La baronessa von Freytag. Quel genio di donna che Duchamp ha nascosto - La Stampa

Se non avete mai sentito nominare la baronessa Elsa von Freytag è del tutto normale, è un pezzo di storia che manca, uno dei tanti perché lei è la frizzante dadaista che molto probabilmente ha ideato insieme con Marcel Duchamp il ready made. Lui è conosciuto in ogni dove, lei ignota, però stavano nello stesso salotto, insieme per ore a parlare di arte, a incrociare la vita e sovrapporre i corpi e i pensieri. Lui è un genio, lei è solo morta.

Oggi un film ricostruisce l’intreccio: Alreadymade parte da una provocazione e diventa fascino della ricerca. Alla fine, è impossibile capire chi per primo abbia intuito che un orinatoio in ceramica poteva essere il punto di rottura tra guardare e immaginare, «Fontana» è stata definita «l’opera più importante del XX secolo» e sarebbe assurdo pretendere di riattribuirla, conta scoprire chi fosse la baronessa e quanto abbia influito, quanta parte di lei ci sia nella carriera di un artista che ovviamente resta geniale e che probabilmente è stato egoista. Non ha condiviso i meriti, non ha dato tributi al talento altrui anche perché all’epoca una donna poteva essere insostituibile musa, non certo imperdibile testa. «Alreadymade» viene presentato, in questi giorni, in anteprima italiana, al Pordenone Docs Festival che in questa edizione rianima voci strozzate: donne che hanno fatto la differenza, ma non l’hanno potuta firmare. Sono troppe, tornano vive, non le si conta, meno ancora le si pesa, ci si limita ad ascoltarle. La baronessa è autoironica, rivisitata dalla regista-artista olandese Barbara Visser che la ricompone, grazie a un’attrice, la mette in scena, le dà carne e spirito a partire dalle pochissime immagini che restano di lei, dai frammenti di dialoghi ereditati. Visser parte da un paradosso: «Cinque anni fa ho incrociato questa suggestione e non ho potuto fare a meno di pensare quanto bello sarebbe stato dimostrare che Fontana non è di Marcel Duchamp. Parliamo di un uomo che ha allargato l’orizzonte, ribaltato i limiti: sta su un piedistallo ed è impossibile riconsiderare un valore tanto acquisito. Oppure no? Ho scoperto che la domanda era sbagliata. Proprio fuori fuoco». Lui ha costruito una carriera e lei non ipotizzava nemmeno di poterne avere una, la dinamica tra i due spiega molto più di quanto Fontana potrà mai svelare. Elsa diventa la donna artista, il motivo per cui oggi si fatica a rintracciare altre come lei, l’evidenza che quel buco dentro i secoli non è mancanza di creatività, piuttosto differenza di prospettiva, «Duchamp era un giocatore di scacchi, ogni parola o gesto serviva a costruire la sua immagine, con il preciso intento di tramandarla, Elsa si tuffava nelle contraddizioni, si divertiva a smontare l’ovvio. Senza schemi o obiettivi a lungo termine. Non lo so chi ha deciso di esporre l’orinatoio, presento i fatti, soprattutto ricostruisco un’assenza».

L’autore del libro da cui nasce lo spunto voleva disperatamente che il sospetto fosse vero, la sua è un’indagine a tesi «il che mi ha fatto diventare nervosa». Prendere le parti di Von Freytag o di Duchamp crea una rottura che confonde, è ridicolo discreditare lui per ripagare lei, le si farebbe un altro torto. Serve guardare altro, le dieci foto superstiti di Elsa Von Freytag, le sue poesie, le lettere che ha scritto e che materializzano la difficoltà di esprimersi dentro quella società. Donna stravagante, arrestata per aver fumato in strada, collezionista di oggetti trovati in giro, esperta del nonsense, incapace di dare materia ai propri sogni, di farli stare a terra. Fuori dal tempo si potrebbe dire, ma non è una colpa non essere riconosciuta, «Duchamp la cita spesso, dice pubblicamente che lavorava con lui, ne sottolinea l’estro e l’importanza solo che non lega tutto ciò al suo successo». Per allontanarsi dal punto di vista di lui era necessario trovare la fisicità per lei, «ho selezionato un’attrice performer con cui animare Elsa. Emerge un arto alla volta, grazie a tecniche di computer grafica. Fontana è un gesto estremo, per questo interessa tanto, stabilisce che scegliere è meglio di fare. Il procedimento è di certo anche figlio delle intuizioni della baronessa Von Freytag, indipendentemente da chi ha deciso di piazzare la scultura in una mostra manifesto da cui è stata pure rifiutata». Duchamp era nella giuria di quella esposizione, per questo l’opera porta un’altra firma e il gioco amplifica il potenziale dubbio, anche se il film lo dimentica, si concentra su una donna che può essere tante altre, tutte silenziate.

Il filone concettuale non ha cambiato l’arte, ha aggiunto una possibilità, un diverso punto di osservazione e «Alreadymade» fa lo stesso, non toglie potere a Duchamp, ne dà alla persona che ragionava insieme con lui. Da ogni discorso è nata una prospettiva, «senza questo scambio il lavoro di Duchamp sarebbe stato certamente diverso». E questo non vale per la vita di chiunque? Allora qualsiasi opera è collettiva? «Il sostegno dei rapporti non è sempre processo creativo, però nel 1917 una donna non avrebbe saputo come certificare di farne parte, se ne sentiva insieme partecipe ed esclusa. Ho il sospetto che capiti ancora, ci si muove in un presente che eredita secoli di limiti, sbarazzarsene non è semplice».

I commenti dei lettori