluta consorte (la vera pornostar Nina Hartley) trasforma ogni party da Jack in un baccanale tra colleghi, ammazza moglie e copulanti vari per poi spararsi, è un passaggio dal valore simbolico più che eloquente. E quando, nel finale, Dirk, a un soffio, ormai, dalla metà degli anni Ottanta, si specchia con i boxer abbassati, in quel membro frusto e grottesco non possiamo che riconoscere il corrispettivo oggettivo di un’esistenza e di un tempo buttati, perduti.
Se Anderson non ha mai nascosto l’ammirazione per Martin Scorsese che, sia nel gusto per inquadrature audaci, sia nello sguardo smaliziato sulla materia affrontata, emerge visibilmente dai suoi lavori, secondo Emanuel Levy di Variety, “like Scorsese’s Goodfellas and Casino, Boogie Nights is a parable of the greedy and decadent 1980s”, come Quei bravi ragazzi e Casino di Scorsese, Boogie nights è una parabola degli avidi e decadenti anni Ottanta. Anni di edonismo chiassoso e plutocrazia, che di mostriciattoli come il povero Dirk Diggler, al secolo Eddie Adams, ne generarono a frotte.

Dario Gigante

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