The Gray Man

The Gray Man

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Approdati sotto l’ombrello produttivo di Netflix, i fratelli Russo dirigono con The Gray Man una spy story derivativa ma complessivamente ben orchestrata, che in parte supplisce col ritmo all’inevitabile senso di déjà vu che ingenera. Le psicologie elementari, e qualche lungaggine nella parte finale, inficiano solo in minima parte un risultato portato a casa col minimo sforzo e con una buona dose di mestiere.

Il Grigio braccato

Court Gentry, aka Sierra Six, è un efficiente emissario della Cia, che insieme agli altri membri del Progetto Sierra si occupa di compiere per l’agenzia il lavoro sporco, quello che non può essere dichiarato ufficialmente. Quando, durante un’operazione, Gentry viene in possesso di un file con informazioni compromettenti sul capo dell’agenzia, la Cia scatena ai suoi danni una serrata caccia all’uomo. [sinossi]

Dopo il poco fortunato dramma bellico Cherry – Innocenza perduta, diretto per la piattaforma Apple TV+, i fratelli Anthony e Joe Russo proseguono con questo The Gray Man nella tentata opera di smarcamento dagli stilemi delle loro regie per i Marvel Studios, con cui ormai vengono quasi unanimemente identificati. Un’operazione che stavolta ha portato i due fratelli registi in casa Netflix, per quello che, con un budget di 200 milioni di dollari, è il film più costoso dell’intera storia della piattaforma. Ispirato al romanzo omonimo di Mark Greaney, questo nuovo lavoro dei Russo si inserisce nel filone della moderna spy story, recuperandone tanto le suggestioni più stagionate – quelle bondiane, precedenti alla rivisitazione del personaggio per opera di Sam Mendes e Daniel Craig – quanto quelle più vicine nel tempo, legate alle saghe cinematografiche dei vari Mission: Impossible e Jason Bourne. Un filone che, a ben vedere, i Russo avevano già toccato tangenzialmente nella loro prima regia per la Marvel, quel Captain America: The Winter Soldier che, guardando a certo thriller politico anni ‘70, riusciva ancora a tenere a bada la tendenza alla programmatica smitizzazione – e all’humour non sempre contestualizzato – che ha caratterizzato gran parte della successiva produzione dello studio di Kevin Feige. E in fondo, a ben vedere, molta dell’estetica Marvel (nel bene e nel male) è finita anche in questo nuovo lavoro, dal ritmo forsennato alla tendenza a gigioneggiare di entrambi gli interpreti principali, protagonista e antagonista piazzati attentamente nelle rispettive caselle, coi volti di Ryan Gosling e Chris Evans.

The Gray Man sfrutta abilmente il motivo del personaggio braccato, topos che attraversa trasversalmente tanto la spy story quanto il thriller d’azione, declinato qui nell’ottica di un cacciatore che diventa preda. Una figura che Ryan Gosling interpreta con una certa efficacia, per una prova che è in gran parte fisicità umorale – con qualche rimando al personaggio da lui interpretato nell’indimenticato Drive di Nicolas Winding Refn – e in piccola (ma fondamentale) misura attitudine alla smitizzazione e alla programmatica autoironia. Una componente, quest’ultima, in cui di nuovo fa capolino l’eredità dei Marvel Studios, diffusasi un po’ a pioggia in molto dell’action occidentale moderno, anche quello più lontano dal cinema di supereroi e dall’estetica fumettistica. In questo senso, il personaggio di Court Gentry/Sierra Six riesce almeno a tenere a freno l’attitudine allo scherzo e all’alleggerimento forzato, per gran parte del film giocati nel segno dell’understatement, venendo superato in questo – con una scelta ben ragionata da parte della sceneggiatura – dalla sua nemesi col volto di Chris Evans: quest’ultimo, col suo approccio costantemente sopra le righe al personaggio – tanto grottesco quanto dichiaratamente fuori da un ritratto di villain a tutto tondo – risulta forse tra gli elementi più riusciti del film. Due figure, quelle a cui danno vita i due interpreti principali, che comunque restano rigidamente incasellate nei rispettivi ruoli, ivi compresa la presenza di un background familiare, nel personaggio di Sierra Six, che lascia invero il tempo che trova.

Non è comunque la definizione dei personaggi, né l’appena accennato sottotesto familiare (nel motivo del rapporto del protagonista con la nipote del suo reclutatore) il punto focale di The Gray Man, che presenta figure – Gosling compreso – che restano corpi in movimento più che caratteri a tutto tondo; pedine meccanizzate di un gioco di gatto e topo che, come vogliono le più elementari regole del genere, si snoda su un palcoscenico globale, tra Asia, Europa e America. Un gioco che i due registi dimostrano comunque di saper orchestrare con efficacia, con una gestione delle scene d’azione che (al netto di qualche ripresa aerea di troppo) risulta quasi sempre pulita e abbastanza leggibile. Ciò che si può semmai imputare a questa nuova regia dei Russo, al netto dell’elementarità – dichiarata – del suo impianto narrativo, è semmai l’incedere forzatamente sovraccarico, la tendenza a sovrapporre il più generale ritmo narrativo – che può essere fatto anche di dialoghi e parentesi “statiche” – al ritmo della singola sequenza. Un male che affligge invero molto del cinema d’azione mainstream dell’ultimo ventennio, e che qui rischia sovente di ingenerare tedio: un rischio che il film tocca più volte, nelle sue due ore di durata, ma che riesce quasi sempre a schivare grazie a un plot che, nella sua essenzialità e nella voluta elisione di qualsiasi problematizzazione psicologica, tocca con mestiere e scaltrezza le corde giuste.

A dispetto di una costruzione narrativa che ha anche il torto di non valorizzare al meglio le figure di contorno (in primis un’interprete valida come Ana de Armas, il cui personaggio resta funzionale unicamente al poco contestualizzato ruolo di spalla femminile), The Gray Man mantiene comunque il suo ritmo con un certa costanza, restando aggrappato a quel mix di impianto realistico e iperstilizzazione fantastica che riesce a favorire, anche nelle sequenze più giocattolose, la sospensione dell’incredulità. Nell’ultimo quarto d’ora il film tende comunque a dilatare artificialmente il racconto, presentando alcune forzature narrative – espresse in particolare nel confronto tra i due protagonisti, e in tutto ciò che lo segue – tese soprattutto a lasciare la porta aperta a eventuali sequel. Una scelta in fondo prevedibile (e comprensibile) che tuttavia una scrittura più attenta avrebbe potuto conciliare meglio con la sempre presente necessità di coerenza e compattezza narrative. Ma, come si sarà capito, il film dei fratelli Russo non ha certo in una sceneggiatura sopraffina il suo principale pregio: proprio a questo proposito, non si può fare a meno di domandarsi cosa sarebbe stato del film se a scriverlo e dirigerlo (com’era nel progetto iniziale) fosse stato un regista come James Gray. Domanda certamente oziosa, inevitabile quanto destinata a restare – altrettanto inevitabilmente – senza risposta.

Info
The Gray Man, il trailer.

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