Annie Starke, figlia di Glenn Close, e le «relazioni virtuose»

L’ultimo set l’ha condiviso con sua madre, «un modello da seguire». Su Hollywood ha idee chiare: il mito sopravvalutato della perfezione fisica, i provini infelici (ma quante risate!) e un film che le piacerebbe molto interpretare. Indovinate quale?
Annie Starke figlia di Glenn Close e le «relazioni virtuose»

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 30 di «Vanity Fair», in edicola fino all'1 agosto.

Si è sposata a fine giugno con Marc, il suo fidanzato di sempre: matrimonio festoso e chic nella tenuta di famiglia a Bedford, vicino a New York. Tra i presenti, le figlie di Demi Moore e Bruce Willis, qualche Kennedy e, ovviamente, la mamma: Glenn Close. Annie Starke, 30 anni, è l’unica figlia dell’attrice e dell’ex compagno, il produttore John Starke. Da bambina, ha giocato con i cani della Carica dei 101 sul set del film a Londra, poi si è laureata in Storia dell’Arte e ha resistito a lungo prima di arrendersi al fatto che anche il suo destino era il cinema.

Nel film The Wife - Vivere nell’ombra, tratto da un romanzo di Meg Wolitzer, in arrivo in Italia il 4 ottobre, è insieme alla madre anche se, tecnicamente, non hanno scene in comune. Il film racconta di uno scrittore (Jonathan Pryce) in procinto di vincere il premio Nobel. Close è la moglie che gli è stata vicina fin da quando era una sua studentessa (nei flashback la interpreta Annie, appunto) e che è la vera artefice del suo successo. Ci incontriamo in un appartamento del palazzo Proper Residences di Los Angeles. Annie ha uno sguardo azzurro strepitoso, una risata contagiosa, diversi tatuaggi (una freccia, un pettirosso, il motto dello stemma di famiglia che dice fortis et fidelis) e soprattutto un modo di fare semplice e schietto che ti fa venire voglia di proseguire la conversazione andandoci a spasso insieme.

Quando ha capito che sarebbe entrata nel mondo dello spettacolo anche lei?«Quando ho finito gli studi c’è stato come una specie di “coming out”. Prima cercavo di nascondermi, forse temevo di essere troppo banale! Poi ho finalmente accettato l’idea di fare l’attrice e soprattutto ho accettato l’idea che questo è il lavoro che amo, nonostante tutto».

Nonostante cosa, esattamente?«Rispetto a quando mia madre ha iniziato a lavorare, la natura stessa della professione è completamente alterata dalla questione della popolarità e dai social media. Io la penso un po’ alla vecchia maniera. La vita privata è sacra e non capisco perché la gente dovrebbe essere interessata ai fatti miei. Oggi sto su Instagram ma non è che lo sappia davvero usare come dovrei. Facebook l’ho mollato già nel 2008.Ho capito che non mi serviva a niente».

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Visto che non si perde sui social come molti, che cosa fa nel tempo libero?«Mia madre ha fondato con mia zia e mio cugino un’associazione che si chiama Bring Change to Mind che si occupa di combattere la discriminazione e lo stigma sulle persone colpite da malattie mentali. Mia zia Jessie, la sorella minore della mamma, è bipolare e suo figlio Calen è schizofrenico. Si tratta di malattie che non impediscono una vita normale e sono curabili, con i farmaci e il supporto, sia da parte di professionisti che di familiari e amici. Jessie e Calen girano l’America raccontando la loro storia e dimostrando che non sono, come si usa dire, dei poveri matti, anzi. Una persona su quattro negli Stati Uniti vive con questi disturbi, è ora che se ne cominci a parlare. Esattamente come abbiamo imparato a parlare del cancro».

Il tema di The Wife è «dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna ma nessuno lo sa». A che cosa le ha fatto pensare?«Alle mie nonne. Quella paterna era un chimico molto in gamba che fu costretta a smettere di lavorare per occuparsi della famiglia, e quella materna era una donna brillantissima e colta nonostante non avesse studiato, per i soliti motivi: non si usava, mio nonno era medico, lei lo seguì in Africa dove lui lavorò per quasi vent’anni e dove mia madre è cresciuta. So che considerava il fatto di non essere andata all’università una vera tragedia».

The Wife è un film femminista. Dopo l’esplosione del #metoo, qui in America si dice che ci sia il rischio di un salto all’indietro.«Ah, non credo proprio. Il primo atto è finito, forse è stato anche un po’ estremo, ma così doveva essere. Però adesso abbiamo una voce e la faremo sentire. Io sono ottimista, penso che la qualità del lavoro e dei rapporti migliorerà per le donne, deve migliorare. Indietro non si torna».

Lei sente la pressione «estetica» di Hollywood?«Quando sono andata a fare il provino per una delle amazzoni di Wonder Woman mi hanno mandata a casa senza troppi complimenti. Del resto, avevano ragione loro: non si sono mai viste amazzoni basse come me (ride). Parlando sul serio: è molto difficile non paragonarsi a quello che è considerato il tipo fisico ideale. Però è anche vero che lo stereotipo non è più unico: grazie ai contenuti di tante piattaforme diverse, dalla tv a Netflix, si cercano facce e corpi più vicini alla realtà che alla perfezione. E poi diciamolo: la perfezione è sopravvalutata!».

Quando va ai provini, la gente è più gentile con lei perché sa che è la figlia di Glenn Close?«No, anche perché io evito di dirlo e il fatto di avere un cognome diverso aiuta. A volte capita il contrario, non si simpatizza facilmente con i figli di».

Peggior provino?«La battuta era: “e se pensassimo a un’adozione?” e io, distratta, ho detto “e se pensassimo a un aborto?”. Anche lì, mi hanno mandata a casa e avevano ragione. Però si sono fatti due risate».

Se potesse interpretare il remake di uno dei film di sua madre, quale sceglierebbe?«Le relazioni pericolose!».

Miglior consiglio di sua madre?«Più che un consiglio, il suo esempio. Amare quello che si fa ma imparare a separare il lavoro dalla vita privata».

Consigli più pratici? Tipo: come stare sul red carpet?«Guaine contenitive per appiattire la ciccia! Per me Sara Blakely, la tipa che ha inventato gli Spanx, meriterebbe un premio Nobel. Ho anche avuto la fortuna di conoscerla».

Se potesse inventare qualcosa di utile, lei che cosa inventerebbe?«Io non sono in grado, ma chiedo a Sara Blakely di inventare qualcosa per chi, come me, ha il seno abbondante. Abbiamo vita difficile con i vestiti, ma nessuno lo capisce».

Se smettesse di recitare, che cosa farebbe?«Sono una brava cuoca, cucino anche per gruppi numerosi, tipo tutta la famiglia nel Giorno del Ringraziamento. Quindi penso che aprirei volentieri un ristorante oppure cercherei di fare qualcosa come il programma di Anthony Bourdain, viaggiando e raccontando l’umanità attraverso il rapporto con il cibo. Lui è stato il mio idolo, ha reso il mondo un luogo migliore e ancora non posso credere che non ci sia più».

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